| IL MONDO DI CARTOONIA
Dalla rubrica "IERI OGGI DOMANI.
Il mondo contemporaneo: legami con il passato e prospettive future."
Ormai sono approdati tutti anche in Italia. Preceduti da imponenti battages pubblicitari, degni di kolossal hollywoodiani, i nuovi eroi animati hanno fatto il loro ingresso (non particolarmente trionfale) sugli schermi del nostro paese.
Lanciati come "La serie che quanto a cinismo e cattiveria fa arrossire i Simpson", annunciati come "La nuova saga animata che ha polverizzato ogni precedente record in America" o pompati con altri minacciosi proclami, almeno per il momento non sembrano riusciti a scalzare gli irresistibili omini di Springfield dal loro giallo trono.
D’altronde gli yankees sono da sempre gli indiscussi numeri uno nella pubblicità, tanto abili nel crearla quanto pecoroni nel subirla; e spingere il nuovo – magari a discapito del vecchio, se ci scappa (tanto poi questo viene sistematicamente recuperato nella categoria degli oldies but goldies) – non si sa se per loro sia più un’arte o un’abitudine.
Fra le novità stagionali di rilievo – venute fuori in un modo o nell’altro sulla scia dei Simpson – si segnala Futurama, ideato dallo stesso autore Matt Groening. Misteriosamente sparito dalla programmazione dopo un promettente avvio, Futurama racconta le avventure di un fattorino ibernato ai giorni nostri e scongelato nell’anno 3000 in una spettacolare New New York (non è un errore di stampa: il primo "New" sta proprio a sottolineare che siamo nel futuro).
Incastrati nel palinsesto di Italia 1 giusto prima di Bart e compagnia ci sono poi i Rugrats, furbamente inseriti nel filone dello show familiare con la particolarità che la prospettiva generale parte dal punto di vista dei più piccoli.
L’ultimo arrivato, nonché il più discusso, è l’oramai famoso South Park: la scuola e i bambini costituiscono il filo conduttore e la scusa per un po’ di satira sociale (la famiglia del protagonista Kyle è ebrea e molto osservante, il cuoco è un negrone-macchietta). Il linguaggio è spinto e le immagini non proprio adatte a un pubblico da scuola elementare. Come spesso succede, però, si è esagerato nel demonizzare South Park: bastava mettere in chiaro che nonostante la sua natura di cartone animato non era un programma necessariamente per bambini. Che possa piacere o non piacere, poi, questo è un altro discorso; ma di sicuro la fama di ribelle ha finito per giovare alla serie, che si è imposta notevolmente anche a livello di merchandising. Per quanto riguarda la parentela con i Simpson, a dire il vero, c’è solo la cattiveria (vera o presunta) che li lega. I disegni sono di matrice volutamente alternative: un po’ rigidi e naif, in caso ricordano rivali storici dei Simpson come Beavis e Butthead.
Dalle novità di quest’anno emerge con evidenza sempre maggiore che i cartoni animati non sono un prodotto per bambini. O meglio, forse lo sono ANCHE…
I nuovi oggetti di culto venuti dal Giappone, i Pokémon, scatenano l’entusiasmo degli scolaretti 012 (partendo dal Game boy si sono espansi fino ai limiti dell’umana merceologia) facendo leva sulla mania di collezionismo dei fans. Ma sono forse da meno i post-adolescenti (e anche oltre) che vanno in giro con la maglietta di Homer Simpson e i boxer di Bart? E i teenagers in sollucchero per il linguaggio audace di Southpark o di Beavis e Butthead? E l’impressionante quantità di devoti telematici che ogni giorno innalzano altarini web ai propri pupilli televisivi? E quanti si sfidano a impossibili trivia quiz sulle vicende dei loro miti disegnati? E i liceali che passano i pomeriggi nelle fumetterie leggendo a sbafo avventure mai tradotte dei supereroi Marvel, o gli universitari che acquistano pupazzetti alieni dal prezzo proibitivo (e che poi si riversano vogliosi e nostalgici ai cartoon party del Trio Medusa o ai più politicizzati toretta style?)
Se un tempo i cartoni animati venivano creati esclusivamente per i bambini, noi non possiamo affermarlo con certezza. Tralasciando i "classici per tutte le età" firmati Walt Disney o gli ormai preistorici Felix The Cat e compagnia, anche gli studenti di architettura che a metà degli anni Settanta – in pieno fomento fantascientifico per i robot – affrescavano le pareti della sede romana di Valle Giulia con i disegni di Goldrake e della sua anima Actarus sembrerebbero indicare il contrario. I futuri architetti probabilmente costituivano solo l’espressione più visibile, la punta dell’iceberg di una nuova generazione post-adolescente che riscopriva la suggestione dei cartoni animati.
