| Alberto Battois, 34 anni, trevigiano di nascita, vive all’estero dal 2005. E’ ingegnere dei sistemi ferroviari e la sua esperienza professionale l’ha fatta in Australia, mentre era in movimento il primo treno merci a guida automatica del mondo; dal 2009 vive a Tokyo: è il solo italiano inserito a pieno titolo in una multinazionale giapponese.
Nel deserto australiano ha scritto un romanzo dal titolo “La vita è un rotolo di carta igienica” (Aletti editore).
Può raccontare come ha preso avvio questa sua iniziativa editoriale?
“Cominciamo dall’inizio: a 29 anni decido di infilare la laurea in valigia, e di partire. Certamente non sono piu’ i tempi dell’emigrante descritto da Sordi in “Bello Onesto Emigrato Australia”. L’italiano che partiva “con la valigia di cartone” in cerca di fortuna, o molto piu’ spesso per scappare dalla fame. Ciononostante, e’ ormai da alcuni anni che in Italia sempre piu’ giovani decidono di lasciare il Belpaese verso lidi piu’ ospitali, lavorativamente parlando. Nel 2005 lavoravo come ingegnere in una societa’ di servizi. Avevo una bella ragazza, un lavoro sicuro, uno stipendio interessante, trentadue giorni di ferie pagate l’anno. A neanche trent’anni stavo pianificando di farmi un mutuo e comprare casa.
Eppure, un bel giorno decido di lasciare tutto e partire. E ora, a meno di cinque anni di distanza, ho residenza australiana ma vivo in un grattacielo nel centro di Tokyo. Parlo correntemente l’inglese, lingua che prima ignoravo quasi del tutto, ma vivo e lavoro in giapponese. E soprattutto, ho pubblicato un romanzo che sta negli scaffali delle librerie di tutta Italia.
La sua storia è interessante ed ha anche dell’originale?
Ho vissuto la maggior parte della mia vita in un paesino della provincia di Venezia. Vita normalissima: padre impiegato, madre casalinga, una laurea in ingegneria elettronica all’università di Padova, un lavoro a tempo indeterminato per un’azienda che si occupa di lavori pubblici. Dopo quasi due anni di ricerche a tempo perso, nel 2005 ho trovato l’occasione giusta e mi sono trasferito a Brisbane, la capitale dello stato del Queensland. Quella di partire all’estero era più che altro un’idea, un sogno nel cassetto. In fondo dove vivevo, avevo tutto quello che potessi desiderare: carriera, amici, una storia importante. Ma nel tempo libero mandavo i miei curriculum ad aziende estere, e nel frattempo frequentavo corsi d’inglese. Ho semplicemente lasciato la porta aperta al destino.
Ma se stava bene dove viveva, quale molla l’ ha spinto ad emigrare?
Io sono sempre stato una persona molta legata al suo territorio, alla sua gente. Adoro il Veneto e l’Italia più di ogni altro luogo al mondo. Ma anche se vivi nel più bel posto del mondo, ciò non t’impedisce di chiederti: cosa c’e’ al di là dall’orizzonte? In tutti i casi, non è così semplice. Quando me ne sono andato, ho dovuto fare i conti con la mia vita e pensare a quello che mi lasciavo alle spalle.
E invece?
Purtroppo (o per fortuna) a certi richiami non si può resistere. Sono un ingegnere e in quanto tale mi piace pianificare tutto, tranne una cosa: la vita. Lasciamo andare le solite cose, tipo “si vive una volta sola”. Il nocciolo della questione: capita, e’ fisiologico che uno ad un certo punto immagini come sarà la sua vita in cinque, dieci anni, e poi prenda le sue decisioni. Potrei dire che volevo dimostrare a me stesso e agli altri il mio valore. Oppure che forse ero un po’ annoiato, avevo bisogno di nuovi stimoli, di fare qualcosa veramente importante. Forse quelle erano tutte scuse. Guardando la mia vita a posteriori, credo che il vero stimolo che mi ha fatto partire sia stata la paura di avere un rimpianto. Ecco, a cinque anni nel futuro mi immaginavo riguardarmi indietro senza rimpianti. L’attuale risultato è che ci sono riuscito.
Che esperienze s’è fatto all’estero?
Nel 2005 mi sono trasferito a Brisbane, dove ho iniziato a lavorare nel ramo ferroviario. I primi due anni sono stati a dir poco esaltanti: Vivevo in un bellissimo appartamento in pieno centro, in una città subtropicale di un paio di milioni di abitanti. Per dirne una, a Brisbane si va al lavoro in maniche di camicia anche in pieno inverno. Ho potuto frequentare gente di tutte le nazionalità: per questo posso dire che l’Australia è un paese veramente multiculturale. E tutto ciò mi ha aperto un nuovo universo. Posso dire con tranquillità che ho fatto e visto più cose in due anni che nei dieci precedenti. Il lavoro poi lo definirei “eccezionale”. Ero l’unico italiano in azienda, quindi mi sono inserito in un ambiente totalmente nuovo, veramente avvincente.
