| “Il tempo invecchia in fretta”: nove racconti sul Tempo
«Il tempo è memoria, e credo che noi uomini siamo fatti sostanzialmente di tempo, oltre che dell’ottanta per cento di acqua come dicono i fisiologici… Del resto, come diceva Benveniste, l’acqua è un elemento organico che mantiene memoria». Con queste parole Antonio Tabucchi entra nel vivo della tematica portante del suo ultimo libro, “Il tempo invecchia in fretta”. «Il titolo - spiega Tabucchi - è preso a prestito da un frammento presocratico. Secondo la mia interpretazione, questa frase indica che, se un individuo insegue strade sbagliate nella vita, il suo tempo non passa in fretta, ma invecchia, cioè si raggrinzisce, si mummifica, svanisce, si sciupa».
I personaggi di questi nove racconti, perlopiù avanti negli anni, si interrogano sul proprio vissuto per cercarne il senso. E dalla memoria personale, estraggono un ricordo che possa diventare la sintesi di un’intera vita. La loro storia individuale si intreccia con la Storia dell’umanità, toccando momenti ed episodi chiave del Novecento: da Auschwitz all’occupazione sovietica della Polonia e dell’Ungheria, alle attività spionistiche della Stasi, la polizia di Stato di Berlino est.
«Tre o quattro di queste storie sono realmente accadute, e mi sono state raccontate. La scrittura è una forma di trasmissione della memoria: le storie non bisogna lasciarle morire, altrimenti se ne vanno con le persone che le hanno raccontate. Lo scrittore, che è testimone dei racconti, ha il dovere di restituirli agli altri».
Questi racconti sono attraversati dal sentimento della nostalgia, che si estende anche alle situazioni spiacevoli.
«La nostalgia è un contenitore vuoto che a un certo punto della vita ognuno di noi riempie con quello che ha a disposizione, e se ha disposizione pezzi rotti di un brutto passato, ci mette quelli, e forse gli sembrano anche belli. Ad esempio, uno dei personaggi, un signore che lavorava a Berlino est nella polizia di Stato, ha nostalgia del muro di Berlino: il muro rappresentava per lui una sorta di bussola. Ci sono persone che hanno nostalgie dei muri, e lo sappiamo, perché ne nascono in continuazione. Esiste, dunque anche, la ‘nostalgia del peggio’.
Il concetto di tempo che emerge in queste storie, non è quello fisico, esterno, ma il tempo interno, quello della memoria. È il tempo della coscienza, come diceva Bergson».
Il concetto di tempo diviene lo spunto per riflessioni critiche sulla nostra società.
«Ho l’impressione che nella nostra epoca, quella che chiamano ‘postmodernità’, si stia quasi infondendo l’idea di una sorta di eternità tascabile, molte persone stanno vivendo come se fossero eterne, come se non dovessero morire mai. C’è stata sostanzialmente una rimozione della morte. Cadaveri ne abbiamo in abbondanza, basta aprire il televisore. Ma l’idea e il senso della morte, il cosiddetto ‘tempo della durata’, come diceva Bergson, si sta perdendo. Questa percezione diffusa, inconscia, di non morire, a me sembra una delle questioni più allarmanti di questa modernità.
C’è poi un’altra questione che mi preoccupa ed è anch’essa legata al tempo, o meglio ad un suo aspetto: la compressione. C’è una ripetizione, che ci viene sottoposta in continuazione, come a volerci far vivere lo stesso fotogramma. C’è di certo un’omogeneizzazione abbastanza temibile in questo, in quanto, se qualcuno ci obbliga a vivere un tempo unico, è ovvio che in qualche modo diventeremo un unicum anche noi. Cioè diverremmo un corpo sociale con una testa sola e dunque la diversità, non dico che si annullerebbe, si stempererebbe molto. A questo proposito, mi viene in mente una bella poesia di Montale, che afferma che non esiste un tempo unico. Dopodichè c’è patto sociale che stabilisce un tempo sociale, che è molto importante e non si può rompere…
C’è infine una terza questione che mi preoccupa di più e che è strettamente collegata con l’illusione di vivere come se fossimo immortali: l’insensibilità verso il dolore fisico. Obbligare qualcuno a soffrire inutilmente, pur di rimanere in vita, è un aspetto del nostro tempo ancora più sinistro».
Per raccontare queste storie, ha scelto la forma del racconto. Perché?
