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‘LA RAGAZZA DEL LAGO’ È STATO PRESENTATO QUEST’ANNO ALLA 64MA MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA NELL’AMBITO DE “LA SETTIMANA DELLA CRITICA”. CHE SENSAZIONE PROVA UN REGISTA ESORDIENTE, CHIAMATO A RAPPRESENTARE IL CINEMA ITALIANO AL LIDO, NEL VEDERE CHE IL SUO ESORDIO RISCUOTE UN COSÌ MERITATO SUCCESSO A DIFFERENZA DI ALTRE PRODUZIONI NOSTRANE?
«Non ho sentito il peso di questa rappresentanza perché il mio non era l’unico film italiano a Venezia. Penso che i film dovrebbero attraversare i confini e le varie regioni di appartenenza e che vadano giudicati al di là della loro bandiera.
Essere al Lido nell’ambito della “Settimana della Critica” era bello per quello che esprimeva questa sezione: la soddisfazione è stata nel proiettare il film per la prima volta davanti ad un pubblico e la tensione era alta per quello che gli spettatori avrebbero potuto pensare. Il film dopo la proiezione ufficiale è stato proiettato, il giorno dopo, al Pala Lido. Sono stato in sala in incognito durante la proiezione, e la sensazione è stata che la gente seguiva il film, sentivo che la sala percepiva e pulsava con il film. Quello che mi piaceva che passasse attraverso il film passava davvero: si era creato intorno grande interesse ed è stato molto bello».
DA COSA È STATA DETTATA LA SCELTA DI SANDRO PETRAGLIA (‘LA MEGLIO GIOVENTÙ’, ‘QUANDO SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI’, NDR) PER LA STESURA DELLA SCENEGGIATURA, CHE MUOVE LE MOSSE DAL ROMANZO ‘LO SGUARDO DI UNO SCONOSCIUTO’ DELLA SCRITTRICE NORVEGESE KARIN FOSSUM?
«Con Sandro ci conosciamo già da tempo. Non avevamo mai lavorato insieme in questi termini ma, avendo fatto l’assistente prima e l’aiuto regista poi per molti anni, ci eravamo incontrati più volte. Mi sentivo di voler esordire muovendomi dentro una sceneggiatura solida. La possibilità di lavorare con uno sceneggiatore di professione offriva una maggiore possibilità di muoversi su un impianto narrativo concreto. Il romanzo lo avevo letto in passato e quando gliene ho parlato abbiamo cominciato a lavorare insieme per un po’: gli ho segnalato le parti dove volevo il romanzo pulsasse di più e, avendo realizzato delle riprese delle location in cui volevo girare, gli ho mostrato degli “appunti visivi”. È stato un percorso abbastanza lungo ma sicuramente fruttuoso: mi piace utilizzare tutti i contributi che possono autenticamente aiutare al risultato che il film si porta dietro».
GLI ATTORI SCELTI NEL TUO FILM EMANANO UN’UMANITÀ CHE COLPISCE NEL CONTESTO DI UN CINEMA GIOVANE ITALIANO IN CUI SI VEDONO SEMPRE PIÙ SPESSO INTERPRETI CHE SI MUOVONO IN MANIERA IMPOSTATA E NON TRASMETTONO VITA. SE DOVESSI RACCONTARE IN QUALCHE MODO IL TUO CAST E LA DECISIONE CHE IL PROTAGONISTA DOVESSE ESSERE RAPPRESENTATO DA TONI SERVILLO?
IN QUALE OCCASIONE HAI AVUTO MODO DI APPREZZARE PER LA PRIMA VOLTA L’ATTORE NAPOLETANO?
«La scelta del cast mi ha impegnato per molto. Ho trascorso parecchio tempo con gli attori per trovare insieme la chiave giusta di ogni personaggio e per costruire dei tasselli su cui lavorare. È stato un lavoro lungo ma giusto in termini di tempo perché ho cercato di arrivare sul set con un lavoro già fatto per buona parte e questo mi evitava di incontrare degli intoppi durante le riprese. Gli attori sono stati tutti molto disponibili e questo ha dato compattezza al film: ogni personaggio, anche il più piccolo, aveva la sua parte ben costruita senza andare a fagocitare la storia stessa.
In particolare per quanto riguarda il protagonista, ho avuto modo di apprezzare Toni Servillo prima a teatro poi al cinema con ‘L’uomo in più’ di Paolo Sorrentino, tramite il quale ci siamo conosciuti. Leggendo il romanzo ero convinto che lui avrebbe potuto dare al personaggio tutte le sfumature e i lati umani che avevo in testa. Volevo che i personaggi avessero una carica, un’identità umana».
