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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Un romanzo sullo scrivere romanzi - “Prima esecuzione”, il libro di Domenico Starnone

di Rivista Orizzonti

«La letteratura dovrebbe avere la funzione di farci sognare, ma anche al momento opportuno di darci bruschi scossoni».



Dal riso amaro sui mille problemi della scuola, che lo hanno reso celebre e da cui sonno stati tratti i film “La scuola” e “Auguri professore”, la scrittura di Domenico Starnone ha deviato percorso, consegnandoci poi l’analisi di un rapporto travagliato tra padre e figlio in “Via Gemito”, «un libro che, per dimensioni, per forza, ma anche per l’enorme massa di dolore messa in circolo, rappresenta una svolta, un punto di arrivo, ma anche di non ritorno», per usare il commento del critico Pietro Cheli. In “Via Gemito”, che ha ottenuto diversi riconoscimenti e premi tra cui il prestigioso Strega, l’autore aveva adoperato tutta la sua forza narrativa, senza riserve, al punto tale che era difficile immaginare, sempre seguendo il ragionamento di Cheli, cos’altro ancora avrebbe potuto scrivere da lì in poi.
E la risposta è arrivata con “Labilità” prima, e soprattutto con il suo ultimo romanzo “Prima esecuzione”, poi. Due libri «spiazzanti», per la complessa stratificazione tematica e, sul piano formale, per lo sperimentalismo, contrassegnato dall’andirivieni tra realtà e finzione, in un intreccio, non sbrogliabile, tra autobiografismo e finzione narrativa.
E, come ci ravvisa lo stesso Starnone, è quest’ultimo l’aspetto unificante dei suoi libri, che possono risultare tematicamente tanto diversi e tanto distanti a primo impatto.

«In realtà i libri non si programmano, vengono uno dietro l’altro. È probabile che, presi in sé, sembrino delle sterzate. Io sento i libri che ho scritto, invece, molto coerenti tra di loro, se parto dal tema che in realtà mi ha interessato sempre e che seguita a interessarmi: il rapporto tra l’esperienza autobiografica e l’invenzione narrativa».
Una struttura, questa mescolanza tra i due piani, presente sin dai primissimi libri.

«Ai lettori dei miei libri scolastici, ancora oggi è difficile spiegare che “Ex cattedra” (che pareva scritto in presa diretta sui fatti che accadevano a scuola nel 1985-86) era in realtà un libro d’invenzione, che giocava però su una esperienza diretta. Usavo materiali, miei e dei miei colleghi, degli anni passati in cui avevo fatto l’insegnante e mi ero occupato degli studenti, dei problemi della scuola, e li mescolavo con una mia competenza in quel particolare tipo di letteratura che ha una sua lunga tradizione, che è la narrazione della scuola.
Quando uscivano le puntante sul “Manifesto” – [“Ex cattedra” è nato da una rubrica di Starnone, dove ogni domenica esponeva il resoconto settimanale sulle condizioni di lavoro nella scuola superiore, ndr] – arrivavano le lettere di insegnanti che erano convinti che io raccontassi realmente quello che accadeva in classe in quei giorni. C’era chi chiedeva: “Perché i colleghi di Starnone permettono che lui racconti pubblicamente quello che avviene nella sua scuola?”. C’erano anche quelli che dicevano: “Chi è Domenico Starnone, chi si nasconde dietro questo nome? Le cose che racconta sono accadute esattamente nel collegio della nostra scuola!”.
La vita nella scuola era quella; pertanto il racconto scolastico funzionava come resoconto di fatti realmente avvenuti e tuttavia era trattato letterariamente. Era un gioco d’invenzione, quale è il rapporto appunto tra le cose che ci accadono veramente e il momento in cui le inventiamo, le organizziamo come narrazione. Io credo che sia una di quelle cose di cui si può fare racconto. È possibile raccontare ciò che accade mentre ci sforziamo di trasformare la vita, l’esperienza, in racconto.
Questa cosa accade anche nel mio libro seguente “Il salto con le aste”, dove è presente un brusco cambiamento di ruolo tra chi racconta e chi è raccontato. Lo stesso “Via Gemito” è nella sostanza percorso dalla presenza del personaggio dell’autore che attraversa la Napoli degli anni Novanta per andare a cercare la memoria, le tracce, lasciate da suo padre, qualcosa di molto simile a quella che poi accadrà in “Labilità” e in “Prima esecuzione”.
E non è un gioco letterario, è il bisogno di approfondire sempre di più il nesso tra biografia e invenzione, tra esperienza comune di vita, che è sempre disordinata, confusa, caotica, e il momento del racconto, che invece è ordine, selezione, esclusione di fatti che non vale la pena di narrare».