«Un romanzo, anche se è popolato di tanti personaggi, racconta una storia sola, mentre i racconti ne riportano tante. A me piace scrivere molte storie, perché le storie mi piace anche sentirle. Io ho scritto alcuni romanzi, ma preferisco il racconto, perché ha davvero una misura molto speciale, è un meccanismo con delle regole proprie che vanno rispettate. Quella del racconto è una forma molto più disciplinata, più chiusa, come può esserlo il sonetto in poesia. Il romanzo è invece come il poema epico, una forma aperta dove poter mettere dentro di tutto.
Per fare un esempio, immaginiamo di trovarci in treno in compagnia di una persona che sta raccontando una storia e cattura la nostra attenzione. Poi, ad un certo punto, chi racconta si interrompe (perché ad esempio deve pranzare) e chiede di poter riprendere il racconto in seguito. Be, quel racconto non potrà più essere ripreso, perché nel frattempo la situazione è cambiata, ed anche la nostra disposizione all’ascolto... Questo è un piccolo esempio per rimarcare che il racconto va chiuso in un preciso momento, altrimenti perde l’atmosfera. Il racconto è una sfida per lo scrittore, molto più del romanzo, perché bisogna chiudere subito la storia. Il romanzo, oltre ad essere un bel deposito dove lo scrittore può mettere tutto ciò che vuole, ha il pregio di essere paziente, nel senso che accetta le assenze dello scrittore, che può ritornare a riprendere la storia anche dopo diversi mesi.
E poi devo dire che la scelta della forma racconto, è anche un po’ un omaggio alla Letteratura italiana che è sostanzialmente fatta di racconti. Noi nasciamo con il Novellino e con il Decamerone, non nasciamo con “Guerra e Pace”. Questa è la nostra misura e continua per tutta la letteratura fino alla modernità, fino a Pirandello, con le sue “Novelle per un anno”, etc. Il racconto appartiene anche a una cultura dell’oralità che è molto nostra».
Basandosi sulle vendite di libri, in cui raramente si trovano i racconti in cima alle classifiche, si può affermare che la tradizione del racconto è andata persa in buona parte?
«Non credo. Io penso che questo dipenda dalla scelta degli editori di non pubblicare libri di racconti. Secondo me, se gli editori italiani pubblicassero i racconti, la gente li leggerebbe. Il racconto si legge volentieri e bene. Io non credo che gli italiani, dopo secoli di letteratura fondata sui racconti, a un certo punto l’abbiamo preso in antipatia… Il racconto ha anche la virtù di essere pratico. Io, ad esempio, nell’atto della lettura di un romanzo, maltratto il libro, faccio le orecchie alle pagine. Quando leggo libri di racconti, invece, le orecchie non le faccio perché voglio arrivare in fondo alla storia, anche perché un racconto si legge in venti minuti. Siccome poi, la vita è anche fatta di spazi brevi, secondo me si leggerebbe di più. Ad esempio, la gente che prende la metropolitana e fa un percorso breve di un quarto d’ora, in quel lasso di tempo riuscirebbe a leggere un racconto. È più difficile che riesca a leggere un romanzo, anche perché di solito è più ingombrante, è più voluminoso».
Lei fa fatica a scrivere o le viene naturale?
«Faccio fatica. Molta. Soprattutto dopo avere scritto diversi libri. Come diceva Amos Oz: il primo libro è facile da scrivere, è il trentesimo che è difficilissimo. Il primo viene con naturalezza, anche per la sconsideratezza della giovane età. Andando avanti, invece, pesano sulla testa un sacco di cose. Lo scrittore inizia a essere troppo esigente con se stesso, per cui può arrivare alla sera con il cestino che trabocca di fogli buttati via e la pagina che non è ancora soddisfacente, entrando in una sorta di autopunizione che lo costringe a rimanere sulla pagina ed affaticarsi mentalmente. In questi casi, bisognerebbe darsi una regola e dire basta, accettando la pagine così com’è. E poi, oltre a quella intellettuale, si fa anche fatica fisica, che aumenta con il passare degli anni. Scrivere è un fatto anche di grande piacere ma, vi assicuro che, rimanendo seduti otto ore (a volte anche dieci quando si è molto impegnati), alla sera si arriva stremati fisicamente, le vertebre si comprimono. Quello della seggiola è un aspetto che molte volte non si prende in considerazione, perché si pensa piuttosto all’ispirazione, al talento».
Lei utilizza il computer?
«Io scrivo a mano, poi trascrivo, copio in bella. Come mi aveva insegnato la mia maestra da piccolo».
(Articolo di Alessandra Basso, pubblicato su Orizzonti n. 36)
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