| IL LIBRO: “CONTROCANTO PASOLINIANO” DI FRANCESCO ROSSI, EDIZIONI ALETTI
L’ermetico canto dell’usignolo poeta
Il tuo canto poetico, Francesco, è uscito da pochi giorni in libreria orfano di qualcuno che potesse celebrare il tuo anelito d’infinito: non un saluto all’ingresso del tempio, neppure una parola prima di celebrare la liturgia dell’universo; almeno rimani tu, sacerdote, ad officiare il rito comunque velato di pallida malinconia.
Basti tu: sufficiente a te stesso e contemporaneamente fragile; tra carne e cielo, corporeo e insieme elegiaco, come il canto dell’usignolo, a ricordare la lacerata e contraddittoria natura mortale dell’uomo.
Chi sa (e chi vuole) ti vede attingere allo spirito e alla mappa, nel tuo viaggio – segnato tanto da orizzonte lontano quanto da sferica circolarità – a zonzo negli anfratti della persona, della pasoliniana raccolta poetante “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, per condividere, col tragico regista, una rapida successione di fotogrammi della cinepresa puntata sul cuore dell’uomo ansimante e lacerato “di piaghe esposte” come il Cristo, e scoprirvi che quell’uccellino diventa metafora della vita pulita secondo Natura che si contrappone al vuoto, “tra il vuoto del perdersi vita”, come tu dici.
Volontà d’infinito e di spiritualità cui fa da controaltare la non sempre gioiosa consapevolezza del proprio limite; Pasolini stesso: “Povero uccelletto, dall’albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena sentirti fischiettare come un fanciullino”; distico cui tu affianchi L’usignolo che cinguetta fraterna contentezza: “La vita non ammette cedimento/al pianto, macabro il “gioco” del riso/qual pur sfiorisce material commento…!”.
Le evidenti analogie con l’universo poetico dell’Usignolo pasoliniano consentono anche a te di proporre un corpus che sembra segnato dalla discontinuità ma, invece, ha un suo programma: quello della meditazione religiosa senza rifuggire dalla riflessione, ora giocosamente (e gioiosamente) infantile ora nelle adiacenze della metafisica, sulla consumazione e sulla livida sofferenza del tempo che “brilla nel canuto divino stampo”.
Il travaglio con il quale scolpisci il verso, creando attrezzi in rima da riporre in un vocabolario che plasmi a tua misura, è evidente ma non ammutolisce l’ottimismo e la speranza, ché – anzi – si sentono tra i versi tuoi le parole di Keats e quasi te ne appropri: “E cadranno le incrostazioni e i pesi che gravano sullo spirito stanco; saremo soli, io e il gorgheggiare melodioso del piccolo passeraceo, troverò la porta dell’anima. Potrò consapevole percepirmi per quello che sono io e che siamo tutti: persone, esseri umani da rispettare e da amare e non numeri e mezzo perché uomini senza qualità raggiungano traguardi ambiziosi e futili”.
La tua voce, infatti, permettimi di dire, per un verso canta sullo spartito pasoliniano ma per altro verso – ciò che si trova se si scava con quegli stessi attrezzi nel tuo lessico – ha il timbro dell’anelito all’eternità del poeta inglese: un universo fatto solo di bellezza e di amore che acquista il senso dell’immortalità perché è capace di risollevare lo spirito e moderare la disperazione anche davanti alle brutture della vita.
Oreste Mendolìa Gallino
Da “Voce della Vallesina”, Settimanale d’informazione della Diocesi di Jesi (AN), del 9 maggio 2010, pag. 12 |