| Intervista di Simone Gambacorta apparsa su (AbruzzoCultura)
Mattia Albani è nato a Giulianova (Teramo) nel 1986. Esordisce pubblicando come primo libro la raccolta di poesie “L’apnea dei 22. Rincalzi d’albe e scucite metafore” (Aletti Editore, pp. 100, Euro 14).
Sei nato nel 1986: quando hai inziato a scrivere poesie?
«Come autore di opere in versi sono un soggetto molto vicino alla realtà delle lucine di natale: intermittente. Infatti ho tentato di scrivere piccole poesiole intorno ai dieci anni, poi ho smesso, per riprendere tra i quattordici ed i sedici, poi ho smesso di nuovo, ed ho ricominciato a ventun’anni. Adesso ne ho ventidue, di anni, quasi ventritrè. Seguendo la media, quindi, è molto probabile che a breve mi stufi ancora della mia impudenza poetica e, vinto dal pudore e dal buon senso, abbandoni nuovamente la poesia per qualche anno. Vedremo».
C’è stato un motivo particolare che t’ha spinto a farlo?
«Ho iniziato a scrivere piuttosto seriamente poesie tra i quattordici e i sedici anni, così, per presunzione. All’epoca ero un divoratore incallito delle opere di Edgar Allan Poe. Leggevo soprattutto i racconti, ignorando l’esistenza delle poesie, e tentando di riprodurne su carta l’andamento e le atmosfere. Scrivevo più che altro racconti, a quel tempo. Poi ho scoperto l’esistenza di “Il corvo e le altre poesie” ed ho incominciato ad odiare il caro Poe. C’era, in quei versi, qualcosa di troppo farraginoso e meccanico, nulla che lasciasse intravedere la speranza di un proseguio come poeta. E invece, Poe, ne aveva scritte tantissime altre, di poesie. Qualcosa non quadrava. Un giorno, mi capitò fra le mani la sua opera omnia, con testo originale a fronte. Fu la svolta. Mi sembrava che le traduzioni fossero totalmente arbitrarie (ecco il primo sintomo di presunzione) e, così, pure non capendo assolutamente un’acca di inglese, né di prosodia e metrica anglosassone (anche se Poe era americano), decisi di tradurre quei versi da me, cercando di adattare la computazione sillabica dell’originale (che, ho scoperto in seguito, impiegava il sistema metrico latino) alle forme italiane del verso. Una sorta di nuova e zoppicante metrica barbara, insomma (secondo sintomo di presunzione). Da qui, progedendo con il mio lavoro di traduzione e reinterpretazione, l’impulso di provare a ricalcare quel tipo di poesia sforzandomi di cambiare le parole dell’autore con parole che fossero esclusivamente mie (terzo sintomo di superbia). Inizialmente erano titoli come “Catabasi proserpinica” o “Voto al Nulla di un ex vampiro tardo-accondiscendete un dì servitore dell’Altissimo”. Roba così, insomma. Poi (e questo è l’ennesimo sintomo di superbia) ho deciso che il ruolo di nuovo Poe mi andava stretto e, anhe un po’ vergognandomi di quello che avevo scritto, confinai tutto nel dimenticatoio. Poi la superbia è riemersa e sono tornato a scrivere. Ecco, sinteticamente, direi che sì, c’è stato un motivo particolare che mi ha spinto a scrivere poesie, anzi due: presunzione e vanità. Che poi, alla fine, si riducono ad uno solo».
Cosa significa scrivere versi? Che tipo esperienza è?
Scrivere versi non è ispirazione. O meglio: scrivere versi non è solo ispirazione. Sarebbe riduttivo. Scrivere versi è qualcosa di più, altrimenti non si spiegherebbe come mai la poesia venga ancora classificata come il genere letterario più alto. Se fosse solo ispirazione tutti sarebbero capaci di scrivere una poesia. E invece no: molti sono capaci di scrivere parole una dietro l’altra, andando a capo di tanto in tanto; pochi sono capaci di comporre versi; ma pochissimi sono in grado di scrivere poesie. Come ogni testo letterario, anche la poesia partecipa al famoso processo combinatorio che sia Poe, sia Calvino, sia Eco (per citarne alcuni) spesso ci hanno descritto. In soldoni, “processo combinatorio” vuol dire che nessuno inventa niente, ma tutto si basa su un Modello. Il Poeta è colui il quale riesce a superare il Modello, possibilmente senza rinnegarlo, trovando la propria originalità, che non è data dal Genio, bensì dalla capacita combinatoria dei Modelli che si prendono come riferimento, cioè dal sistemarli in maniera tale da dare l’impressione che si crei qualcosa di nuovo senza snaturarli, però».
