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«Le cose spaiate si devono appaiare. Le cose rotte si devono aggiustare. E quelle che fanno soffrire si devono curare. Si fa così. Io questo lo so». Le parole citate appartengono a Matilde, una bambina di dodici anni che, come gli altri protagonisti di “Sotto cieli noncuranti”, cerca di dominare la realtà, per darle un ordine: è questo il filo conduttore che attraversa il secondo romanzo di Benedetta Cibrario, definito un “racconto d’inverno” a più voci.
Come in “Rossovermiglio”, il suo libro d’esordio, siamo a Torino, questa volta innevata, pochi giorni prima di Natale. Il magistrato Giovanni Corrias, padre di Matilde, sta indagando sul caso di un bambino morto in circostanze misteriose quando sua moglie viene investita da un’auto, e prova a reagire al durissimo colpo aggrappandosi alle indagini in corso. Violaine, una giovane poliziotta laureata in psicologia, lo aiuta a ricostruire la sequenza dei fatti.
«È un romanzo per certi versi corale - spiega la Cibrario - dove abbiamo un gruppo di persone che in qualche modo cercano di dare un senso ad una serie di accadimenti che sono determinanti e molto tristi per la loro vita. Questo è il caso del magistrato che perde la moglie in un incidente, ed anche di un altro personaggio maschile, Pietro Serra, che invece perde un figlio. A questa sorta di ‘triste simmetria’, rispondono tre voci femminili, molto diverse tra loro (quella di Matilde, della poliziotta Violaine e di una madre) e a loro è affidato il filo del racconto».
Matilde, che osserva gli adulti alle prese con la fragilità dell’esistenza, con ostinata tenerezza prova a curare il dolore del padre e delle sorelle, e ad aggiustare quello che si è improvvisamente rotto.
«È lei il personaggio principale di questo libro, dove si racconta di avvenimenti tristi. Ho parlato di dolore, cercando di farlo con un tono di controllata serenità; e la controllata serenità è una lezione che s’impara spesso dai bambini - dice l’autrice -. Matilde, quando è costretta a doversi confrontare con un dolore molto più grande di lei, quale è l’improvvisa morte di sua madre, in qualche modo riesce a trovare un’armonia.
Per ciò, non è un romanzo poliziesco, ma ho ritenuto importante che ci fosse un personaggio che conducesse un’indagine perché, in fondo, chi conduce un’indagine è qualcuno che cerca di mettere ordine nel mondo, che cerca di dare un senso alle cose che accadono».
Il titolo del libro, che è il verso di una poesia di Dylan Thomas, è emblematico della condizione di Matilde e degli altri, che devono contare solo su stessi nei momenti difficili. Come spiega la Cibrario: «la noncuranza del cielo significa non chiedersi se esiste o non esiste una ragione, un destino, un disegno, ma semplicemente prendere atto che esiste una sostanziale noncuranza delle cose degli uomini, che in qualche modo devono cavarsela da soli».
Tra questo libro e “Rossovermiglio” (vincitore nel 2008 del Premio Campiello) l’autrice trova un punto di contatto, in quello che definisce ‘l’inespresso’.
«La protagonista di “Rossovermiglio” è una donna che non riesce a parlare per quasi tutta la vita, finché poi un giorno prende l’avvio. In “Sotto cieli noncuranti” ci sono un personaggio femminile, la madre Irene, che non riesce a parlare, e un personaggio maschile, il magistrato Corrias, che non riesce a esprimere la sua pena. Alla fine credo che finisco sempre col toccare quel tasto: occuparmi di ciò che è inespresso; ciò che è così forte, così importante, a volte così doloroso ma a volte, fortunatamente, così bello, che è inesprimibile».
(Articolo di Alessandra Basso, pubblicato su Orizzonti n. 37)
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