| Alda Merini vive in una piccola casa ai Navigli di Milano. Ha un viso dolce, un’espressione serena che fa un certo effetto, se si pensa ai dodici anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio. È stata un talento precoce Alda Merini: esordiente come poeta a sedici anni, subito recensita da Giacinto Spagnoletti, ed inserita nell’Antologia della poesia italiana curata dallo stesso per la Guanda nel 1950. Quelli furono gli anni in cui Alda Merini cominciò a frequentare Giorgio Manganelli ed il circolo di Luciano Erba, Maria Corti, David Turoldo. In questi anni si manifestano i primi segni della malattia mentale che la porterà in seguito ad essere internata per un lungo periodo. L’esperienza coinvolgerà immancabilmente la scrittura, così come del resto tutta la vita della Merini.
La scrittrice spazia con incredibile disinvoltura dalla poesia alla prosa, e tuttavia, è difficile incasellare o definire prosa alcuni suoi scritti, impregnati di un lirismo emozionante e disinvolto. In quello che scrive c’è il suo dolore, la sua vita, le persone che ama o ha amato: da Manganelli a Quasimodo, dal primo marito Ettore Carniti, a Michele Pierri. E poi le figlie, gli amici, il Naviglio, i genitori. Tutto narrato in un interscambio, una commistione di stile dove la prosa rivela la trama dei versi, e la poesia si traduce in immaginifica prosa. Così il suo vivere quotidiano si alleggerisce e si stempera in ironia e passione, per superare il male di vivere.
LEI HA INIZIATO A SCRIVERE GIOVANISSIMA, È STATA INCORAGGIATA IN QUESTO DALLA SUA FAMIGLIA?
«Quando Giacinto Spagnoletti lesse le mie poesie e mi segnalò ufficialmente, ero così orgogliosa che portai subito la critica a mio padre. Lui, dopo averla letta, me la strappò in faccia, dicendo: “Di poesia non si vive, ricordatelo!” Ma oggi non gli porto più rancore».
IN CHE MOMENTO DELLA SUA VITA HA DECISO CHE AVREBBE VOLUTO SCRIVERE?
«Da sempre. Adesso so solo che saper scrivere è come essere condannati a vivere».
IN CHE SENSO?
«Nel senso che anche dopo morto, il poeta è utile agli altri, perché è un’essenza. Sopravvive a se stesso suo malgrado».
COSA LE HA PORTATO VIA, L’ESPERIENZA IN UNA CASA DI CURA PER MALATTIE MENTALI?
«Almeno dodici anni di vita. Non so neanch’io come è cominciata. Il primo è stato un vero e proprio ricovero coatto, dopo una lite con mio marito. A quel tempo - era il 1965 - ero molto esaurita, preda di quello che viene comunemente chiamato “il male oscuro”. Fatto sta che mio marito si spaventò tanto del mio stato che mi fece ricoverare al Paolo Pini di Milano, convinto anche dai suoi parenti. Dopo quell’esperienza, ci sono tornata altre volte spontaneamente: per paura di non farcela, per solitudine. Era diventato una specie di rifugio quell’ospedale per me, anche se mi sottoponevano all’elettroshock, che mi annichiliva il corpo e l’anima. Ma a quel tempo nessuno sapeva curare questo tipo di male. Mettevano addirittura i depressi insieme ai paranoici, agli schizofrenici pericolosi, senza alcuna distinzione».
COME È CAMBIATA LA SUA VITA, E LA SUA SCRITTURA, DOPO QUESTA ESPERIENZA?
«Agli inizi scrivevo soprattutto poesie d’amore. Ero giovane e idealista. Poi ho scritto di solitudine, rassegnazione, dolore. Comunque il manicomio mi ha dato anche molto dal punto di vista umano: avevo tanti amici veri lì dentro. Persone fragili, buone. Dopo la legge Basaglia li hanno fatti uscire tutti, ma nessuno li voleva più: né i familiari, né gli amici, tantomeno la società. Così sono morti, per la strada. Questo perché il malato di mente è un puro, uno che non ha difese dalle aggressioni del mondo, come il vero poeta».
DURANTE L’INTERNAMENTO CONTINUAVA A SCRIVERE?
«Avrei voluto, ma gli infermieri ci toglievano penne e matite, perché li consideravano oggetti pericolosi. Così a volte scrivevo con le dita sulla polvere dei tavolini. Ma tutto svaniva nel nulla».
MALGRADO QUESTA TERRIBILE ESPERIENZA NELLE SUE OPERE, SIA DI PROSA CHE DI POESIA, SI AVVERTE UNA GRANDE PASSIONE PER LA VITA, A VOLTE PERSINO VIOLENTA.
