| di Gianluca Mercadante
Saranno da poco trascorsi i primi minuti dopo l’una. Morgan, al termine di un suo concerto appena avvenuto, si stringe nell’abbraccio dei suoi fan, in all’erta presso l’uscita di sicurezza del teatro da cui probabilmente sanno che l’artista ospite uscirà. Nonostante l’esecuzione dell’intero suo ultimo album “Non all’amore, non al denaro, né al cielo”, presentato al pubblico in una scaletta che richiama fedelmente quella del cd, e un successivo secondo tempo che fa man bassa di canzoni nel repertorio solista, con qualche rapida incursione nella parte forse più intimistica e sofferta dei Bluvertigo, e un’ultima, toccante cover di Sergio Endrigo, il buon Marco Castoldi è ancora carico di energie e ha tempo per tutti.
Anche per chi poi decide di continuare ad attenderlo in camerino, per una chiacchierata privata, sigaretta accesa e qualcosa da bere. Il tempo, per quanto contato, da bravo si fa per un attimo da parte.
Domanda: "Orchestrare daccapo e per intero un album musicalmente molto complesso come “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” di Fabrizio De André dev’essere di per sé un’impresa ardua. Ma senza gli spartiti originali di Nicola Piovani, che sono irreperibili, come hai affrontato un simile lavoro?"
Risposta: "Questo disco di De André per me non si limita a essere un ricordo da adolescente, ma una vera e propria pratica, diluita nel tempo. Appena l’ho ascoltato allora, dalle prime volte, ho subito inziato a suonarlo con la chitarra, nell’accezione forse più “deandreiana”. Ora, nell’accingermi a farne un disco mio, ci sono ritornato sopra con uno spirito “piovanesco”, se mi passi il termine, cercando, nell’orchestrazione dell’opera, di mantenerne inalterata l’armonia originaria. Ho lavorato molto sulla forma, estendendo alcune sezioni… allungandolo in generale, e da tutti i punti di vista praticabili, un po’ come fosse diventato un elastico. Tirandolo. Per quanto, rispetto a un canone di paragone nella musica pop, ci troviamo di fronte al disco forse più formalmente articolato dal punto di vista musicale, se confrontiamo il tutto alla partitura di un’opera sinfonica ecco allora che un lavoro di ricostruzione degli spartiti originali di Piovani può perfino apparire come semplice da eseguire. Se parliamo di musica in senso tecnico, ciò che riscrivi e riarrangi nella dimensione del pop, è infinitamente meno complicato al confronto di un lavoro analogo effettuato però nell’ambito della musica classica."
Domanda: "Franco Battiato ti aveva forse suggerito qualche soluzione diversa, da quelle che hai poi utilizzato."
Risposta: "Sì, Battiato l’avrebbe cominciato cantando immediatamente, senza overture. Ma me l’ha detto a disco ormai finito e impacchettato. In ogni caso, non credo avrei raccolto il suo consiglio, se mi fosse giunto in un momento precedente della lavorazione, perché a me piace molto usare suite introduttive musicali. Anzi, anche in questo caso l’ho allungata rispetto all’originale, che partiva col tema del primo brano, “La collina”.
Io invece ho “clonato” la coda che Piovani aveva pensato di mettere alla fine dell’album e l’ho spostata sull’inizio."
Domanda: "Se perciò un confronto c’è, in questo disco, non sembra nascere fra due cantautori, come verrebbe spontaneo presumere, ma fra due musicisti: Morgan e Piovani."
Risposta: "Tutta la macchina sonora che ruota attorno a un qualsiasi disco di Fabrizio De André esiste perché mossa e suggerita da lui stesso. Sceglieva sempre collaboratori direttamente funzionali all’idea che aveva in testa per questa o per quella canzone, agendo forse per una sua insicurezza di base. Si lasciava completare, pur rimanendo lui il “deus ex machina” dei suoi lavori. Per l’adattamento poetico in italiano dai testi in inglese di Edgar Lee Masters si fece aiutare all’epoca, se non sbaglio, da Bentivoglio. Perciò, ripeto: qualsiasi elemento sia andato a finire là, nei suoi dischi, è stato voluto, determinato, scelto da De André. Certo, l’aspetto dell’arrangiamento assume un’importanza tutta sua quando dico che la mia reinterpretazione di “Non al denaro, non all’amore, né al cielo” è sì una reinterpretazione vocale, ma è soprattutto una ricostruzione degli arrangiamenti, un’interpretazione in chiave attuale di come l’album sia stato inciso all’epoca, del senso finale che aveva e continua ad avere in qualità di opera musicale. Un disco in vinile del 1971, inciso praticamente in presa diretta, con l’orchestra che dialoga nello studio d’incisione insieme al gruppo ufficiale."
