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Con naturalezza Paolo Sorrentino, che coltivava evidentemente già dentro di sé la pratica della scrittura, ha consegnato alle stampe un libro sorprendente, che ha immediatamente catturato l’attenzione dei lettori, della critica e della stampa. E il perché è presto detto: il suo “Hanno tutti ragione” è un romanzo che funziona.
Funziona la storia; e soprattutto il suo personaggio, Tony Pagoda, che calamita dentro di sé tanti mondi, tante modalità di pensiero, li metabolizza e restituisce, facendo di sé un soggetto da grande palcoscenico.
Pagoda non è una creazione nuova, ma il prolungamento e l’approfondimento di un altro personaggio, Antonio Pisapia, protagonista del suo film “L’uomo in più”. Ma sarebbe ingiusto considerare il libro una sorta di divagazione, o una parentesi, della sua attività di regista, perché questo è un romanzo vero e proprio, arrivato non a caso in finale allo Strega 2010.
In queste pagine, come in una sorta di memoriale, ci viene raccontata la vita di Tony Pagoda, sregolata, piena, vissuta ferocemente. Ha quarantaquattro anni, è un cantante da night che ha conosciuto il successo, e poi l’ombra. Nel momento di discesa della sua carriera, per staccare da se stesso e dal suo passato, si è trasferito in Brasile dove resta per diciotto lunghi anni. Dopo questo buco nero, ritorna in Italia e la storia finisce in una Roma crepuscolare, che viene definita vuota e desolante.
Attraversiamo così, accompagnati dalla voce di Pagoda, acida, ossessiva, ma riflessiva e profonda nella sua svagatezza, le sue esperienze e riflessioni: s’interroga sul senso delle cose, con il timore che la vita sia solo “‘na strunzata” (come affermato anche da Antonio Pisapia nel film “L’uomo in più”), e ciononostante cerca ugualmente un valore in quello che fa. I ragionamenti di Pagoda sono caratterizzati da lucidità feroce, eccitazione maniacale; conseguenza anche dell’uso di cocaina, da cui il protagonista dipende.
«Il personaggio del libro è lo stesso del film - ha spiegato Sorrentino - solo che col passare del tempo gli ho trovato un cognome che mi piaceva di più: cioè Pagoda, più bello di Pisapia. Ma il libro non c’entra niente con il film. Per me, quel personaggio, il cantante di musica leggera degli anni ’70, è una fonte d’ispirazione inesauribile e può dar vita a storie diverse. E questo per due motivi. Il primo è che ha una caratteristica primaria, che gli invidio molto e che purtroppo a me manca: la vitalità; in poche parole, è “ottusamente” innamorato della vita. La sua ottusità è un vantaggio sugli altri, piuttosto che uno svantaggio, e infatti se la cava brillantemente in tantissime situazioni, pur non avendone in teoria i mezzi. Il secondo motivo è che offre una possibilità enorme di attraversare più mondi: all’epoca de “L’Uomo in più” mi documentai e rimasi colpito da questa figura, che passa con disinvoltura dalla frequentazione dei malavitosi a quella di gente colta, dall’uso delle droghe alle situazioni squallide con l’universo femminile, ma che poi diventa capace di grandi guizzi poetici, al momento della scrittura dei testi delle canzoni. Per chi come me, prova a mettere il becco in tanti mondi, questo cantante è un Caronte meraviglioso, che porta dappertutto senza mai perdere credibilità».
L’ambiente che fa da cornice alla storia è quello sgangherato della musica melodica: di chi in passato ha avuto i soldi, le donne, il talento, soprattutto una passione, che però col tempo è “scaduta”, e impassibile ha continuato anche nel presente a fare musica, senza chiedersi se riesce ancora a commuoversi.
La voce è libera, forte. Si muove con grande fluidità nello spazio e nel tempo, con accelerazioni temporali e rallentamenti bruschi, in una sorta di “viaggio dell’anima” (questa la bella definizione della scrittrice Melania Mazzucco), che attraversa il Purgatorio e l’Inferno dei nostri anni; basti dire che la prima metà del libro occupa grosso modo lo spazio temporale di una domenica e, al contrario, i diciotto anni in Brasile sono sintetizzati in pochi capitoli.
E, oltre all’acume delle osservazioni, colpisce nella voce narrante il sentimento profondo di pietà verso i personaggi perduti: che hanno perso la loro bellezza, o la loro innocenza, che non hanno più niente. Verso coloro che, insomma, sono stati depauperati.