Dunque…
«Scrivere versi non può essere solo ispirazione, altrimenti andrebbero a farsi friggere anni ed anni di studi semiotici (anacronistici e non). Scrivere versi significa iniziare e concludere un processo le cui tappe si possono riassumere in: idea di base, manipolazione dell’espressione, riassestamento dell’idea e mutamento del linguaggio. Il tutto per offrire al lettore una nuova visione delle cose. Questo significa scrivere versi (Poetry - come Genius - is twenty per cent inspiration and eighty per cent perspiration). Chi non partecipa di questa esperienza non è uno che scrive in versi bensi uno che scrive andando a capo. Il Poeta è un’altra cosa, è uno che trascende questa esperienza. È un altro pianeta».
Dammi una tua definizione di poesia.
«La poesia deve essere musica, avere ritmo, suoni, suggestioni. Deve rappresentare immagini come se il poeta vi entrasse in contatto per la prima volta. Non deve renderle più comprensibili, bensì stimolarne una percezione diversa, particolare, accrescerne la durata e la difficoltà. La Poesia non deve raccontare: la Poesia deve svelare».
Ora dammi invece una tua definizione del fare poesia.
«Fare poesia è rendersi conto di essere miopi, anche astigamtici. Quando ci accorgiamo che incominiciamo a vedere le cose in maniera un po’ diversa, subito corriamo dall’oculista. In poesia funziona più o meno allo stesso modo: quando ci si accorge che una cosa è così, ma può essere anche in questo modo o in quest’altro ancora, o in un qualunque altro modo, allora si cerca di mettere bene a fuoco. Quando non hai problemi fisici di vista, il modo migliore per mettere a fuoco è quello di cercare le giuste lenti nella Poesia».
E il poeta, cos’è, chi è, il poeta?
«Il Poeta è un alieno. Uno che viene da un altro pianeta. Un extraterrestre».
Credi abbia un ruolo all’interno della società?
«Il ruolo del Poeta all’interno della società è lo stesso degli UFO. Una diceria, un mito, una leggenda. Un oggetto volante non identificato: c’è sempre qualcuno che dice di avverne visto uno, ma in fondo non ci crede tanto nenache lui, e c’è sempre qualcun altro che dice che non esistono, così per partito preso, senza fornire palusibili spiegazioni. Un UFO, in sostanza. E questo perché il Poeta è al di là della società, la sovrasta guardandola con quegli occhi che solo lui possiede. Qualche volta interviene, lancia i suoi messaggi, cerca di dare a tutti il suo modo di guardare le cose, ma troppo spesso dimentica di essere un alieno. Quante persone darebbero retta ad un alieno? Per non parlare poi di quante persone hanno mai visto un alieno. Per il Poeta è uguale. Esiste solo nella misura in cui la gente compra le sue opere. Altrimenti non esiste. Ora, si sa che il mercato della poesia non sia molto frequentato, quindi, inevitabilmente, il Poeta altro non diviene che un extraterrestre che viaggia a bordo del suo libro (UFO, in quanto per molti, veramente, oggetto volante non identificato). Ogni tanto qualcuno lo vede, magari lo racconta ad altri, ma alla fine nessuno gli crede. E allora cosa resta da fare al nostro povero Poeta E.T. se non prendere atto del suo ruolo fiabesco e leggendario? Cosa può fare E.T. se non stimolare la fantasia e la speranza? Questo può fare un alieno, non di più, perché se tutti cominciassero a prendere coscienza della propria esistenza, ecco che sarebbe requisito dalla NASA, seviziato e studiato fino a farlo conoscere a tutti. E a quel punto tutti smetterebbero di stupirsi».
Quindi tu ti consideri un poeta?
«No, per carità, io non sono un alieno! Soffro anche di vertigini. Va be’ che prima ho detto di essere superbo, ma non fino a questo punto. Per ora sono solo uno che scrive versi, ma non ancora un Poeta. Forse lo diventerò - ecco di nuovo la presunzione - o forse no, ma per adesso mi limito a guardare il cielo con il mio telescopio in cerca di qualche nuovo UFO».
E quali sono i “tuoi” poeti? Quali sono, cioè, qui poeti che ritieni imprescindibili?
«Su tutti Dino Campana. Ma sono particolarmente legato anche a Poe, Baudelaire, Rimbaud, Withman, Carducci, D’Annunzio, Montale, Pascoli, Mallarmé, Lautreamont, Saba, Alfieri e Tasso. I contemporanei li spio al telescopio».