L’ingegneria ferroviaria è un settore “di nicchia”, ma negli ultimi anni sta diventando vero protagonista del trasporto di massa. Basti considerare le risorse finanziarie che stanno investendo nell’alta velocità gli Stati Uniti o la Cina. Io poi sono stato assunto assieme ad altri ingegneri arrivati nella stessa azienda da tutto il mondo, per un progetto assolutamente innovativo ma nello stesso tempo molto rischioso: era in pratica un trial, una prova per il primo sistema a guida automatica per treni merci del mondo. Si doveva dimostrare che eravamo in grado di guidare i treni del nostro cliente senza bisogno di un macchinista a bordo. Era uno di quei progetti in cui o riesci, o ritorni a casa con tanti saluti.
Ma guidare treni merci senza macchinista non sembra così difficile?
Lo so, a prima vista uno si dice: mettiamo un computer al posto del macchinista, magari con un bel GPS installato sopra, e lasciamolo guidare. In fondo per guidare un treno, basta accelerare e frenare. Ma non è così semplice, tutt’altro. Immaginate una miniera di ferro nel bel mezzo del deserto. Un treno con più di duecento vagoni carichi di sabbia di ferro. Alla fine il tutto è lungo oltre tre chilometri, per un peso complessivo che supera abbondantemente le dodicimila tonnellate. A un carico del genere non è che puoi attaccare una locomotiva e partire: ce ne vogliono ben cinque, due davanti e tre dietro a spingere. Peraltro, dobbiamo fare in modo che le locomotive si parlino tra loro e che sappiano quando spingere e quando tirare, se non si vuole spaccare tutto. Poi ci sono altre mille variabili, tipo alcune locomotive che si staccano in corsa e ritornano alla base. Alla fine è andata a meraviglia. Per il primo anno e mezzo ci siamo occupati della progettazione. E’ stato lavoro d’ufficio, diciamo. Poi nel 2007 la squadra dei tecnici si è trasferita nel deserto australiano, dove è stato sperimentato e installato il sistema. Ho vissuto per quasi sette mesi nel regione del Pilbara, nella parte a nord ovest del continente australiano. E’ un’area grande come mezza Europa, ma ci vivono solo poche decine di migliaia di persone. In quest’area non c’è assolutamente nulla, a parte un deserto marziano e immense risorse minerarie. E’ una zona dove si muove la ricchezza del paese e dove si misurano le capacità degli ingegneri.
Un piccolo paradiso?
Mica tanto. Stavo in un paese di 800 abitanti, dove il paese più vicino era a qualche centinaia di chilometri. Strade di sterrato eh, mica di strade asfaltate. Bisognava fare otto ore di jeep, oppure usare il piccolo aereo privato che ci avevano messo a disposizione. Oltre a questo, si deve tener conto che in estate lì la temperatura arriva tranquillamente a cinquantacinque gradi, mica noccioline. Quando apri la finestra, la mattina sembra di puntarsi in faccia un asciugacapelli. E poi i cicloni, ne ho contati cinque in pochi mesi. Abbiamo dimostrato che ce la potevamo fare, abbiamo mosso il primo treno merci con guida automatica del mondo, la notizia ha esaltato la stampa nazionale e il nostro lavoro ha riscosso il meritato successo.
Di quei giorni ricordo gli interminabili viaggi in treno tra la miniera e il porto, durante i quali ci davamo il cambio per sorvegliare la cabina comando. Sacco a pelo in cabina, si saliva, si premeva il pulsante e si lasciava correre il treno nel deserto per una notte intera, tra canguri e mandrie di cavalli selvaggi. Ho ancora negli occhi il ricordo delle stelle del deserto, e le albe, e i tramonti. Indimenticabile per davvero!
Tra gli impegni di lavoro, il poco riposo, è riuscito,superando la noia, a scrivere un romanzo, e pure fantasticando?
Preciso che gli orari di lavoro erano estenuanti, tanto per cominciare: turni di dodici ore al giorno per dodici giorni consecutivi, poi una giornata di riposo e si ricominciava. Ogni due turni si prendeva l’aereo per tornare alla base, in riposo per cinque giorni. E poi le condizioni erano particolarmente stressanti: consegne a breve termine e grandi responsabilità. E la noia del dopolavoro. La sera, ad esempio, non è che ci fosse un posto dove andare. A dire il vero scrivere è significato molto per me avevo iniziato prima di allora. Diciamo che il deserto mi ha dato il pretesto per finire.
Così è arrivato a pubblicare in Italia il suo primo romanzo, “la vita è un rotolo di carta igienica”?
