| Un romanzo di intensa potenza visionaria
Non ci sarebbero parole per descrivere quello che Rezza fa sul palco – e non ce ne sarebbero neppure per definire, o raccontare a terzi, ciò che Rezza scrive nei suoi libri. È triste invece che parole non ce ne siano davvero, ma perché pochi ne usano, nel tentativo di dire che “Credo in un solo oblio” (Bompiani, pp. 144, Euro 14,00) è un romanzo di intensa potenza visionaria, scritto in un italiano perfetto, tanto da regalare alla prosa una scioltezza notevole mentre guizza fra violenza e poesia, racconto e flusso interiore, mescolando questi e altri elementi altrettanto contrapposti in un’opera che chiede al lettore soltanto una cosa: lasciarsi leggere.
Si pensa, forse, che dovrebbero scriverlo gli scrittori un libro così. Antonio Rezza è invece un performer, per altro geniale, che da anni evolve la sua personalissima ricerca teatrale affiancando, inglobando e ‘violentando’ le installazioni di Flavia Mastrella. Attore e creazioni artistiche convivono dunque sullo stesso palco, come se Rezza ne fosse l’ideale corpo e l’arte fosse l’ideale materia fisica di Rezza. È fatale a questo punto sospettare che se un performer simile poi scrive, e scrive pure bene, il fatto in sé maturi silenzi. Che su “Orizzonti” proviamo a rompere.
TU E FLAVIA MASTRELLA LAVORATE INSIEME. O MEGLIO: INSIEME, MA SEPARATI. COME SI SPOSANO, ALLA FINE, DUE REALIZZAZIONI COSÌ DEL TUTTO INDIVIDUALI?
«Nulla si sposa, è un conflitto estremo tra chi crea sculture di spazio e chi le deturpa e si deturpa. Non siamo quasi mai d’accordo perché in entrambi è radicato un forte senso estetico, esclusivo e personale. Alla fine le due creazioni entrano in armonia e smettono di abbandonarsi al volere degli autori».
“BAHAMUT”, IL VOSTRO ULTIMO SPETTACOLO, SI CONCLUDE CON L’OPERA CHE OLTREPASSA IL PERFORMER: AL SILENZIO DICHIARATO DALL’ARTISTA IN SCENA SEGUE IL BUIO, E LA FINE. IL LIBRO, INVECE, ESORTA IL LETTORE A PERDERSI COMPLETAMENTE NELLE PAGINE. NON SONO L’UNA COSA IL COMPLETAMENTO DELL’ALTRA?
«Qualsiasi nostra opera la sa più lunga di noi. Fortunatamente non abbiamo molto da dire su ciò che dice ancor meno. Il sottrarre la storia al lettore o allo spettatore è un atteggiamento di pudore, il pudore di non fare la figura del coglione che vuole in cambio attenzione. Esiste un’arte di serie A che è quella della libera interpretazione da parte di chi legge o di chi assiste. Questo è il sentiero che mi porta al nulla. In “Bahamut” il teatro è sempre affollato e si riempie con il passaparola. Un passaparola astratto poiché lo spettacolo non lo si può raccontare. Uno spettatore dice all’altro “Vai” e l’altro va».
L’IMMAGINE DEL PROTAGONISTA DI “CREDO IN UN SOLO OBLIO”, CHE SI SOTTRAE ALLA POSA NEL MOMENTO DELLO SCATTO DEL FOTOGRAFO, APPARE DI COLPO OVUNQUE – E NESSUNO LA NOTA. È LA PERDITA DEL SENSO DI UN’IDENTITÀ INDIVIDUALE IN FAVORE DI UN’IDENTITÀ COMUNE A TUTTI – E, PROPRIO PER QUESTO, IGNORATA?
«In questo libro la ricerca è quella di una mia identità di scrittore che prescinde dalle altre cose di cui mi occupo. Questa identità non mi viene riconosciuta attraverso l’oblio. È un silenzio infame che mi stizzisce e, nel contempo, mi riempie di gioia. Io sono un intellettuale perché mi occupo di demistificazione, di smascherare chi, con il mestiere, sopperisce al buio delle idee».
