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Prefazione di Caterina Aletti
Scrivere richiede un atto di separazione: è uscire dal quotidiano, anche solo per brevi istanti, e guardare noi e il mondo davanti ai nostri occhi da una nuova prospettiva, lontana dal groviglio degli impegni quotidiani.
Chi scrive non può fare a meno di questa pausa dalla vita, per potersi soffermare a raccogliere pensieri. È come se, dopo pressanti stimoli, sollecitazioni, che da più parti raggiungono l’individuo nel suo essere in società, si avverta il bisogno di un’interruzione per ritrovare un dialogo con sé stessi.
Quello dell’isolamento per coltivare lo spirito è un bisogno lontano, che conoscevano bene anche i latini, che davano molta importanza non solo al negotium, ovvero alla vita pubblica, ma anche al cosiddetto otium, alla vita contemplativa, in cui dedicarsi agli studi letterari, in solitudine.
In un’epoca come la nostra, caratterizzata in misura sempre maggiore dal bisogno di rincorrere il tempo per tutte le questioni quotidiane, forse questa necessità di isolamento è sentita in modo più accentuato. Sarà forse per questo che, oggi più di ieri, le persone scrivono poesie? Può darsi.
L’atto poetico, infatti, può essere inteso come una risposta a contrastare il febbrile andamento dei giorni, come un momento per recuperare pensieri e parole, altrimenti perduti, che staccandosi dall’individuo trovano fissa dimora sulla carta.
Sicuramente, parafrasando il poeta Valentino Zeichen, «dove c’è poesia, c’è una piena aderenza all’esistere, e questo, il più delle volte, a prezzo di una grandissima solitudine».
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