Il secondo, prego. Il primo l’avevo scritto in precedenza ma non vorrei dare altri dettagli. Un giorno, forse, ne riparleremo. Questo mio romanzo narra la storia di un riscatto personale. Anzi, di più. Lo chiamerei quasi riscatto sociale. Il messaggio che ho voluto lanciare e’: se c’e’ qualcosa da fare nella vita bisogna farla quando e’ il momento giusto, non aspettare. Perche’ la vita scorre via veloce, proprio come un rotolo di carta igienica. E’ il riscatto di chiunque lo voglia. E’ la rivincita di tutti quelli che ad un certo punto decidono di cambiare il proprio destino e di uscire da una certa condizione.
Come ha sviluppato la storia nel libro?
La vita è un rotolo di carta igienica narra le avventure di una coppia di ragazzi che, per motivi piu’ o meno importanti, si ritrovano costretti dagli eventi a diventare delle specie di ladri. Uno di loro è un genio dei numeri un po’ emarginato, diciamo, mentre la protagonista è una bimbetta viziata e all’apparenza molto superficiale. La storia si svolge negli anni ’90, a Treviso. Vista l’ambientazione e il fatto che i protagonisti sono degli adolescenti, qualcuno l’ha paragonato a una versione veneta del “Jack Frusciante” di Enrico Brizzi. Non lo credo. La narrazione è totalmente diversa: Brizzi parla di adolescenti alla ricerca di se stessi, io parlo di adolescenti che narcotizzano cani da guardia! E poi il mio romanzo ha una vena tagliente, demenziale, scurrile che non si ritrova per nulla in “Jack Frusciante”. Vorrei fare un accostamento. Mi cospargo il capo di cenere al solo confrontarmi con il talento di uno degli autori più dotati del panorama italiano, ma se proprio vuole accostare la mia storia a qualcosa già scritto, forse sono più vicino a “Occhi sulla Graticola” di Tiziano Scarpa.
Si è appena paragonato al vincitore del premio Strega?
Beh, io Scarpa lo seguo da molto prima. “Occhi sulla graticola” e “Venezia è un pesce” sono due tra i pochi libri che ho portato con me in Australia. Limiti di peso, sa. E poi ancora “Il cielo è rosso” di Giuseppe Berto, il mio libro preferito assieme a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov. Anche se vivo all’estero, non ho scordato alle mie radici. E poi noi veneti prima ancora che italiani di solito ci sentiamo prima di tutto parte della Serenissima. (Ride).
A parte gli scherzi, ha mai letto “Il cielo è rosso”? Berto è riuscito a mettere su carta il sentimento della tristezza come non l’ho visto fare a nessun altro. Poi la cosa è soggettiva, per carità.
Parliamo della trama. Nella Treviso del 1995 due studenti di un fantomatico liceo scientifico iniziano a rapinare le case dei loro compagni di scuola. Sembra un fatto di cronaca molto attuale?
In realtà quello è solo il pretesto per raccontare una storia. E poi i ragazzi non lo fanno nè per divertimento nè per noia. Ognuno ha i suoi buoni motivi, mi creda. Secondo me i protagonisti sono come se fossero vivi. Penso sia un sentimento che provano un po’ tutti gli autori nei confronti dei loro personaggi. Comunque, ne capitano di tutti i colori, ma non voglio rovinare la sorpresa. Il ritmo della storia è serrato, la struttura è comica o comicheggiante, e il tutto è pervaso di quei sentimenti intensi e assoluti che si vivono solo a diciassette anni. Che altro volere di più dalla vita?
Troppo facile. Un Lucano?
Esatto. Questo e’ precisamente lo stile che uso nella mia storia. Un’ironia un po’ british, molto schietta, molto facile.
Ci aggiunge qualche altro particolare della sua vita?. Dopo essere ritornato dal deserto, ha lavorato ad alcuni altri progetti in Malesia e Australia, sempre per la stessa azienda. Ma poi nell’autunno del 2009 decide di cambiare di nuovo capitolo?
E continente. Frequentavo da un po’ di tempo un corso di giapponese e così, con l’aiuto della conoscenza della lingua, sono riuscito a farmi assumere da una multinazionale giapponese. Ora mi ritrovo a essere un cittadino italiano con residenza australiana che vive in centro a Tokyo.
In sostanza un doppio emigrante?
L’ho fatto per motivi professionali, intendiamoci, non sono un vagabondo. In Giappone c’è la migliore tecnologia ferroviaria al mondo, e io sono qui per imparare da chi fa girare treni ad alta velocità quasi senza ritardi né incidenti dagli anni ’60. Mica da ieri.
Le manca di più l’Australia o l’Italia?
Che domande. Però dell’Australia mi mancano due cose. L’oceano, lo stile di vita rilassato e la vista della città che avevo dal mio appartamento. Ne ho dette tre, mi scusi.
Tornerà in Italia un giorno, magari per mettere a disposizione dei suoi connazionali l’esperienza accumulata all’estero?
Sicuramente sì. Ma prima di farlo, mi permetta, devo vivere il mondo un altro po’.
Fonte: http://www.regione.veneto.it/Venetinelmondo/NewsView.aspx?idNews=584
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