DAL MONDO DI VIVENTI ASSUEFATTI ALLA SUA/LORO IMMAGINE, IL PROTAGONISTA DEL ROMANZO PASSA ATTRAVERSO LA FOTO MOSSA A UN MONDO ALTRO, INIZIALMENTE POPOLATO DI OMBRE UMANE CONGELATE IN AZIONI SOSPESE. DOVE SI POTREBBE COLLOCARE UN SIMILE RITRATTO, SE LA NARRATIVA IMITA LA VITA?
«Per fortuna la mia narrativa non imita la vita di chi, sventurato, si affanna per un pezzo di pane che a malapena lo sfama. Nella realtà che non vedo, poco mi calo. L’ansia di un bar affollato è sempre in agguato. Poveri corpi votati al suicidio collettivo che trovano tempo anche per il caffé: ed erra l’agonia per questa valle. Non mi accanisco contro chi, per colpe non sue, è costretto a fare ciò che mai farebbe. Il mio accanimento è contro chi nell’arte rappresenta la realtà e la svilisce a menzogna. I miei personaggi sono come esattamente io vorrei essere. E per questo mi sono superiori. Non mangiano perché non ne hanno bisogno, hanno l’autore che si ingozza per loro (anche se nel mio caso parlare di ingozzo è inesatto poiché mi alimento solo per dissipare quel poco di pelle che mi resta attaccata). I personaggi del teatro che agiscono negli spazi di Flavia Mastrella non hanno vita comune. Come quelli dei nostri film. E figuriamoci quelli di una pagina scritta, dove la libertà può fare a meno anche della rappresentazione più coatta».
MA NELL’USO DEL CORPO CHE FAI IN PROSA, ATTINGI DALL’ESPERIENZA TEATRALE?
«Quando scrivo mi manca lo spazio che «Flavia Mastrella concepisce. Questo non è un impedimento. L’assenza di spazio tangibile mi porta a percorrere distanze immaginarie. Della mia indole allo sfinimento resta la frenesia volante di un corpo, che libero sulla pagina bianca, capriola dovunque e non si stanca. Alla fine di un libro non mi sento spossato. Per me che non ragiono, tutto si calcola in base al dolore traumatico. Non saprei cosa scegliere tra letteratura e teatro. E infatti non scelgo. La scrittura è un’esigenza posturale. Mi siedo e scrivo, le parole non sono mediate dal corpo. Diverso è il teatro, dove se mi sedessi a scrivere ciò che il corpo rifiuta sarei veramente un cretino. Mi piace scrivere perché lì la forma è diversa e si esalta non per immagini ma per accumulo. Scrivo poiché non ho nessi con la narrazione e accumulo gesti allucinati che provocano comicità agghiaccianti».
CERTO GUSTO CINICO PIÙ CHE PALESE NEI TUOI SPETTACOLI, SI STEMPERA NELLA NARRATIVA, FINO A TOCCARE DERIVE DI UN LIRISMO ESSENZIALE. MA ANCHE “BAHAMUT”, RISPETTO A “PITECUS”, O “IO”, È UNO SPETTACOLO PIÙ… “LEGGERO”. È IN CORSO UN CAMBIAMENTO?
«Quella cattiveria dell’inizio era consolatoria, dava speranze che poi sono risultate vane. “Bahamut” non è uno spettacolo leggero ma un’opera che rinuncia al significato e si avvicina alla musica attraverso un ritmo incessante. Sono i passi a fare ritmo, le parole diventano note, il fiato è uno strumento a fiato, le urla lo spartito. La nostra deriva è verso la perdita del raccontabile e tenta di raggiungere una nuova musicalità. Se c’è un cambiamento è quello del superamento del senso a favore di un ritmo ossessivo che porta alla musica. Una musica che entra non dalle orecchie ma direttamente dagli occhi. Ecco, noi facciamo musica per soli occhi».
(Articolo di Gianluca Mercadante, pubblicato su Orizzonti n. 33)
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