| CAPAREZZA
di Gianluca Mercadante
Sale sul palco vestito da stregone, eppure il travestimento non sembra sufficiente a contenere l’entusiasmo di un pubblico che solo di recente, a seguito del successo di un motivo scanzonato e serioso come “Fuori dal Tunnel”, si è accorto di lui e riconosce quindi all’istante uno dei personaggi meno televisivamente appetibili, inversamente proporzionale a molti canoni musicali attualmente in voga. Tutto e il contrario di tutto sembrano essere stati gli ingredienti di un successo raggiunto con fatica, sebbene qualcuno lo riterrebbe invece immediato. Per fortuna è la sua musica a parlare chiaro: Caparezza non è un frutto di stagione, da consumarsi preferibilmente entro. Caparezza è un artista che si è fatto una gavetta non trascurabile – e nei suoi spettacoli si nota bene la destrezza che gli deriva dagli esordi, allo sbando nei centri sociali, uno sconosciuto alla mercè di un pubblico che non ammette ruffianerie per essere conquistato. Durante le prove del suono è invece più disteso, concentrato, però non per questo schivo. La sua cordialità è di compagnia, stringe mani allungando tutto il braccio, in un gesto fluido, e la stretta si fa comunque ferma, familiare quanto sentire il suo nome proprio abbreviato in un “Micky”. Si presenta così, Caparezza, lo stesso ai vertici delle classifiche con “Verità Supposte”, il suo secondo album, quello “sempre più difficile nella carriera di un artista”. Tuttavia non sembra deluso quando gli confesso che non è di musica che vorrei parlare con lui, ma dei libri che legge.
Con la lettura vivo da sempre un rapporto conflittuale perché mi sono avvicinato ai libri leggendo fantascienza.
Domanda:“Dici conflittuale perché all’epoca era ancora un cosiddetto genere <<da edicola>>?”
Risposta:“<<Da edicola>> non direi proprio, almeno nel mio caso. Leggevo Asimov, un autore fondamentale per il genere, ma anche Clark, certo Ron Hubbard, prima che si inventasse Scientology.”
Domanda: “E come mai questa propensione alla fantascienza?”
Risposta:“Mi riesce difficile trovare ora un motivo. Mi innamoravo delle copertine dei libri. Sinceramente, mi rendo conto che dicendolo così potrei essere malinteso - un libro non si dovrebbe mai giudicare dalla copertina -, eppure credo che questa, alla fine, abbia una sua importanza, tale da influire sulla scelta. Rimanevo affascinato da certe illustrazioni, mi incuriosivano. Ho amato particolarmente Asimov, anche per il suo essere un ottimo scrittore di fantascienza e un fisico allo stesso tempo, i suoi testi sono colmi di competenze in questo senso. Ho attraversato una lunga fase di lettura dedicata al genere, dopodiché, non so se per saturazione o cosa, mi sono totalmente disinnamorato della fantascienza e ho preferito il suo esatto opposto: ho iniziato a leggere biografie.”
Domanda: “Quali, in particolare?”
Risposta:“Quella che ho amato in assoluto è stata la biografia di Ghandi. Ho apprezzato il modo in cui l’autore ha saputo intrecciare all’aspetto biografico e umano una critica mossa al contesto storico di allora dell’India, ripresa nel momento più delicato, quello che vedeva crescere la formazione politica del Pakistan. Obliquamente alla storia di un uomo, quindi, il libro ripercorreva da una parte l’individualismo del singolo, dall’altra i conflitti interni a un’intera società in via di sviluppo. Non sempre leggo testi altrettanto impegnativi. O magari se mi interesso alle vite di personaggi talvolta ambigui, come Giovanna D’Arco, sarò io ad avere l’impressione di leggere qualcosa di più leggero. Mi piace anche certa saggistica, dipende dagli argomenti, o dai libri stessi, da come li incontro. Quando ad esempio ho letto “A Ciascuno il Suo”, di Sciascia, mi ha folgorato l’inizio. Cominciava con una frase che diceva, più o meno, “Poggiò la lettera sul tavolo”. Poche parole ed ero già dentro il libro, completamente. Dalla prima riga.”
Domanda: “L’attacco è fondamentale. Tanto nei libri, quanto nella musica, forse.”
Risposta:“Assolutamente sì. E ti dirò: considero l’attacco talmente importante, quando leggo, che sono riuscito a rifiutare perfino un libro di culto come “On The Road”, di Jack Kerouac. Mi rendo conto che per molta gente starò forse pronunciando un’eresia, ma per quanti amici me l’abbiano consigliato, per quanto ne abbia sentito dire bene, l’attacco di quel libro non mi ha convinto e l’ho lasciato lì, senza andare oltre la prima pagina.”
Domanda: “In una sua critica, Daniele Brolli ha raccontato di qualcuno che è arrivato addirittura a bruciarlo, “On The Road”, perché viveva verso il libro un tale blocco che a quel punto soltanto il fuoco avrebbe purificato la sua anima di lettore deluso…”
Risposta:“ (Ride) Lo capisco perfettamente. Avrei rischiato di fare la sua stessa fine…”
Domanda: “Eppure quello di Kerouac è senz’altro una pietra miliare, un libro cosiddetto “generazionale”. Ma è necessario leggerlo proprio per questo, secondo te? Se un libro è “generazionale”, allora bisogna leggerlo anche se non piace?”
