| È da poco rientrata dal Giappone, dove ha presentato il suo romanzo “L’indecenza”, edito da Mondadori. Tra gli studenti delle università nipponiche, infatti, è piuttosto diffusa l’ammirazione per le lettere e le arti italiane. Così, studiosi e docenti del Sol Levante stanno anche pensando a una traduzione in giapponese del primo, apprezzato romanzo di Elvira Seminara.
Giornalista, scrittrice, pittrice e, innanzitutto, donna colta siciliana, Elvira, dopo una formazione artistica che l’ha vista frequentare l’Accademia di belle arti e la facoltà di Lettere e filosofia di Catania, ha accumulato anni di esperienza in campo giornalistico ed ora, egregiamente dosando grazia e forza, rigore certosino e fantasia, ha aperto la magica porta del vastissimo, variegato mondo letterario. Anche la critica più severa ha accolto con favore la sua opera e, travalicando i confini nazionali, “L’indecenza” (a cui, poco dopo, si è aggiunta la raccolta di tredici microstorie “I racconti del parrucchiere”, Alberto Gaffi Editore) è rimbalzato dal Giappone al Brasile, dalla Polonia alla Bulgaria.
La cordialità, la gentilezza, la modestia hanno accompagnato per tutto il tempo la nostra conversazione, regalando alla rivista “Orizzonti” un’intervista gradevole dell’apprezzata scrittrice siciliana.
Elvira Seminara, il dolore è indecente quando non gli si dà un nome, ma è anche una forma di conoscenza. Lo è, per lei, anche il piacere, l’altra faccia della medaglia dell’esistenza umana?
«Credo che il dolore sia esplorazione del profondo, quindi forma di conoscenza. La depressione, ad esempio, è una forma di lucidità estrema ed è forse per questo che fa così paura. Ma non per questo il dolore deve essere necessariamente inteso come evoluzione. È, piuttosto, la consapevolezza del dolore che lo rende forma di conoscenza, questo sì. Poi, quando il dolore diventa compassione, allora è capace di legare inesorabilmente l’autore ai propri personaggi e, di conseguenza, anche il lettore, in un triangolo interiore».
Nel suo romanzo è molto importante la presenza della natura siciliana, che lei più volte definisce un personaggio proprio come gli esseri umani.
«Certo. Mi sento distante da una rappresentazione oleografica della Sicilia. Nel mio libro emerge un’altra Sicilia, né tenera né indifferente, ma addirittura cannibalesca, invasiva, con i rampicanti del giardino che premono per entrare nella casa e nella vita dei protagonisti. È una natura che partecipa, anche alla rottura della vita di coppia. È, infine, una natura decadente, che rappresenta quasi la discesa stessa negli inferi. La Sicilia è, infatti, terra degli estremi e di ombre forti. La pietra lavica ne è un ottimo esempio. Ripeto sempre che la Sicilia non è un’isola, ma un arcipelago, con vere e proprie sacche di popolazione diverse tra loro e che non comunicano. C’è una Sicilia meravigliosa, pulita, onesta, quella del volontariato, della società civile, degli ambientalisti. E c’è, poi, purtroppo, la Sicilia che appare maggiormente nelle cronache, quella più brutale, criminale, mafiosa, della corruzione politica. Noi siciliani viviamo i nostri confini come delle trincee, sempre in attesa che possano arrivare i pirati, sempre con l’emozione che può regalare il vivere costantemente su un bordo, in perenne equilibrio».
Le protagoniste delle sue storie sono Ludmila, Milly, Chandrika. Chi si sente di più Elvira? Ed Elvira si sente più scrittrice o giornalista?
«Mi sento di più Milly, la parrucchiera delle mie microstorie che, mentre fa lo shampoo alle clienti, riesce a leggerne i pensieri. È un potere che Milly non vuole. E poi, mi sento più scrittrice, almeno in questo momento della mia vita. Per anni, però, il giornalismo mi ha educato alla sintesi, alla precisione per il dettaglio. Per dirla con Cesare Pavese, la scrittura ti dà l’opportunità contemporaneamente di parlare con te stesso e di parlare alla gente».