«Da tanti anni pensavo di scrivere questo libro, da quando lavoravo alla sceneggiatura de “L’uomo in più”. Il passaggio dallo scrivere sceneggiature al romanzo non è stato traumatico, forse perché, quando ho iniziato a scrivere sceneggiature, sono stato indirizzato, dalle persone con cui ho collaborato, verso un approccio che avesse delle vicinanze con la letteratura, e ben lontano, quindi, da tutte quelle sceneggiature, che pure ci sono, così schematiche da assomigliare ai verbali di polizia. Le persone con cui ho cominciato, tra cui il regista napoletano Antonio Capuano, mi hanno spinto alla costruzione di una sceneggiatura che fosse debitrice della letteratura».
«Il libro è nato col preciso intento di provare a far ridere. Quindi, come forma di puro divertimento - ha continuato Sorrentino -. Far ridere è una mia ossessione, e penso che al cinema mi riesca molto poco: anche se sono numerosi i tentativi in quella direzione, a quanto pare passano inosservati, visto che nessuno ride. Allora mi sono dato un’altra possibilità con il libro (sorride, ndr). Alcuni amici che lo hanno letto, mi hanno detto che hanno riso. Per me, se qua e là si riesce a ridere, il risultato è stato ampiamente raggiunto».
Il libro, con l’espediente del ritorno del protagonista in Italia, affronta nel finale un argomento caro al regista, spesso trattato anche nelle sue pellicole: l’opportunità di parlare del nostro Paese, a volte in tono grottesco, mostrandone vizi e malcostumi. L’Italia di “Hanno tutti ragione”, è quella orrenda e devastata degli ultimi anni. Entrando nei dettagli della narrazione, dal Brasile Pagoda viene richiamato in Italia da uno strano personaggio (un “politico-che-può-tutto”) per suonare per lui nel capodanno del 1999; e il confronto con la cronaca è inevitabile.
«Mi serviva una figura che ci portasse nell’oggi, a Roma, dopo vent’anni di assenza dall’Italia - ha precisato l’autore -. Pagoda fa fatica a mettere a fuoco gli accadimenti; che poi è più o meno ciò che capita a tutti noi, anche senza essere stati lontani dall’Italia. M’interessava dargli l’alibi, legato all’assenza dal Paese, per inserire elementi che mi stavano a cuore: l’incapacità di comprendere e il bisogno di farsi spiegare. E allora in questa parte, dopo aver tanto parlato, Pagoda si limita ad ascoltare strani personaggi che dovrebbero saperne più di lui, tra cui uno scrittore: tutti tipi ambigui, molto tristi. E consapevoli anche loro di essere profondamente intristiti».
All’apertura di ogni capitolo vengono appuntati i versi di una canzone di un cantante famoso (Modugno, Mina, Tenco, Bertè, solo per citarne alcuni).
«È un omaggio ai parolieri della musica leggera italiana, del “mare-cuore-amore”, i quali, oltre a questo percorso, hanno avuto delle improvvise ispirazioni ed hanno dato vita, qua e là, a delle parole molto belle: quelle che ricordavo e che sono stato in grado di recuperare le ho messe nel libro, perché mi sembrava che avessero un grande valore letterario».
In ogni epoca della vita, Pagoda ha incontrato personaggi straordinari e miserabili, maestri e compagni di strada, e da ognuno ha saputo imparare. A tale proposito, Sorrentino ha confidato: «Ho trasferito al personaggio un aspetto che in minima parte fortunatamente ho: la curiosità nei confronti di molti esseri umani, e questa curiosità spesso mi porta anche a farmi da parte e ad ascoltarli. Pagoda, sebbene sia un personaggio egocentrico e invasivo, ruota attorno a delle figure, o perché magari più “grandi” di lui, o perché riconosce in loro una marcia in più - come ad esempio in quella del criminale, che ha un passo sulla vitalità più veloce del suo, e lo stesso Pagoda lo comprende e gli arranca dietro».
Il linguaggio è ricco, metaforico, inventivo. Oltre alle risate amare e ironiche, c’è però anche la capacità di raccontare la malinconia, quando Pagoda incontra i vecchi amici di un tempo e in quel momento si rende conto che non potrà più essere centrale alla sua vita: che la vita è passata.
«La malinconia è un sentimento che, mentre lo vivi, sembra negativo, però ad un certo punto ti fa provare nostalgia di uno stato che reputavi brutto - ha confidato Sorrentino -. Per quanto riguarda il linguaggio, questo libro vive molto del napoletano che è stato italianizzato nel corso degli anni, soprattutto nelle zone in cui ho vissuto io e quindi si può assistere alle volte a un modo di parlare piuttosto stravagante: quando la piccola borghesia italianizza il napoletano prendono vita delle costruzioni linguistiche che fanno sorridere, e questa cosa ho provato a trasferirla nel romanzo.»
(Articolo di Teresa Filomeno, pubblicato su Orizzonti n. 38)
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