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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Le parole di Tornatore - Una raccolta di saggi sul grande regista italiano ( Intervista )

di Rivista Orizzonti

Tornatore: «Non avrei mai immaginato che un gruppo di giovani studiosi di cinema si occupasse dei miei film in un modo così sorprendente, anche quasi ubriacante»


‘Le parole di Tornatore’ è il titolo emblematico di una raccolta di saggi sul regista italiano, uscita per i tipi di Città del Sole Edizioni, caratterizzati da una forte impronta generazionale (gli autori sono giovani dottorandi di varie Università italiane e ciascuno con una sua specifica competenza: filosofia, storia dell’arte, semiologia, sociologia…) ma alla quale sono associate una solidissima metodologia e una rigorosa analisi in misura maggiore anche rispetto alla critica più matura.
Il testo, utile agli addetti ai lavori ma anche a chiunque voglia avvicinarsi alle questioni tornatoriane, espone un obiettivo inequivocabile già dalle primissime pagine scritte dal suo curatore Federico Giordano: fronteggiare Tornatore con le sue stesse armi, attraverso lo smontaggio e l’analisi dei suoi film, facendone un oggetto di indagine asettico, in modo da cercare di capire cosa c’è e rintracciarne il discorso. Dal linguaggio delle immagini si sposta lo sguardo alla dimensione della parola per sollecitare nuove riflessioni.
In occasione della presentazione del volume al pubblico, presso la libreria Bibli di Roma, abbiamo avuto modo di ascoltare Giuseppe Tornatore, che si è espresso su temi molto interessanti, che muovono dal rapporto con la critica agli esordi come regista.

IL RAPPORTO CON LA CRITICA
«All’inizio della mia carriera ero molto attento a quello che i critici scrivevano sui miei film: credo che fosse la persistenza di un atteggiamento adolescenziale, come quando da studente, ricevendo il compito a scuola, mi affrettavo a leggere subito il giudizio e il voto. E confesso che, a volte, mi ferivano alcune recensioni “al vetriolo”, mentre mi lusingavano quelle positive, naturalmente. Il rapporto tra il mio cinema e la critica italiana -questo è il mio pensiero- è giunto ad un bivio troppo presto. Da ‘Il camorrista’ (film d’esordio del 1986, ndr) era nato un percorso positivo, che è stato immediatamente scombussolato dal caso ‘Nuovo cinema Paradiso’, a seguito del quale il confronto è stato molto doloroso -è una questione risaputa ed è inutile nasconderla- fino a che la mia sofferenza a un certo punto è approdata a una quadratura del cerchio pressoché perfetta. Autore di questa straordinaria evoluzione è stato Franco Cristaldi, un mio carissimo amico nonché produttore di ‘Nuovo cinema Paradiso’, il quale notando come io soffrissi per questi atteggiamenti talvolta preconfezionati, mi disse una frase che mi sembrò pacificante con me stesso: tu hai il diritto di fare i film che preferisci e gli altri di parlarne con le parole e nei modi che ritengono più giusti. Da quel momento in poi ho davvero risolto le mie inquietudini e vivo meglio. L’insegnamento di Cristaldi ha stimolato in me un atteggiamento asettico nei confronti delle critiche, che credo abbia fatto bene sia a me, sia alla critica. Talvolta mi capita anche di gioire nel leggere con sorpresa alcune osservazioni: ad esempio quando scopro che alcuni messaggi, che avevo nascosto dentro ai miei film come bigliettini in bottiglia pensando che nessuno li avrebbe intercettati, sono invece arrivati a destinazione, o nel caso opposto quando mi trovo di fronte a considerazioni che io stesso non avevo notato nonostante la lunga preparazione dei miei film e che mi hanno illuminato e costretto a ripensare al mio lavoro. Ecco è questo l’aspetto più esaltante del rapporto tra regista e critica, e prescinde dal fatto se il film è piaciuto o meno».

UNA CRITICA SORPRENDENTE
«Una studentessa che preparava una tesi della quale io ignoravo i contenuti, mi raggiunse per farmi delle domande e in seguito me ne inviò una copia. Questa tesi dimostrava che ‘Una pura formalità’ e ‘Nuovo cinema Paradiso’ sono lo stesso film (ridiamo, ndr). Dire che rimasi stupefatto è poco. È, forse, l’unica tesi su di me che ho letto per intero, e mi ha sorpreso e sconvolto perché, sebbene l’assunto e la conclusione alla quale arrivasse mi sembravano inaccettabili, il flusso di considerazioni e la dimostrazione di questo teorema erano assolutamente convincenti. Io stesso non c’avrei mai pensato (ridiamo, ndr)».