LA PELLICOLA PRENDE VITA NELLE ATMOSFERE DEI PAESAGGI DELLA MONTAGNA FRIULANA CHE RACCONTANO ANCHE ATTRAVERSO SILENZI E IMMOBILITÀ: LA STASI STESSA DEL LAGO AVVOLGE E RIFLETTE IL RITMO DEL FILM. QUALI SONO I GRANDI MAESTRI DA CUI HAI TRATTO GLI INSEGNAMENTI PER RENDERE LE TUE INQUADRATURE COSÌ CARICHE DI SIGNIFICATO?
«Non so con precisione a chi possa essermi richiamato; forse posso affermare che il valore narrativo dell’ambientazione, più di tutti, potrebbe essere il frutto dell’esperienza con Mazzacurati. Ma il lavoro del regista si porta dietro tante cose che lo hanno colpito nel corso delle esperienze e queste cose riescono fuori in maniera anche inconsapevole. Credo che nel film possa esserci un po’ di tutto ciò che mi ha impressionato nella vita. Per quanto riguarda l’ambientazione…conoscevo il luogo personalmente. Dal punto di vista della natura quei posti esprimevano una bellezza inquieta e accompagnavano l’atmosfera che volevo riflettesse il film. Spero che sia riuscito a portare con me il meglio di tutte le persone con cui ho lavorato».
LA CONFESSIONE DELL’ASSASSINO GIUNGE INASPETTATA E, DIVERSAMENTE DAL SOLITO, A SEGUIRLA IL RITMO DEL FILM MANTIENE LO STESSO REGISTRO CONTROLLATO PER SVELARE UNA RAGIONE TANTO UMANA. QUALE SENSAZIONE VOLEVI SCATURISSE NELLO SPETTATORE (DAVANTI AD) UNA TANTO SINCERA E QUASI NATURALE RIVELAZIONE?
«L’attenzione che ho cercato di mettere in un racconto tanto umano dei personaggi ha coinvolto tutti gli attori, questo forse un po’ a discapito del colpo di scena. Il filo drammaturgico dalla scoperta del cadavere fino a quella dell’assassino si riversa nel film sul lato umano. Mi interessava l’uomo, prima dell’assassino. Questo naturalmente con un equilibrio tra i toni del giallo e quello degli uomini e delle donne protagonisti. La confessione nasce dall’idea di raccontare un confronto umano, senza elementi a effetto, per dare al personaggio dell’assassino e a tutti gli altri una forte carica naturale e umana».
OGNI PERSONAGGIO DEL FILM A MODO SUO CELA DELLE PICCOLE OMBRE, QUALCUNO IN PARTICOLARE È CHIAMATO A FARE I CONTI CON IL DISAGIO DI UN MALE FISICO INCURABILE. COSA TI HA SPINTO A SVILUPPARE QUESTA TEMATICA, CHE NEL FILM RICORRE COSÌ SPESSO ATTRAVERSO I SUOI PERSONAGGI?
«Una traccia molto forte era già nel romanzo. Alcuni elementi sono stati aggiunti per cercare di raccontare in modo più compiuto e complesso e per metterlo in relazione con l’indagine da una sensibilità più vicina. La struttura narrativa aveva la fascinazione di un racconto di genere ma c’era all’interno un tempo e uno spazio che permettevano di indagare su tematiche umane di inadeguatezza dei propri ruoli di madre o di padre, e del prendere coscienza di un disagio.
La malattia era un tema interessante da inserire in questo modo perché mi sembrava che, svelando un disagio sociale, contribuisse ad arricchire il racconto. Mi piaceva mettere nella storia dei temi alti perché credo facciano parte del nostro essere cittadini e ci permettono di confrontarci con gli altri. Inoltre sfiora dei punti su cui ognuno di noi può indagare su se stesso e su chi ci sta vicino, toccando delle corde sensibili»
QUALI SONO LE PAURE PER UN REGISTA ESORDIENTE ADESSO, DOPO IL SUCCESSO DI CRITICA E DI PUBBLICO, SE PENSA AD UN FUTURO?
«Spero che sia un futuro radioso (ironico,ndr). Mi prendo tutte le responsabilità che questo film si porta dietro. Di sicuro sarebbe stato molto più difficile fare un secondo film con un insuccesso alle spalle. Guardo al futuro con quella carica di entusiasmo e con quella soddisfazione che sono scaturiti da questo film. Alla fine mi sembrava che avevo realizzato qualcosa di molto simile a quello che avevo in testa ed era bello vedere risposte positive nelle persone.
Forse, se non fosse andata così, mi sarei portato dietro molte più insicurezze, invece, anche se quello che c’è davanti adesso è complicato, mi sento forte del consenso e del successo ottenuto».
(Articolo di Vera Usai, pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 33)