Risposta:“ Prima di leggere o di non leggere un libro generazionale, bisognerebbe penetrare e sviscerare il concetto di “generazione”, concetto a cui mi sento totalmente estraneo. Non parlo mai di generazioni perché credo che i problemi di base siano sempre gli stessi, sebbene si viva in momenti storici e politici diversi, o addirittura opposti fra loro. Ma se da una parte le esigenze cambiano, i bisogni primari delle persone restano gli stessi sempre. Spero di non diventare mai uno di quelli che arriverà a dire “la mia generazione era meglio di quella attuale”.
Domanda: “Questo è un concetto interessante, se espresso da te che sei un musicista e ti muovi in un mercato che si orienta ad hoc da una generazione all’altra.”
Risposta:“Certo, ma questo è dettato dal consumismo. È il consumismo che determina una generazione. I vizi, il potere d’acquisto. Non le esigenze primarie. Ecco perché mi riesce difficile razionalizzare quanto si tende a definire “generazionale”. Non mi trovo a leggere un romanzo “generazionale”, non mi coinvolgono i film che raccontano storie di trentenni in crisi, non mi sento a mio agio se una generazione viene generalizzata. Trovo, anzi, che tutto quello che si bolla con l’aggettivo “generazionale”, dai libri ai film, fino alla musica, sia invece “generazionalizzante”.
Domanda: “A volte capita però che in un libro “generazionale” ci si riconosca, perché richiama il mondo in cui vive e si comporta il lettore. A te non è mai capitato?”
Risposta:“Mi capita raramente di riconoscermi in un libro. La lettura mi offre spunti per riflettere, o mi intrattiene piacevolmente, anche quando non arrivo a finire del tutto un libro. Con “Cent’anni di Solitudine”, altro libro di culto, è andata così. A un certo punto del romanzo, non riuscivo più a seguire la storia, ricordare le discendenze dei personaggi. Peccato, però, perché era bello.”
Domanda: “Pensi che tra narrativa e canzone ci siano rapporti?”
Risposta:“Credo che la canzone, per forma e struttura, sia una poesia evoluta. Il testo di una canzone è poetico in quanto legato a delle misure, a delle metriche precise, e parla del suo tempo esattamente come i poeti hanno parlato - e parlano - della propria contemporaneità. Non mi illudo di essere a mia volta un poeta, ma dalla poesia traggo per lo meno l’ambizione a scrivere canzoni che si distinguano dal pop, dove solitamente si descrivono sensazioni più universali. Preferisco scrivere e cantare canzoni che parlino del mio tempo, delle cose che vivo e che osservo ogni giorno. Del resto, musicalmente sono onnivoro e questo fa di me una persona che non segue una sola linea, ma tante, cercando di comunicare molto onestamente sé stesso. Il caso ha poi voluto che questa faccenda diventasse popolare, quando avrebbe potuto tranquillamente non esserlo affatto. Per tornare alla tua domanda, la scrittura dei testi in una canzone la vedo molto più conforme a un componimento poetico piuttosto che a una forma di narrazione, ma non posso escludere che in musica si possa realizzare anche un testo narrativo. Brani musicali identificati col nome di “spoken words”, di altro non sono fatti che da parole parlate o recitate su un tappeto musicale, slegate da metriche e ritmi cadenzati. Per antonomasia, la canzone privilegia invece testi in rima, piuttosto che storie da raccontare.”
Domanda: “Regola che qualche volta si può infrangere: i cantautori hanno in repertorio più di una sola canzone il cui testo racconta una storia, con determinati personaggi, ambientazioni, contesti storici – e non si tratta di “spoken words”. Nel tuo caso, la critica sostiene che Caparezza è un cantautore, più che un MC dell’hip-hop italiano. E allora perché non racconti storie anche tu, come farebbe un cantautore classico?”
Risposta:“Anche qui si parla con parole abusate. I cantastorie raccontano in musica, i cantautori non sempre. Restano liberissimi di farlo, certo, ma non è quella la loro unica forma espressiva, anzi. Più spesso descrivono sensazioni, osservano la realtà, la discutono. È il solito dilemma dei marchi. Tu fai una cosa e subito devi avere il tuo marchio di riconoscimento. Così diventa sbagliato definirmi un cantante pop, o hip-hop, come non è del tutto giusto che io sia considerato un cantautore, tanto meno un interprete, dal momento che canto cose mie. Alla fine penso comunque che sia l’opera in sé a rimanere, obiettivamente. I marchi sono un problema di chi osserva, non di chi fa.”
Domanda: “Rinneghi ogni tipo di etichetta, insomma.”
Risposta:“Lo faccio perfino al ristorante. Quando mi capita una bottiglia fra le mani, inizio subito a staccare l’etichetta umida con le unghie!...”
Domanda: “Quale libro hai sul comodino, ultimamente?”
Risposta:“L’ultimo che ho comprato è “Stupid White Man”, di Michael Moore. Ma non te ne saprei parlare più di tanto, sono appena alla prima pagina.”
Domanda: “Perché no, abbiamo giusto parlato di attacchi. Come ti è sembrato quello di Michael Moore?”
Risposta:“Il primo paragrafo è eccezionale. Appena torno a casa, lo continuo…”
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