LA STRUTTURA
«Non è obbligatorio che una sceneggiatura prima di essere scritta abbia una struttura pre-stabilita, pre-testata, anche se è augurabile che ci sia. Tanti film sono stati fatti anche senza, talvolta anche con risultati straordinari. Però se un regista realizza un film sfuggendo all’obbligo di strutturarlo, prima ancora di scriverlo, raccontando liberamente così come gli viene, alla fine quel film una struttura ce l’ha lo stesso: funzionale, non funzionale; efficace, non efficace; moderna, sperimentale… La struttura narrativa c’è sempre: che si voglia cercarla prima o che si voglia ignorarla.
Talvolta ho avuto delle intuizioni dalle quali mi sono lasciato trascinare con entusiasmo perché sentivo che nascondevano qualcosa di forte. Quando giravo ‘Una pura formalità’, capivo di aver avuto un’idea fortemente originale. Feci anche delle ricerche per capire se almeno in letteratura -al cinema nessuno- qualcuno avesse sviluppato un disegno geometrico del genere, un giallo dove l’assassino e l’assassinato fossero la stessa persona. Non ho trovato niente a riguardo, ed anche dopo l’uscita del film non c’è stato mai nessuno che ha ricollegato quell’idea a qualche opera che era stata scritta precedentemente. Anche in quel momento di grande motivazione, in cui avrei potuto farmi trasportare totalmente, ho lavorato invece moltissimo sulla struttura, pressappoco come con ‘La sconosciuta’. Nel mio mestiere, infatti, presto attenzione alla struttura, e per questo mi si accusa di voler far arrivare a tutti i costi il mio racconto al pubblico. A lui deve arrivare, a chi altrimenti? (Io questo discorso non l’ho mai capito…)
Un film è talmente complesso e costoso, che per avere l’opportunità di realizzarlo devi aver presente gli elementi che lo sosterranno per essere visto dal pubblico, dai critici, nel tuo Paese o anche nel Paese straniero. Onoff (in ‘Una pura formalità’, ndr) teorizza che uno scrittore non dovrebbe mai pubblicare nulla in vita e che i suoi libri dovrebbero uscire postumi, ma è un lusso che noi del cinema non possiamo permetterci».

IL RAPPORTO CON IL MARE
«Mi vengono in mente le parole di Sciascia che diceva che le case dei paesi della Sicilia sono costruite tutte con le spalle rivolte al mare perché i siciliani dal mare non si sono mai aspettati cose buone, ma sempre cose cattive. Però poi lo amano il mare. Ecco io ho lo stesso tipo di atteggiamento. Amo molto il mare, però ne ho paura, infatti non so nuotare e di rado faccio il bagno. A questo proposito, anche Novecento (de ‘La leggenda del pianista sull’oceano’, ndr) non sa nuotare, essendo nato su una nave dalla quale non è mai sceso per tutta la sua vita. Però lo ama…»

LA RICERCA “DEL BELLO”
«In genere quando mi dicono che nei miei film c’è la rappresentazione “del bello” c’è secondo me un equivoco. Molti ritengono probabilmente che la mia pignoleria, la mia visione geometrica nella composizione delle immagini, abbia a che fare con il mio desiderio di produrre il bello, cosa che non ho mai avuto. Io in genere adeguo tutte le scelte che devo operare alla legge che il film mi impone, che è diversa da film a film. Quando decido di fidarmi di una storia, come in un atto d’amore, le dedico un pezzo della mia vita. In quel momento io so che quella storia ha delle leggi, delle imposizioni che non posso trasgredire, ma soltanto mediare attraverso il mio modo di vedere le cose».

IL GIUDIZIO DEI POSTERI
«Non penso mai a cosa si potrà dire di me dopo, anche per scaramanzia. Piuttosto qualche volta mi capita di pensare a quanti altri film riuscirò a realizzare. Considerando che ho cominciato col primo film 23 anni fa e in questi anni ne ho fatti 9, con una media di un film ogni due anni e un pezzetto, mi rispondo che ne potrò fare altri 9/10. Pochissimi! Me ne viene in mente uno, anche due, a settimana (ridiamo, ndr).
Per il resto, io penso che se tu racconti una storia, mettendoci tutto te stesso, tutto il tuo impegno e i mezzi del mestiere, alla fine il film arriva, anche se in ritardo. Forse anche dopo che tu non ci sei più, qualche volta è accaduto.
Ad esempio, ‘Nuovo cinema Paradiso’ ha avuto un impatto difficile non solo con la critica ma anche con il pubblico, che lo ignorava. Adesso, nonostante dopo abbia fatto altri film, le persone che incontro mi parlano soprattutto di quello. ‘Una pura formalità’, così scuro e difficile da capire, sorprese talmente tanto che il pubblico non mi riconobbe e fu indignato dal cambio di stile. Ma oggi a distanza di alcuni anni, quando mi reco all’estero per alcuni miei film, i giornalisti mi avvicinano e mi dicono che lo hanno visto. Quel film ha incassato di meno, ed è stato interessante scoprirlo dopo».

IL MOMENTO DETERMINANTE NEL PASSAGGIO DA SPETTATORE A REGISTA.
«La mia vita da spettatore ha avuto un ruolo determinante nel mio cominciare a sognare di fare anch’io dei film. È stato un passaggio molto graduale, rispettoso di tutte le tappe. Prima di girare il mio primo film, ho fatto persino il produttore, l’operatore di macchina e il montatore, per lavori di altre persone. Io ero molto affascinato all’epoca dalla teoria di Rossellini, la teoria dell’educazione integrale, secondo cui per diventare regista si deve sapere fare tutto: lo scrittore, il regista, l’attore, il montatore, l’ufficio stampa, l’autista degli attori… Imparare queste cose, infatti, mette nella migliore condizione per poter risolvere i problemi legati alla produzione del film.
All’epoca non c’era la facilità dei mezzi digitali di oggi, e facevo i miei primi esperimenti raccontando con i mezzi che avevo a disposizione (ad esempio la macchina fotografica). Per molti anni inoltre ho proiettato i film in sala e questo lavoro ha rappresentato un grande mezzo di conoscenza, perché, avendo a disposizione le copie dei film che proiettavo, potevo non solo vederle, ma soffermarmi sulle sequenze che mi erano piaciute di più, per scoprire come erano composte, come erano fatti gli attacchi e quanto duravano le inquadrature. Quella è stata una scuola straordinaria per me. Di conseguenza, non c’è stato un momento preciso, piuttosto c’è stata un’evoluzione, finché poi un bel giorno ho sentito che volevo provare a fare i film e nient’altro. E sono stato fortunato».

(Articolo di Alessandra Basso, pubblicato sulla rivista Orizzonti n. 33)


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