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Gerardo Naclerio
GLI ANGELI NON SORRIDONO A NATALE
Introduzione di Roberto Sardelli
La cosiddetta “piccola editoria” ha il merito, nel nostro povero tempo, d’intercettare una letteratura che le grandi case editrici non degnano di un solo “guardo” a meno che non si presti al loro gioco perverso fatto di pubblicità e di interessi. Si riscattano con i classici e gli scolastici, cioè, da pavidi, vanno sul sicuro per non rischiare.
Il “nome” altisonante che hanno tra le mani è un’eredità solo da mungere.
Una politica editoriale attenta e lungimirante dovrebbe portarle invece a dare uno sguardo alla ricerca di base per coglierne le novità, ma tutti sappiamo quanto questa sia negletta, a livello pubblico e privato, e la cultura è la prima a farne le spese.
Con questo atteggiamento dominante si perde anche un “racconto” come quello di Gerardo Naclerio.
Leggendo “Gli angeli non sorridono a Natale” non aspettiamoci d’incontrare e di farci sedurre da un eroe o da un’eroina da “romance”.
Questa è una linea letteraria che, nel bene e nel male, attraversa la letteratura e che ci espone al pericolo di farci assimilare acriticamente a modelli che non consentono la crescita culturale dei lettori, specialmente delle fasce giovanili.
Clara Reeve (1785), spiegando le sue idee sullo “sviluppo del romanzo”, ci metteva in guardia contro una tale evenienza. I giovani – diceva – si ritengono eroi capaci di giudicare uomini e costumi e pretendono di sapere tutto, mentre si trovano nell’ignoranza più profonda. (...) Quindi armati di ignoranza, di boria e stoltezza, si tuffano a capofitto nella scioperatezza.
Certamente Clara Reeve scrivendo queste parole si rifaceva ai giovani della sua epoca, ma sono poi tanto cambiate le cose nella nostra epoca? E se al posto degli eroi descritti nel “romance” mettiamo i guru della canzone, i “maitres a penser” dello spettacolo televisivo, i “maghi e maghetti” della letteratura, le “veline e i velini” di alto e basso bordo e i campioni dello sport che pretendono di sentenziare su tutto?
Allora è meglio e più salutare ritornare all’asciuttezza del romanzo di Naclerio.
Non so quanti giovani lo leggeranno. A respirare l’aria che gira saranno pochissimi. Molte sono le vittime di una cultura che emargina e rende difficoltosa la lettura.
Ma poi, perché è così importante leggere? La stessa domanda se la poneva il Marchese De Sade, e così rispondeva: A cosa servono i romanzi? Siete ipocriti e perversi perché solo voi ponete questa ridicola domanda.
Servono a dipingervi così come siete, orgogliosi individui che volete sottrarvi al pennello perché ne temete il risultato. Il romanzo è la descrizione dei costumi secolari. Il pennello del romanzo coglie l’uomo nella sua interiorità, lo sorprende quando abbandona la maschera. Lo stolto coglie una rosa e la sfoglia, l’uomo saggio l’ammira e la dipinge: ecco chi dei due leggeremo.
È con questo spirito che leggeremo “Gli angeli non sorridono a Natale”.
Naclerio fin dalle prime battute ci fa entrare nel clima di ciò che racconterà. Mi sembra che egli abbia ben imparato la lezione che è fondamentale per chiunque si accinga a scrivere: prima di far scorrere la penna sulla carta, si fermi e “veda” ciò che vuole scrivere.
La visione viene prima della scrittura, e “vedendo”, non consideri questo tempo come perduto, ma si soffermi, indugi con stupore, perché egli sta entrando nell’interiorità, deve rendere visibile l’invisibile, come un restauratore deve portare alla luce un “antico” nascosto sotto la patina del tempo. La varietà e la caratterizzazione servono a questo.
Ed ecco il giovane Jorge, un autentico perplesso che, come un pulcino nella stoppa, tenta, e forse vuole uscirne, ma...
Ecco il “fratellino” Valerio, il “figlio da nascondere”. Anche nei suoi scatti di dignità che rivendicano la purezza di un amore omosessuale, resta piegato come una vittima rassegnata, come una fiera braccata...
E poi gli altri personaggi che scivolano nel libro come maschere impotenti in fuga da se stesse: ognuno sembra recitare un copione scritto in una famiglia borghese, anche in occasione di un Natale “tappabuchi” definito “un pranzo tra parenti...nulla d’importante”.
Sì, nulla d’importante, alla maniera in cui una famiglia borghese, salvaguardando le apparenze (questa è la cosa “importante”) è in grado di banalizzare un evento in cui quella famiglia “crede” ma che fagocita nel suo “politically-correct”.
La famiglia Marsilio. “Tutti accomodati davanti al piatto degli antipasti... alle posate argentate e ai bicchieri delle grandi occasioni” dove il Signore è fatto oggetto di un “breve pensiero” e dove la riunione, evidentemente comatosa, torna a rianimarsi al momento di alzare i bicchieri.
Uno spaccato impietosamente realistico e vero quello che ci descrive Naclerio che, con questo lavoro, continua a ragionare e a sezionare la famiglia borghese.
Ma c’è l’epilogo Nadia.
È la sola capace di rompere il guscio e l’accerchiamento, non siede a pranzo, è fuori, è esclusa, è l’esclusa. È questa ragazza dai molti clienti, l’unica capace di dare un senso alla “memoria passionis” che le brucia nel cuore. Davanti a Svetlana, l’amica perduta, non esita: dobbiamo fare qualcosa. Per lei “l’altra” non è da abbandonare ma da includere. Dobbiamo fare qualcosa! Nadia è quella che ha preso sul serio le parole del marchese De Sade e, assentandosi “dall’ammucchiata natalizia”, come un “pennello” animato svela le nostre ipocrisie in un ordinario “Natale senza neve”.
Naclerio, insomma, ci racconta una storia, anzi, “la storia” di una famiglia, non di una saga, di un mito, o di una leggenda familiare, ma di una famiglia osservata in un solo irripetibile momento, quello del “pranzo natalizio” che ha il potere di mettere a nudo e di far affiorare le contraddizioni e le bassezze del nostro perbenismo.
Roberto Sardelli
Collana "Gli Emersi - Narrativa"
pp.204 €14,00
ISBN 978-88-6498-075-1 |