Al di là della poesia, parlami un po’ delle tue letture: quelle che ti hanno formato, quele che continui a rileggere e a interrogare…
«Faccio sempre fatica a parlare delle mie letture: ogni volta mi dimentico tutto. Forse è dovuto al fatto che solitamente non rileggo quasi mai quello che ho già letto una volta. Cercherò, per tanto, di ricordare quano più possibile. Ho iniziato il mio “apprendistato” di lettore, come ho già detto con Poe. Da lì in poi ho spazziato su molti generi (mantenendo comunque, e forse purtroppo, una formazione prettamente scolastica e poco “originale”), da Lovecraft a Calvino (“Se una notte d’inverno un viaggiatore” è geniale), ma anche Dostoevskij, Puskin, Tolstoj, Bulgakov (la letteratura russa mi piace molto); Bukowski, Miller, Nabokov, Mishima, Orwell, Hemingway, Pavese, Baricco e tantissimi altri. Negli ultimi sei anni mi sto appassionando ad Umberto Eco (soprattutto come saggista) e, in generale, alla dottrina semiotica».
“L’apnea dei 22” è il tuo primo libro di poesie: parlamene un po’?
«E’ il mio primo libro in assoluto. La mia prima pubblicazione ufficiale. Una raccolta di quaranta pezzi che ho cercato di scrivere in maniera tale che le poesie in essa contenute accrescessero la difficoltà e la durata della percezione e rappresentassero le immagini come se io stesso che le propongo vi entrassi in contatto per la prima volta. Lo scopo, ovviamente, non era quello di rendere più comprensibile l’immagine (e il suo significato), bensì di stimolarne una percezione particolare. Questo spiega l’uso di arcaismi, la difficoltà l’oscurità dell’organizzazione sintattica e le violazioni ritmiche. Ho inoltre cercato di innestare, su un inevitabile fondo di ovvia cultura locale, rami del simbolismo francese. Ho cercato di far sì che ne “L’apnèa dei 22” tutto diventasse simbolo, nel tentativo di comporre una poesia che riuscisse ad immettere il senso dei colori e della musica nel mistero della parola poetica, oltre a comunicare sensazioni primigenie e notturne, proprie della Poesia».
Come mai questo titolo?
«Il libro, inizialmente, aveva un altro titolo nella mia testa, che era “Niente di certo”. L’ho scartato perché, nella raccolta, c’è un pezzo (mi piace chiamarli così, i miei versi) che porta lo stesso nome, e questo avrebbe portato il lettore ad attribuire al pezzo in questione un ruolo preminente all’interno della raccolta (e non è così); poi anche perché un titolo del genere avrebbe portato il lettore ad immaginarsi la trama di un Thriller o un Noir e non mi andava di illudere eventuali acquirenti alla ricerca di storie di genere. Il mio proposito era di intitolare il libro “Poesie”. Titolo molto neutro. Ma a quel punto avrei ristretto eccessivamente il ventaglio di compratori ai soli amanti della poesia (ben pochi). Io volevo indurre le persone a comprare il mio libro senza inganni, semplicemente incuriosendole, stuzzicandole. L’idea dell’ “Apnea dei ventidue” mi venne quasi per caso e mi piacque subito, perché con un titolo del genere il lettore poteva procedere a proprio piacimento nelle interpretazioni, semplicemnte basandosi sul significato che le parole hanno da vocabolario ed assumono collegandosi tra di esse. Ad esempio, “apnea” vale sospensione volontaria della respirazione, effettuata specialmente nelle immersioni; “ventidue”, invece, è un semplice aggettivo numerale che, in questo caso, coincide con la mia età anagrafica».
Anche il sottotiolo attira: “Rincalzi d’albe e scucite metafore”…
«Una volta scelto “L’Apnea dei ventidue” per non tradire il mio proposito (quello di non ingannare i lettori), ho deciso di aggiungere un sottotitolo velatamente descrittivo. Un sottotitolo che fosse una sorta di manifesto poetico. Un manifesto della poetica espresso in quelle pagine. Così ho inserito “Rincalzi d’albe e scucite metafore” che, nonostante sia il verso iniziale di una poesia contenuta nel libro, non attribuisce al pezzo che lo contiene particolare importanza (poiché il suo significato differisce da quello che assume all’interno della poesia). Anche in questo caso le interpretazioni si moltiplicano. “Rincalzo”: appoggio, sostegno, aiuto, rinforzo ed anche riserva; “alba”: prima luce del mattino e il momento di passaggio dalla notte al giorno, in senso figurato può valere anche come inizio, principio, e in letteratura è un componimento poetico-musicale di origine medievale sul tema della separazione degli amanti che avviene all’alba; “scucito”: che presenta scuciture (in senso figurato, invece: slegato, privo di nesso logico, che avviene, che si manifesta in maniera discontinua, intermittente); in fine metafora: proprio quest’ultima parola dovrebbe indicare la materia fondamentale dell’opera, ovvero la poesia».