Questa connessione vita-racconto che ritorna, più o meno esplicitamente, in ogni opera dello scrittore, è intensificata in “Prima esecuzione”, definito “un romanzo sullo scrivere romanzi” o “metaromanzo” per l’intervento dell’autore sulle vicende del suo protagonista.
Il protagonista, Domenico Starnone, è un uomo di 67 anni, che sin dalle prime pagine appare saggio e dotato di una benevolenza saccente, con il bisogno di liberare le vite degli oppressi. Lo fa attraverso la forza delle parole, così come ha operato negli anni dell’insegnamento, abituando i ragazzi al ragionamento. Ora che è un insegnante in pensione e vedovo, e potrebbe vivere i momenti della solitudine, viene posto di fronte a un bivio da Nina, sua ex allieva indagata per banda armata: agire – sganciandosi finalmente dalla sua astrattezza di rivoluzionario a parole – o rimanere nella propria “stasi”.
Da quanto detto, appare evidente che il tema centrale è il terrorismo. Ma non solo. È, più precisamente, la difficoltà di scrivere un romanzo sul terrorismo, in modo lineare e definitivo.
Alla storia di Domenico Stasi, infatti, si aggiunge in parallelo quella del suo autore, Starnone, che ragguaglia i lettori sull’evoluzione della trama, sul perché delle scelte narrative operate, sulle implicazioni autobiografiche della vicenda.
Emblematico in questo senso è il titolo “Prima esecuzione” che rimanda al significato di prima stesura, la prima versione di un’opera letteraria che, in quanto tale, è sempre modificabile nelle revisioni successive.
Come sostiene Pietro Cheli, «Starnone ci porta dentro la sua bottega – come un artigiano che ci mostra i suoi strumenti, come un orologiaio che tira fuori le pinzette e s’interroga su quale attrezzo usare per riparare la cassa dell’orologio, come un pittore che deve decidere le tinte e i colori da utilizzare – ci fa partecipi delle sue scelte sullo sviluppo della trama, sul rapporto tra Domenico Stasi e Nina (e altri personaggi), ed elementi autobiografici. Domenico Starnone reinventa la sua esperienza – anche lui ha avuto un ex alunno coinvolto nelle nuove brigate rosse – e inserisce elementi di autobiografia che si proiettano, come delle schegge, e dai quali noi lettori veniamo coinvolti».

C’è un rapporto tra verità e finzione talmente forte che siamo portati a costruirci da noi quale sia il finale.
« “Prima esecuzione” è un momento per me importante. È il tentativo di affrontare un tema complesso, utilizzando una scrittura, una costruzione narrativa che non è quella normalmente usata, specialmente oggi. Non c’è una storia che comincia e finisce e che deve portare il lettore dalla prima pagina al finale. Oppure questa storia c’è ma, come scopriremo andando avanti, è una storia incompiuta. L’autore della storia ha pensato: “cercherò di finirla”, poi però ci ha rinunciato e ha cercato un’altra via. L’altra via è risistemarla, usando i pezzi già compiutamente scritti e integrandoli con appunti, con ipotesi di dialogo e di sviluppo narrativo che non ha ancora scartato e che forse non scarterà mai perché la storia non si compirà mai. Il libro è costruito in modo che il lettori entri nella storia dell’anziano professore, che cerca un contatto con una sua alunna sospettata di partecipazione a banda armata, e che una volta entrato si abitui anche a un altro tipo di andamento: quello dello scrittore che sta ordinando la sua storia. Il lettore viene a conoscenza dei materiali di cui quella storia si nutre – materiali autobiografici, piccoli accadimenti quotidiani, letture, ricordi, ripensamenti e invenzioni, ipotesi che nascono ma che non è detto che siano tenute nel racconto e ipotesi che si contraddicono tra di loro, momenti in cui lo scrittore ricorda fatti che gli sono realmente accaduti e momenti in cui li rimpasta, li racconta e quindi li reinventa. La scommessa è che a una narrazione del genere, che corre su due versanti – quello della storia raccontata che deve portarci comunque da qualche parte e quello della fatica e del piacere di costruirla, di pensarla, di inventarla – ci si possa appassionare come alle comuni narrazioni, a cui siamo abituati. I due fatti, lo scrittore che sta risistemando il suo racconto e il racconto che intanto vi svolge, spesso si accostano in modo tale che arrivano a confondersi. Chi legge non sa più, almeno per qualche pagina, dove agisce il personaggio di invenzione e dove invece si muove il personaggio-scrittore, tanto che i due piani si confondono. La scrittura è questa.
Quanto all’argomento del libro, è un tema ancora oggi carico di tensioni e che sentiamo dappertutto, non solo in Italia, tutte le volte che accendiamo la tv. Di fronte a un mondo che non funziona in nessuna parte del globo, che mostra divisioni, ingiustizie, torti, e diritti non rispettati, che mostra un’offesa all’essere uomini, qual è il confine tra il momento in cui tendiamo ad accettarlo e modificarlo con gli strumenti leciti che abbiamo a disposizioni e quello in cui siamo tentati dall’uso della violenza? Qual è il momento in cui, pur detestando la violenza, sentiamo che le ragioni di chi la mette in atto sono molto vicine all’indignazione che stiamo provando noi in quell’istante? A questo proposito è significativo un piccolo aneddoto, all’interno del libro, di un uomo comune che di fronte a un’ingiustizia, a un torto, all’arroganza, insorge; e nel momento in cui passa, solo per un attimo, il limite delle buone maniere, della civiltà, scopre dentro di sé una furia incontrollabile. In realtà per un fatto banale, un insulto razzista nei confronti della donna nera, questo anziano professore scopre in quel momento che potrebbe ammazzare. Al centro del libro c’è la violenza di chi ha buone ragioni, quel senso di distruzione e di autodistruzione che insorge quando sentiamo che il mondo è orrendo e non è modificabile. Al centro del libro c’è questo».