Lei usa sempre lo scooter, per scelta, anche quando piove. Perché? È forse un modo per affrontare la vita con un certo spirito?
«Sì, è vero. Ho anche la coperta che mi ripara dalla pioggia e mi sposto sempre sulle due ruote. È una valorizzazione del tempo. Il tempo è una risorsa fondamentale, un bene che nessuno potrà mai inventare o riprodurre».
Ludmila, una dei protagonisti de “L’indecenza”, è molto bella. Ma non solo. Che cosa è oggi la bellezza e fa veramente così tanta paura? Forse perché può illuminare le crepe della nostra società?
«Sì. La bellezza di Ludmila è ambigua e inquietante, pericolosa e attraente. Quasi feroce, anche. Non è totalmente definibile. Ella stessa non è né una donna matura né una bambina. È ambigua, appunto. La bellezza è certamente un potere. Oggi, forse, usato male. Ludmila alla fine osa troppo. Voglio, però, distinguere la bellezza naturale da quella artificiale, inseguita a colpi di bisturi e di chirurgia estetica».
Da anni, ormai, su un noto quotidiano siciliano tiene una rubrica: “O-blòg”, dove mette in evidenza i fatti a volte più sconcertanti, a volte che fanno maggiormente riflettere. Quali sono le “indecenze” della società che più la indignano?
«Sicuramente gli abusi sui bambini, di qualunque tipo. C’è una diffusione sconcertante di abusi commessi ai danni dei minori ed è una cosa intollerabile».
Che consigli dà alle sue figlie per essere veramente felici e, soprattutto, consapevoli della loro vita?
«Viola ha 22 anni e studia lingue orientali tra Londra e Tokyo. Marta ne ha 18 e studia psicologia e psicanalisi a Padova. Le ho sempre indirizzate verso l’armonia con tutto: nel rapporto con gli altri, con il mondo che le circonda. Una visione della vita che mi deriva dal mio essere protestante con venature di buddismo. Di questa religione apprezzo soprattutto l’integrazione con l’universo e lo smantellamento dell’ego, per noi occidentali un vero problema da secoli».
A cosa sta lavorando adesso? È in preparazione un nuovo libro?
«Sì. Dopo le microstorie, sono tornata al romanzo. L’ho già completato e sto facendo un lavoro di rifinitura, di potatura. In questo lavoro ho approfondito il tema della perdita di identità e l’argomento mi interessa per completare, con un futuro e imminente lavoro, una trilogia sull’essere umano e sull’esistenza, su ciò che siamo diventati e sulla complessità della natura umana. Oggi siamo molteplici. Per dirla con un altro siciliano, Luigi Pirandello, siamo “uno, nessuno e centomila».
Tra le passioni di Elvira Seminara c’è l’edera, con le sue foglie così uguali eppure così diverse l’una dall’altra. Una, nessuna, centomila… è una pianta forte, ci spiega la scrittrice e pittrice, è una pianta lucida e tenace, sempreverde, che non sfiorisce mai. E in una veloce ma gradevole visita della casa, scopriamo l’edera dipinta in ogni angolo, su ogni colonna, tra un quadro e l’altro, attorno ai lampadari. Mura addobbate di un tempio che è esso stesso natura, che è rifugio per un’artista siciliana che alterna il dialogo con se stessa al dialogo con gli altri. Ma che entrambe le cose le fa con garbo e con stile. E con l’amore per quella perfezione che una foglia di edera, la più verde, la più luminosa, coccolata dal vento, ci suggerisce uscendo nel giardino, mentre a salutarci giunge anche Alma, elegante cagnolina. Pure lei, c’è da giurarci, protagonista dell’universo delicato eppure forte e rispettoso di Elvira Seminara.
(Articolo di Antonio Iacona, pubblicato su Orizzonti n. 37)
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