Come hai detto libro raccoglie quaranta poesie: le hai scritte con l’idea di farne una silloge? Oppure sono venute fuori una dopo l’altra e a un certo punto hai pensato di riunirle?
«Dopo l’ennessimo allontamento dalla poesia, me ne sono riavvicinato grazie ad una seri di lezioni universitarie, per le quali, ad ogni incontro bisognava portare un componimento scritto secondo determinate caratteristiche. Durante queste lezioni ho scritto una quindicina di pezzi. Poi, un giorno, la professoressa ci indica un sito di scrittura creativa col quale lei collaborava. Posto qualche pezzo fra quei quindici che avevo e ricevo un messaggio da una casa editrice che mi informa che stanno indicendo un concorso di selezione di opere inedite, che sarebbero interessati alle mie poesie, e che, se volevo, loro sarebbero stati lieti di analizzare i miei pezzi. Ne servivano almeno trenta. Così ho riagganciato i rapporti con la poesia e sono riuscito a creare quaranta pezzi. Gli ho messi insieme in una raccolta e l’ho spedita. Dopo un mese ho ricevuto la proposta di pubblicazione».
Com’è organizzato il volume?
«Il volume è diviso in sei sezioni, con tre intermezzi, un epilogo, un colophon ed un’epigrafe. La prima parte dell’opera, dal titolo “Scuri e chiaroscuri”, elenca nove composizioni che possono essere interpretate attraverso il passaggio dalla notte al giorno, dove la notte è spesso trasfigurata, antropomorfizzata, giocando sul sottile parallelo tra la notte e la donna. Il passaggio prosegue nella seconda parte, intitolata “Risvegli”, in cui si contemplano le visioni indotte dal sonno delle tenebre alla fantasia. Da qui si snodano, in successione, ricordi/visioni di amori passati (si noti il trittico di donne “Bianca”, “Delfina” e “Come la madonna”, i tre intermezzi, tutti nella forma del poema in prosa), di morte (“Falci d’agricoltore”), di rabbia ed insofferenza (“Immagini di ruggini e di ancore”), dei peccati del mondo e della speranza (“Il fango, il cielo, la terra”), di amore carnale per la donna (“Quello che fu e quello che è”), per poi concludersi nell’anamnesi della mia vita con l’ultimo componimento (l’epilogo), a sé stante, intitolato “Niente di certo altrove”, nel quale traccio le tappe fondamentali dei miei primi ventidue anni di vita, non senza una sottile vena di amarezza e sfiducia nel futuro».
Dunque quale ritieni sia il cuore pulsante, il nucleo fondamentale del tuo libro?
«Tutta la prima sezione degli “Scuri e chiaroscuri”, perché è da lì che poi si spiega tutto il resto, è da lì che prendono il via le immagini. È lì che ho messo maggiormente in mostra la mia idea di poesia, gli altri pezzi sono “variazioni sul tema”».
Che tipo di processo creativo è quello da cui nascono i tuoi versi? Arrivano di getto? Oppure sei uno che lavora e rilavora intorno a quel che scrive?
«Il processo creativo parte sempre dall’ispirazione, scrivendo di getto tutto quello che si ha in mente di proporre nella poesia. Dopo, però, il fiume dell’ispirazione lo si deve arginare a tavolino, plasmandolo a seconda dell’effetto che si vuole ricreare. Quando un Poeta dice che ha lavorato nel raptus dell’ispirazione, state pur certi che sta mentendo. Poi c’è pure chi dice di lavorare senza pensare alle regole del processo creativo, ma questo non vuol dire che non le usi, vuol solo dire che non sa di conoscerle».
Quand’è che capisci, o che senti, che una poesia è pronta per vivere di vita propria?
«Solitamente quando riesco a mettere il punto alla fine dell’ultimo verso. Ci sono alcuni dei miei pezzi che non hanno alcun segno di punteggiatura, salvo il punto alla fine del verso. Quello c’è sempre. Se non ci fosse quel punto la poesia potrebbe andare avanti, ma col punto si ferma lì. È finita. Ha detto tutto. Ha suonato come doveva, perché la poesia dev’essere ritmo e musica. Quando la mia poesia fissa l’attenzione del lettore sul proprio ritmo e non più sul significato, è allora che posso mettere il punto».
