| «BEN VENGA CHI SCRIVE, PERCHÉ DIVENTA UN TRAMITE PER LA LETTURA»
LEI CHE È SEMPRE IN CIMA ALLE CLASSIFICHE DI VENDITA, COSA HA DA OBIETTARE A QUANTI SOSTENGONO LA CRISI DELLA LETTERATURA?
«Mah, io non ci credo… Non è vero! Oggi abbiamo una narrativa strepitosa in Italia (anche se non condivido i ‘cannibali’, che però sono dei ‘signori’ scrittori, a partire da Aldo Nove). Poi ci sono anche gli scrittori di generazioni passate: ad esempio Tabucchi. Ma purtroppo noi siamo abituati a buttar via le nostre cose, come fanno i romani, che hanno troppe antichità e non sanno più che farsene. Noi siamo una nazione ricca di letteratura, ma preferiamo dire che non ce l’abbiamo!»
E SUL FATTO CHE TUTTI SCRIVONO LIBRI, ANCHE PERSONAGGI DEL MONDO DELLO SPETTACOLO?
«Non ho niente da obiettare. Non credo agli steccati della letteratura… Ben venga chi scrive, perché diventa un tramite per la lettura».
MARCELLO SORGI HA DETTO NEI SUOI RIGUARDI CHE «LA SUA LINGUA È IL SUO PENSIERO». VUOL DIRE QUALCOSA A SUA DISCOLPA?
«No, anzi ci metto il carico da undici, perché sono convinto che nel pensiero di un autore, qualunque esso sia, ci sia il suo linguaggio. E quando ho letto per esempio “stiamo traducendo Machiavelli in lingua italiana, perché è talmente difficile da comprendere”, per me era come ammazzare l’autore, perché, privandolo del suo linguaggio, gli si toglieva anche il suo pensiero».
IL SUO LINGUAGGIO POSSIAMO DEFINIRLO SICULO-ITALIANO, A METÀ TRA DIALETTO E LINGUA ITALIANA…
«Sì. È la mia lingua, quella che si parlava in casa nostra quando io ero ragazzo. Penso che il dialetto non tolga importanza, ma dia nuova linfa, alla lingua italiana».
COME NASCE UN SUO PERSONAGGIO?
«Ogni personaggio nasce in me da come parla, non lo immagino per le sue caratteristiche fisiche: scrivo il dialogo di una certa situazione e da lì prende forma».
E LA SUA STORIA?
«Il mio metodo di scrivere i romanzi, non i gialli per cui occorre una certa sequenza temporale e logica, è un po’ anarchico. Se dalla lettura di due pagine di un autore nasce quella spinta a costruirci un romanzo, io parto col raccontare un episodio, che una volta finito il romanzo non so che collocazione avrà».
E COME CONCILIA QUESTO SUO METODO UN PO’ DISORDINATO, COME LEI STESSO AMMETTE, CON IL GENERE DEL ROMANZO GIALLO?
«Mentre scrivevo ‘Il birraio di Preston’, mi sono accorto che c’era qualcosa che non funzionava ed era il fatto che, avendolo costruito secondo un ordine cronologico, era noiosissimo. E in quell’occasione mi posi la domanda se ero capace di scrivere un romanzo dalla A alla Z. Così è nata l’idea di ingabbiarmi all’interno della struttura, ancora più rigida per il romanzo giallo, e il risultato è stato ‘La forma dell’acqua’».
LEI PERÒ È RIUSCITO A CONTAGIARE LA FORMA GIALLA. DEI LIBRI SCRITTI, NON C’È UN ‘GIALLO’ CHE SIA DAVVERO UN GIALLO: IN UNO MANCA L’ASSASSINO, IN UN ALTRO IL CASO VIENE ABBANDONATO…
«A questo proposito racconto un aneddoto. Nel ’56 mi trovavo in Puglia e, siccome soffrivo d’insonnia, compravo tre-quattro romanzi gialli da leggere in albergo, durante la notte. Ne ho finito di leggere uno, in un’oretta e mezzo, a cui mancavano le ultime pagine. Sono passato all’altro ed era lo stesso (un mio amico le aveva tagliate con la lametta per farmi uno scherzo!). Allora ho pagato un taxi per andare alla stazione, a vedere se riuscivo a trovarne almeno uno per capire come sarebbe andata a finire la storia, ma a quell’ora era chiusa. Così mi sono ripromesso che, se avessi scritto dei gialli, i finali non sarebbero stati così importanti da costringere uno a gironzolare di notte!»
