| Questo nuovo libro di Virginia Bigiarini si potrà catalogare come un inventario di ricordi, ma non può, né vuole essere un bilancio dei conti che la giovinezza ha aperto con il futuro.
Infatti, uno spirito forte e volitivo non può accontentarsi di tirare le somme come se la giovinezza fosse finita solo perché la malattia ne ha prostrato le forze. Troppe esplorazioni sono ancora da condurre nella propria psiche, nel mondo degli affetti, nelle persone vicine (nel rapporto dinamico e propositivo coi figli) per costruire nuovi itinerari, nuove sfide o proposte.
Il libro nuovo è un gomitolo di fili che si ricollegano al precedente (“A due passi dal destino” edito nel febbraio 2010 da Aletti Editore), anzi ad esso si saldano quando l’Autrice si impegna a mettere ordine nelle trame già abbozzate, a fornire le risposte non date, le più mature meditazioni raggiunte.
E dire che le tante, possibili, vie d’uscita sembravano dimenticate, sotto l’impeto prevalente di una dolorosa, sofferta esperienza in quel contesto vissuta.
Ed ecco una nuova, suggestiva provocazione al lettore che risulta invischiato in una rete di fatti- avvenuti realmente o solo immaginati- che si sovrappongono ed integrano.
Nella definizione paratattica del racconto, è arduo discriminare la successione temporale dei fatti: le adolescenze della madre e quelle dei figli compongono un mosaico, disegnando tracce di un’epoca non lontana che lascia ancora possibili strie di percorsi alternativi.
Attenzione, lettore! Si propaghi l’autoanalisi…
Sono anche tue, codeste strie, sia per i ricordi, i rimorsi subito cancellati, sia per l’esame di coscienza che il libro inevitabilmente induce: “come sarebbe stato l’oggi, se…”
E’ un processo tipico dell’adolescenza che continua, in un conato di “educazione sentimentale” di flaubertiana memoria.
In parole povere, potremmo dire, è il contrasto fra la vita come si sogna e l’obiettività con cui si descrive (è quanto dobbiamo ai figli) la durezza del reale.
In questa alternativa c’è tutto: il rimorso per le decisioni non prese, la fuga dalle pacate consuetudini, l’Africa con le sue vivide suggestioni, il volo verso l’ignoto…
E qui la nostra, cara Virginia doveva scegliere – o confrontare con la realtà quotidiana i sogni e riderne o lasciarsi andare ad una impietosa descrizione di una nevrosi crescente ed alla ricerca di un metodo per uscirne, con un atteggiamento “loico” e volitivo. L’Autrice si inoltra in un corridoio di certezze: “La vita fatta di piccole cose” (pag. 136)
Tracciamo uno schematico elenco di queste “cose”:
(Quelle che contavano anche nella tecnica, insieme narrativa e lirica di un grande poeta tedesco, Rainer Maria Rilke.
La chiamarono poesia delle cose: gli specchi (crivelli di fiori fitti), un lampadario, una linea perfetta affidata ad un foglio di carta, un aquilone….Scusate la digressione….)
Facciamo degli esempi. Virginia sa che nella vita sua come di tutti noi c’è un messaggio nella bottiglia “arenata proprio lungo il percorso delle tue passeggiate”…”trovata lungo la spiaggia solitaria, all’alba”: C’è dentro una pergamena da non leggere perché ciò distruggerebbe fantasie e immaginario colloquio. Altro esempio: le parole non dette, e a questo punto la “cosa” che non esiste le risponde: “non sono riuscito a dirtelo” .
E lei (pag. 19) descrive così le parole: “non dette, sussurrate, mai ascoltate, lasciate su minuscoli pezzi da carta improvvisati, quelle cattive, delicate, dimenticate, gridate al vento…”
E poi, la indovinata, imprescindibile “cosa” ritrovata per caso da uno sconosciuto affabile e sensibile: uno scatolone dimenticato in una soffitta da Virginia che così riprende contatto con le sue memorie; ognuno dei lettori vorrebbe ora identificarsi con l’ignoto donatore, e così far parte della metafora che è all’origine di un fascinoso racconto. Emergono nomi dimenticati, fatti, circostanze, sogni. Per uno scherzo del destino, vero o argutamente immaginato, il nuovo lettore si confronta con rinnovati incontri con coetanei ora cresciuti, con delusioni e conferme, con barlumi di amicizie da rinfrancare e proteggere dalla polvere del tempo.
E’ indubitabile il fascino dell’operazione, ravvivato da brillanti locuzioni dell’Autrice, a volte anche causticamente autocritica: “l’ho visto: aveva le iridi intelligenti e castane” oppure “per una come me, restare senza parole è veramente un miracolo”…
Sappiamo ora che il confronto tra i sogni e il dialogo silenzioso con se stessa si circoscriverà ad un nuovo rapporto madre-figlia fatto di emulazione, confronto, verifiche.
Volano insieme nel vuoto con il paracadute, si cimentano nei giochi di Disneyland a Parigi; si assomigliano, nel fisico e nel carattere. E’ tuttavia condivisibile l’ansia della madre che postula, come suo compito, l’erogazione di consigli che verranno (giustamente?) disattesi.
Infatti eccole davanti ad una chiusura provvisoria che può diventare definitiva scelta di vita: “limite invalicabile”. La figlia in tuta mimetica segna simbolicamente, una volta per tutte, la crescita anche della madre che avverte il recidersi del suo cordone ombelicale. Lo riconosce e dice a se stessa: “Una nuova occasione per scoprire i tuoi limiti, per volare ancora….ed io stavolta resto a terra….”
La simbiosi interscambiabile con i figli perdura e ne è conferma la dedica del nuovo libro: “per il loro amore che ha dato vita alla mia vita” riconosce Virginia.
La lotta ricomincia, il capitolo 5 colpisce al cuore l’esegeta lettore, sono i “miti inconsapevoli”, è questo il nuovo “colpo magico” che conferisce nuovo spessore e profondità al racconto, fatto di sobria e benevola descrizione di una familiarità tranquillizzante. Non c’è niente di tranquillo, se il futuro a sorpresa ci interroga sul da farsi, sulle procedure per uscirne al più presto. La mamma finora forte, pragmatica e sicura di sé, deve riconoscere: “io piccolissima tiro su le lenzuola candide, ma piuttosto ruvide, nascondendoci dentro anche le mani…”
Ricorda l’Africa, Nairobi e l’amore smisurato per l’avventura.
Chissà quanto conti per lei la suggestione di quei momenti felici per determinare la volontà di lottare per uscirne, da quella sosta forzata. I figli, cresciuti alla bisogna, sono in grado di allontanare le paure e proteggerla.
Siano anche noi chiamati a crederci.
Virginia ce la farà, ritrovato il sorriso “dei nostri dodici anni” con qualche graffio in più. (Tutti li abbiamo avuti, i 12 anni e i graffi!).
Lei sa vivere con impegno una grande esperienza di vita raccontata nei dettagli anche con il sorriso e comunque con la mano leggera.
Restiamo in attesa di un nuovo libro e che ci siano pure personaggi di fantasia, ma ricchi ugualmente di coraggio e di impegno civile.
“Hakuna Matata”: Come ormai sappiamo, è Swahili e vuol dire: “nessun problema”.
Roma, 22 maggio 2011 presso il teatro OUVERTURE di Roma
Nonio Baeri
Continua a seguirci su facebook al seguente link
http://www.facebook.com/alettieditore |