«Amo tanto la vita, ma non amo la quotidianità, fatta di socializzazione forzata, di competizione a tutti i costi, di aggressività fine a se stessa».
COME COMMENTEREBBE LA FRASE DI VAN GOGH “ANCHE LA FOLLIA, SE PORTA QUALCOSA DI CREATIVO, NON È UN MALE"?
«Penso che la follia è un percorso di dolore purificatore, inevitabile per uno scrittore. Non è necessariamente da considerarsi una malattia. Una volta uno psichiatra definì il mio tipo di intelligenza “patologica”. Ma come si può definire l’intelligenza? È una pura presunzione. Bisogna avere amore per la complessità della mente umana, e non cercare di imbrigliarla ad ogni costo in settori e patologie. Personalmente sono grata ad un personaggio come Maurizio Costanzo, che quando mi invitò nella sua trasmissione, parlò subito di poesia, raccontando del mio caso, e non di follia o di malattia mentale».
COMUNQUE OGGI È MOLTO AMATA ...
«Sì, molti mi ammirano: basta che me ne stia da parte».
CHE COSA L'HA AIUTATA A RESISTERE AGLI ANNI IN QUELL’OSPEDALE?
«La fede. È un grande principio di salute mentale la fede. L’uomo ne ha bisogno, anche se gli costa molto ammetterlo: è fragile, è mortale, è solo. Io sono molto credente. Sono anche stata innamorata di un prete: con lui parlavo di fede. Inoltre trovo che i testi sacri siano molto poetici, poetici e anche esoterici».
MALGRADO IL CONFORTO DELLA FEDE, OGGI LA SOLITUDINE LE FA ANCORA PAURA?
«Il poeta è solo ed emarginato più di chiunque altro in questa società. Ma lo è anche per libera scelta, perché ha bisogno dei suoi ritmi, dei suoi silenzi. Anch’io ho bisogno di meditazione, di silenzio. Il rumore mi dà fastidio: gli elettrodomestici, il traffico, invadono la vita e impediscono di creare. In questa forsennata società moderna è difficile trovare uno spazio per poter creare qualcosa».
NEL LIBRO “LA PAZZA DELLA PORTA ACCANTO” AFFERMA CHE SCRIVE CON DOLORE, ANCHE SE VORREBBE VIVERE CON GIOIA.
«Malgrado tutto aspiro alla felicità, anche se i mali del mattino mi rovinano la giornata».
COME SI SVOLGE LA SUA GIORNATA DI SCRITTURA?
«Non ho un metodo fisso. In realtà penso che non esista, non credo nella poesia scritta a tavolino. A me capita di avere l’ispirazione in qualunque momento della giornata, magari mentre sto cucinando, mentre sono fuori... annaffio le piante, osservo qualcuno. E allora mi debbo fermare e scrivere. Mi è capitato spesso di bruciare qualcosa mentre stavo cucinando. Ma il poeta non fa caso a queste cose, perché vive in una dimensione diversa, dove non esiste la schiavitù dell’orologio. La poesia è un demone che ti cavalca, e non ti lascia scelta».
PREFERISCE SCRIVERE DI GIORNO O DI NOTTE?
«Non c’è un momento: la poesia è una grande maleducata, non manda mai il biglietto da visita, e l’ispirazione va accettata come un dono, con umiltà. E in questo la fede, è la sorella della poesia: per quel tanto di imprevedibile e misterioso che le accomuna».
LEI SCRIVE SIA IN VERSI CHE IN PROSA: GLI ULTIMI LIBRI CHE HA PUBBLICATO, “LA PAZZA DELLA PORTA ACCANTO” E “LETTERE A UN RACCONTO”, SONO UNA SORTA DI FRAMMENTI DI PROSA LIRICA. COME DEFINIREBBE IL SUO STILE?
«Preferisco evitare sempre gli schemi e le definizioni ad ogni costo. La poesia non si può definire, così come l’intelligenza di una persona».
CHE SENSO HA, FARE DELLA POESIA OGGI?
«Anche se questa società tenta a tutti i costi di convincere che per essere felici bisogna avere un pavimento lucidato a specchio e una bella macchina, la poesia è fondamentale. L’uomo ne ha bisogno, e dovrebbe avere l’umiltà di ammetterlo. La poesia può aiutare le persone a provare di nuovo emozioni e reazioni umane, a sopportare cose indicibili, la fame, la malattia, il senso di vuoto dentro che appare incolmabile. Chi riesce ad amare la poesia, riesce a vivere e ad avere cuore. L’uomo deve tradursi in musica, e deve saper perdonare quello che non è».
(Articolo di Alma Daddario, pubblicato su Orizzonti n.17)
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