SI RITIENE UNO SCRITTORE DI GENERE?
«Per me fare queste distinzioni significa ancora mettere dei paletti, dei limiti. Noi italiani abbiamo un senso accademico della letteratura!»
A PROPOSITO DI QUESTO SENSO ACCADEMICO DELLA LETTERATURA, IL GIALLO È CONSIDERATO UN GENERE D’EVASIONE, NONOSTANTE AD ESSO SI SIANO AVVICINATI ANCHE GRANDI SCRITTORI. È D’ACCORDO CON QUESTA CLASSIFICAZIONE?
«Così come esiste il romanzo d’amore (a Roma si chiama ‘la bufala’) che dopo tre pagine devi buttar via e quello che entra invece nella storia della letteratura, allo stesso modo troviamo il romanzo giallo di consumo, che non ha altra pretesa se non quella di essere un buon compagno per prendere sonno o per un viaggio e quello di letteratura a pieno titolo».
QUALE MECCANISMO GARANTISCE IL SUCCESSO AD UN ROMANZO GIALLO?
«Il fatto che il lettore si senta ad armi pari con l’investigatore. Nel giallo non si può barare: i grandi teorici del genere dicono che il lettore deve avere gli stessi dati esatti che sono in mano all’investigatore».
QUAL È IL LIBRO CHE PREFERISCE, TRA QUELLI CHE HA SCRITTO?
«Ce ne sono due: ‘Il birraio di Preston’ e ‘La concessione del telefono’».
DUE LIBRI CHE NON HANNO A CHE VEDERE COL PERSONAGGIO CHE LE HA DATO IL SUCCESSO, OVVERO IL COMMISSARIO MONTALBANO.
«Sono grato a Montalbano che mi ha spianato la strada, ma ciò non toglie che i miei preferiti siano i romanzi storici».
RITORNANDO A MONTALBANO, DAI SUOI LIBRI SONO STATI TRATTI DEI FILM PER LA TELEVISIONE CON GRANDE SUCCESSO. È SODDISFATTO DELL’INTERPRETAZIONE DI ZINGARETTI NEL RUOLO DI MONTALBANO?
«Sì, molto, anche se inizialmente ho avuto di dubbi, prima di tutto per una certa differenza di età tra personaggio ed interprete, e poi perché ogni lettore si crea il suo Montalbano. Anche quello che avevo immaginato io sono convinto che non sarebbe piaciuto all’altro 99% dei lettori. Comunque non ho mai avuto titubanze riguardo al talento di questo attore, che è stato mio allievo all’Accademia e che conosco da quando era giovanissimo».
A CONFERMA DEL SUO ECLETTISMO C’È ANCHE LA SUA ATTIVITÀ DESTINATA AL TEATRO.
«Mah, devo ammettere che io sono stato sempre incapace di scrivere per il teatro. Scrissi una sola volta una commedia, che ha vinto un premio importante, che ha poi determinato la mia vita. Però la commedia l’ho buttata dal finestrino del treno proprio mentre ritornavo in Sicilia. Da allora non sono stato più capace di scrivere autonomamente per il teatro. Ho fatto delle traduzioni.
Stasera, ad esempio, va in scena a Catania la mia traduzione in dialetto siciliano di ‘Molto rumore per nulla’ che è diventata ‘Troppu trafficu p’ nenti’. Comunque, ritengo che in molti romanzi si possono trovare le tracce del teatro, specie per quanto riguarda i dialoghi».
INOLTRE, LEI SI È ANCHE CIMENTATO NELLA CREAZIONE DI FAVOLE. È STATA UNA SCELTA MOTIVATA PIÙ DAL DIVERTIMENTO O DA UNA NECESSITÀ?
«Per entrambi i motivi. La favola è destinata ai bambini, anche se esistono favole davvero spaventose, che sono delle intimidazioni e non andrebbero raccontate ai piccini: come quella del bambino che non voleva mangiare e muore. E poi dopo, sulla sua tomba, viene portato il piatto con la minestra…
La favola ti permette maggior libertà rispetto ad un altro genere, ad esempio, puoi far esprimere con più facilità dei concetti in bocca ad un asino che non ad un personaggio umano. E poi ti consente di poter dire molte più cose, grazie alla sua sinteticità».
(Articolo di Caterina Aletti, apparso su Orizzonti n.35,)
Continua a seguirci su facebook al seguente link
http://www.facebook.com/rivistaorizzonti
|