Un altro elemento di riflessione è l’incontro di Stasi con un collega, Luciano, con cui aveva vissuto anche momenti di familiarità e d’impegno, negli anni Settanta, quando entrambi erano giovani insegnanti.
«Luciano è un ex compagno di lotta, di militanza, di scuola, di vita, che poi si è trasformato nel tempo in altro, mentre Stasi è rimasto più o meno coerente con se stesso e ha seguitato a guardare il mondo in maniera molto critica. Analizzando le parole che si scambiano, non dal punto di vista politico o culturale, ma restando sul piano della letteratura, è come se Luciano gli dicesse: “sospendi la credulità, smetti di affidarti a sogno e fantasia” e Stasi, che sembra schierato insistentemente e totalmente dalla parte della letteratura, gli rispondesse: “sospendi l’incredulità, e cerca di pensare il mondo in maniera diversa da com’è, e quindi seguitiamo nell’idea che è possibile trasformarlo”.
In realtà la letteratura ha questa funzione: sospendere l’incredulità e costruire sotto gli occhi del lettore “realtà” che sono mondi virtuali, che servono da mappa, a volte da consolazione, da strumento critico. Io tendo a diffidare di coloro che dicono: “sii ragionevole, stai con i piedi per terra” perché in realtà sono la negazione di qualsiasi possibilità reale di pensare un mondo diverso da quello che si presenta a noi. Sembra che stiano sempre lì a segnare il limite delle cose possibili e di quelle probabili. “Un congegno”, come quello messo su con “Prima esecuzione”, però, è come se si collocasse al confine tra i due personaggi e dicesse: “forse la funzione della letteratura, oggi, è sospendere l’ “incredulità”, ma badando anche a sospendere la “credulità”. Cioè la letteratura dovrebbe avere la funzione di farci sognare, come fa di solito, ma anche al momento opportuno di darci bruschi scossoni, come succede a chi al risveglio si sente un po’ disorientato e poi comincia a vedere il mondo che ha attorno. Io non ho mai creduto alla letteratura che serve solo a fare sognare. La letteratura è un organismo complesso di parole, che ha le funzioni più diverse, ed ha un momento sicuramente “letterario”, un momento primario.
Quando ci capita una cosa siamo confusissimi, non sappiamo neanche raccontarla, ci batte il cuore e basta, poi che facciamo? Corriamo al telefono, accendiamo il cellulare, diamo notizia di quello che ci è successo e già quel racconto diventa un’ipotesi di lavoro, un modo di guardare la realtà intorno. Le cose si sistemano. Poi però ci accorgiamo che molti particolari nella narrazione sono rimasti esclusi e quindi sentiamo che c’è bisogno di ricominciare a raccontare per recuperarli.
Il racconto è una continua battaglia per continuare ad aggiornare la mappa del mondo dentro cui ci muoviamo».

(Articolo di Teresa Filomeno, pubblicato su Orizzonti 33)


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