Domanda: "Anche nel tuo caso hai scelto di operare così, sebbene le voci e certi effetti siano poi stati registrati in un secondo momento."
Risposta: "Il modo in cui abbiamo lavorato per incidere questo album è addirittura collocabile all’inizio del decennio precedente. Immagina una situazione simile nel 1963, con un registratore mono a disposizione e la band costretta per forza di cose a suonare in diretta tutto. Non dico per dire: il sistema a quattro piste sarebbe nato sul finire degli anni Sessanta, il trentadue piste analogico agli inizi degli anni Settanta, per poi arrivare ai primi Mitsubishi digitali negli anni Ottanta. Ma stiamo divagando. Quello che volevo dire è che il mio modo di lavorare, già maturato nell’esperienza del precedente album “Canzoni dall’appartamento” si ispira tendenzialmente agli anni Sessanta, mentre il disco di De André è nato dopo, in un periodo che consentiva la possibilità di effettuare sovraincisioni, per esempio, cosa che faccio per altro pochissimo comunque. Sono andato ancora più indietro nel tempo, in questo senso, e l’oggi ha finito con l’emergere poi solo al momento di processare l’intero lavoro digitalmente."
Domanda: "È questa la dimensione dell’oggi che intendi esprimere quando affermi che <<hai aggiunto a De André quello che De André non aveva>>?"
Risposta: "Siamo in un’altra epoca. Non ho mai detto di aver aggiunto a De André quello che lui non aveva, ho detto piuttosto che De André ha aggiunto qualcosa di veramente suo alle poesie originali. Nell’Antologia di Spoon River erano più corte, più sospese – e laddove queste sospensioni si percepivano meglio, De André è andato avanti, le ha oltrepassate. Io non ho lavorato sul testo, ma ho lavorato nella musica in maniera analoga al suo modo di interpretare quei testi."
Domanda: "Durante l’ultimo Festivaletteratura di Mantova, hai dedicato l’intero tuo incontro pubblico al teatro Bibiena a un altro cantautore: Sergio Endrigo. Sembra ci sia nel tuo accostarti ai cantautori un rispetto che va al di là della loro stessa memoria. Una specie di debito."
Risposta: "Assolutamente sì. Un debito verso l’eleganza di Endrigo nel comporre canzoni, qualcosa di raro. Era un cantautore completo, ha inventato uno stile e questo stile è diventato poi interessante non solo dal punto di vista strettamente vocale, che apprezzo tantissimo perché ho sempre amato molto il modo che Endrigo aveva di cantare. Ma il particolare cinismo delle sue canzoni lo trovo sconvolgente – e questo aspetto della sua arte forse non è mai stato abbastanza compreso, secondo me."
Domanda: "Rispetto a De André, quindi, che hai affrontato da un punto di vista più musicale, di Endrigo ti affascina invece la poetica…"
Risposta: "Anche di De André mi interessa la poetica. E comunque Endrigo ha scritto a sua volta musiche decisamente complesse, sempre mantenendo ben presente il contesto pop di cui parliamo. I cantautori, per loro natura intrinseca, fondono diversi linguaggi in una cosa unica, perfino narrativa, se ci pensi bene: il testo della canzone è un racconto, la musica è una ballata, insieme diventano un tutt’uno difficile poi da scindere, sebbene esistano testi meravigliosi e musiche ascoltabilissime anche se private delle parole e della voce di un cantante. Per quanto la ricchezza di una canzone rimane nell’armonia della musica fusa alla profondità dei testi – ed Endrigo sapeva scrivere canzoni estremamente compiute, in questo senso, molto moderne. Se penso a determinati passaggi armonici che ho trovato nel ritornello di “Canzone per te”, mi viene in mente che cose simili le avrebbero probabilmente composte addirittura i Pink Floyd. Avrei desiderato incontrare Endrigo, purtroppo non è stato possibile. Pare che fino all’ultimo sia rimasto lucido, profondo. Lo descrivono tutti come un uomo estremamente serio. Viene quasi da dire “uomini d’altri tempi”, pensando a lui, no? Ma poi ti accorgi che certe persone passano per rare semplicemente perché di rado si ha la fortuna di incontrarne qualcuna."
Articolo apparso sulla rivista Orizzonti numero 29
il sommario illustrato si può leggere al link
http://www.rivistaorizzonti.net/arretrati/29.htm
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