Ma restavano comunque una nettissima minoranza rispetto alla covata 1968-1978 (più o meno), cresciuta con decine di baby-sitter televisivi d’eccezione. Con ogni probabilità chi oggi ha un’età compresa fra i venti e i trentacinque anni ha seguito con trepidazione almeno una serie animata; oltretutto, ce n’era proprio per tutti i gusti. La sbornia per la fantascienza (mischiata a un ideale di pace sulla Terra, a sua volta derivante dai postumi atomici che il Giappone aveva vissuto sulla propria pelle) era riuscita a produrre infinite saghe con robot come protagonisti, nate sulla scia della sacra trimurti Goldrake/Mazinger/Jeeg Robot.
Con la metà degli anni Ottanta la febbre dei cartoons si è notevolmente affievolita, nonostante qualche capolavoro nipponico sfuggito però al grande pubblico nostrano. Ma sotto le ceneri doveva covare qualcosa, e questa volta l’America voleva strappare al Giappone lo scettro di regina produttrice.
Con l’avvento dei Simpson (ormai dieci anni fa!) l’età del cartoon consumer si è indubbiamente alzata: o meglio, se prima i "grandi" potevano apprezzare un cartone comunque per bambini, adesso la questione viene capovolta. Ragazzini anche piccoli possono affezionarsi alla tenera Maggie o divertirsi a seguire le vicende scolastiche di Bart e Lisa, ma la serie è esplicitamente diretta ad un pubblico adulto.
La famiglia Simpson è sbarcata in Italia nella stagione 1991/92, sull’onda del successo registrato l’estate precedente dai due videoclip animati Do The Bart-Man e Deep, Deep Trouble, autentici tormentoni sulla Videomusic dell’epoca. Già prima che cominciasse la serie, TUTTI parlavano dei Simpson: chiunque – critici televisivi o comuni spettatori – asseriva di averli visti in precedenza in America o di averne letto le storie a fumetti. "L’impietoso ritratto della famiglia media americana" aveva fatto centro. Il giorno del definitivo lancio in TV tutta Italia conosceva i buffi musi gialli dell’allegra famigliola di Springfield, U.S.A., che ammiccavano sornioni dalle magliette, dai cappellini, dalle felpe e dalle cartelle di migliaia di adolescenti.
Eppure quando il discorso cadeva sul pestifero ragazzino dai capelli a punta o su Homer e il suo avido capufficio in molti svicolavano con un sorrisino, senza raccogliere l’invitante argomento di conversazione. Osservazioni su Barney l’ubriacone o su Flanders (l’irreprensibile vicino di casa) provocavano addirittura sconcerto: nessun segno di vita nello sguardo dell’eventuale interlocutore!
Poche persone guardavano Bart e famiglia sullo schermo di casa, questa era la verità, complice anche una programmazione iniziale in seconda serata che poteva scoraggiare i più giovani. Gente che aveva speso centinaia di mila lire in merchandising e che andava in giro vestita da testimonial delle creature di Matt Groening non sapeva neanche che lavoro facesse il capo (si fa per dire) famiglia Homer. In compenso, pur riconoscendo alla serie e al suo creatore una brillante e feroce ironia nei confronti della middle-middle-class dell’America di provincia, la critica ha più volte etichettato i Simpson come cartone animato diseducativo: Bart in particolare come un ragazzino diabolico, suo padre come un pessimo esempio di vita e tutta la famiglia (e la città di Springfield) come un covo di immoralità, cinismo e pigrizia mentale.
Viene da pensare che pochi critici ne abbiano mai visto un episodio. Che la serie sia tagliente e mordace sì, a volte anche feroce; ma da qui a dire che i protagonisti siano cattivi, diseducativi? Qualcuno ha mai visto la puntata in cui Bart e Lisa si ritrovano l’uno contro l’altra in una partita di hockey? O quando insieme scagionano Krusty il clown? Oppure l’insolito team up composto da Bart e Nonno Simpson (protagonista di uno spettacolare sci d’acqua con le pantofole!) contro il perfido Mr. Burns? E Marge che rinuncia all’esclusivo club per amore della famiglia? E Homer che aiuta il figlio a costruire un go-kart, o che – per salvarlo da morte sicura – sfida con lo skateboard lo strapiombante canyon di Springfield? E se dopotutto anche l’efferata violenza di Grattachecca & Fichetto fosse in realtà una satira feroce, o addirittura una denuncia contro i veri programmi violenti che trasmette la tv?
Ad ogni modo, e alla faccia di chi gli vuole male (nonché di quanti credono ai giornali senza darsi la pena di verificare con i propri occhi), i Simpson adesso hanno davvero conquistato il mondo.
Proprio grazie al successo di Homer e soci in America il cartoon si è affacciato prepotentemente sulla fascia serale, sul cosiddetto (e ambitissimo) prime time in genere dedicato ai family show sul modello dei Robinson (d’altra parte, cosa manca ai Simpson per essere un family show in piena regola?).
Passata la sbornia per l’ultima novità (che può essere cattiva quanto si vuole), i ragazzi scelgono lucidamente e oggettivamente il cartone animato migliore. Il più divertente, il più intelligente, il meglio disegnato, il più acuto, il più spietato eppure – paradossalmente – il più tenero, educativo e morale. Il più completo, insomma. Che è ovviamente i Simpson.
Francesco Denti
(Orizzonti n. 13 - giugno 2000).
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