Tempo fa mi hai parlato dei formalisti russi, dello straniamento, dello spaesamento. Ripetiamo quelle cose a chi ci legge.
«Certamente. Il testo poetico, secondo quanto teorizzato dai formalisti russi, opera sul lettore un effetto di straniamento, che finisce per veicolare anche il linguaggio. Il poeta, per descriverci qualcosa che magari abbiamo sempre avuto davanti agli occhi, usa le parole in maniera differente da come le useremmo noi, e la nostra prima reazione si cristallizza in un senso di spaesamento, quasi non fossimo in grado di riconoscere l’oggetto rappresentato (questo è dovuto all’organizzazione ambigua del messaggio rispetto al codice), che ci induce a guardare quell’oggetto in modo diverso e, contemporaneamente, ci porta a rivolgere la nostra attenzione anche sui mezzi della rappresentazione e sul codice a cui si riferiscono. Ecco così che il testo poetico diventa autoriflessivo, poiché attira l’attenzione del lettore (consapevole o meno) anche sulla sua organizzazione interna. Ambiguità ed autoriflessività sono le caratteristiche principali della Poesia».
Mi hai parlato anche di Baudelaire, Rimbaud, Poe e Withman…
«Come dicevo, ogni autore scrive rifacendosi ad un modello. Io come Modelli ho preso Poe, Baudelaire, Rimbaud e Withman. Dal primo ho preso il meccanismo di lavorazione descritto in “Filosofia della composizione” e in “Il fondamento logico del verso”, nonché alcune immagini e suggestioni caratteristiche (soprattutto nella prima poesia, “Non dire una parola”); da Baudelaire ho preso in prestito il fascino per l’esotico e il perenne richiamo all’Eros; da Rimbaud l’ambizione di una conoscenza visionaria; mentre da Withman la lunghezza dei versi e l’esaltazione dei corpi».
Poi ci sono Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana…
«Certo. Non va dimenticata la nostra tradizione letteraria, dalla quale ho estrapolato questi quattro nomi. Quelli che sentivo più vicini al mio ideale di poetica. Siccome la Poesia dev’essere musica, ritmo, senza mai perdere di vista la tradizione, e poiché in molti pezzi ho inserito versi lunghissimi alla maniera di Withmann, sentivo il bisogno di regolamentarne il suono. Così ho seguito la strada indicata da Carducci con la sua metrica barbara, in maniera tale da avere versi lunghi ma musicali e prosodicamente corretti. In realtà, mi sono semplicemente limitato ad unire in uno stesso rigo enecasillabi, settenari, novenari e quinari senza guardare al modello latino, ma comunque l’idea l’ho presa da Carducci. Anche il sapore leggermente Kitsh dei miei pezzi lo devo a lui. Poi c’è Pascoli, l’incarnazione italiana dei simbolisti francesi, colui il quale ha fatto la propria fortuna proponendo sempre modi diversi di guardare le cose, con una musicalità ed un’originalità combinatoria senza eguali. Come potevo non attingere anche da lui? Di D’Annunzio ho cercato di ricreare la solennità. Campana, invece, è il poeta che racchiude in sé tutto quanto detto finora. Il mio poeta preferito, tra l’altro».
Da un punto di vista intimo, quanto ti è costato scrivere queste poesie?
«Non vedo la Poesia come un processo intimo. Non credo che nei suoi versi il Poeta lasci se stesso, né che la Poesia sia la sua anima. Sono più pragmatico, io. Quando finisco di scrivere una poesia non mi sento né sollevato né svuotato. Mi sento soddisfatto, come quando risolvo un rebus. Ecco, credo che la Poesia sia un rebus, un enigma. La fatica che si compie nell’affrontarla è puramente intellettuale. Non la vedo né come terapia né come psicopatologia. Ho un buon rapporto con la Poesia, io».
Chiaro. Ciò tuttavia non significa che non la si possa pensare diversamente. Magari uno arriva a trent’anni e s’accorge di pensare cose opposte a quelle che riteneva certe a ventidue. E a proposito di angrafe: sei del 1986. Quale ritieni sia il rapporto della tua generazione con la poesia?
«Puramente scolastico. E questa è la causa per cui molti miei coetanei fuggono dalla Poesia come dalla peste nera; l’hanno sempre associata ad un voto, ad un’interrogazione. C’è chi la guarda con scetticiasmo, chi storce il naso, chi scappa via. E c’è ne sempre uno che dice: «Che è ‘sta roba?». Le stesse reazioni che si avrebbero – e si hanno – davanti ad un UFO». |