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Giuseppe Cappello, Le danze dell’anima (Aletti Editore)
Recensione di Gabriele Di Giammarino, «Polimnia», IV (2008), 13, pp. 96-97
E' un esile libro Le danze dell'anima, raccolta di trenta brevi liriche del giovane poeta Giuseppe Cappello, ma esile non è l'ispirazione che ne anima la confessione, la testimonianza, il ritmo ora piano ora travolgente, l'onda dei sentimenti trasfigurati nella perspicuità delle impressioni e delle immagini. La sua è una poesia per molti versi metafisica, libera però da compiacenze intellettualistiche ed erudite; pertanto il logos poetico non s'inaridisce in una scepsi filosofica o in formule astratte, ma si articola in metafore incastonate nella fluente materia del verso teso a inseguire la sfinge dell'esistere e la primordiale fonte del conoscere. Quando poi dall'una e dall'altra si diradano le dense nubi di un pensiero inquieto, la parola diventa immagine e l'evento effimero un paradigma esistenziale.
Egli si chiede se una presenza divina gli presterà la parola definitiva, la parola del disvelamento, nel ricordo che l’Evangelista identificava con essa il principio, l’”alpha” dell’Essere. Ma, qui e ora, scopre del Dio esclusivamente “il gioco del mondo” che si estrinseca nell’”alta femminilità, nel sospiro per il “talamo itacense” che dà al nostos di Ulisse il significato della navigazione dell’uomo rivolta a toccare una meta destinata a vivere solo come aspirazione, come sogno. Forse del destino umano è metafora l’immagine di un uccellino caduto da un albero, con le ali appesantite dall’acqua di una pozzanghera fangosa, ma con gli occhi rivolti alle stelle. Noi non possiamo attingere un frammento del destino, tantomeno il momento della conoscenza assoluta, se non che essa è il momento della morte. Anche l’amore assoluto, quello delle “stellate notti veronesi”, gronda sangue “dal balcone degli amanti” e fa appassire fatalmente “il Fiore della Primavera”. Dalla biblica ambivalenza del verbo conoscere può derivare l’idea che Conoscenza è Amore, come altresì avviene nel pensiero neoplatonico e plotiniano, ma in ogni modo il termine estremo, l’oraziana ultima linea rerum, è il Thanathos athanatos. Non si può leggere senza provare un sussulto la terribile domanda:”Le carni cotte per il funerale possono fornire, calde, le tavole nuziali?”. Ancora una volta l’antico signore di Itaca, l’uomo polytropos, allegorizza il viaggio di tutti gli uomini, ma, diversamente da quello dell’antico eroe, allegorizza anche la delusione per la meta raggiunta, la “tristezza e noia” che nella canzone del Leopardi fanno seguito al festevole sabato del villaggio:
“Credevi che Itaca fosse quale l’avevi lasciata,
quale negli anni l’avevi costruita” (I diamanti di Itaca)
E manca ancora la rassegnata parola che l’Ulisse del Pascoli rivolge alla sua isola e al suo passato:
Io era, io era mutato!
Tu, patria, sei come a quei giorni!
Io sì, mio soave passato,
ritorno; ma tu non ritorni …
Questo perché il viaggio non è solo un nostos, ritorno, in quanto può essere anche ispirato a una tensione verso l’ignoto, come quello di Colombo e dei suoi marinai, desiderosi di lasciarsi alle spalle i “mostri sottomarini le cui anime sono i ricordi di ieri”. La condizione odeporica dell’uomo può annullare i due poli del nulla - la nascita e la morte - con l’immanente e insieme trascendente triade divina della Bellezza, dell’Intelligenza, della Carità. Se “l’aratro fende la terra”, nasceranno nella primavera messi e fiori e non si aprirà il gorgo misterioso destinato a inghiottire ogni cosa. Un’alternanza di luce e d’ombra si proietterà sul mistero di un amore vissuto come danza dell’intimità:
“Un biondo mistero trasuda dai castani chiaroscuri del suo velo”.
Alla triade cristiana di Bellezza, Intelligenza, Carità risponde in Fanciullo dell’Acropoli la triade pagana di Sensibilità, Intelligenza, Amore, dove l’unica ipostasi comune è quella mediana. Ma a che giova l’Intelligenza l’antinomia che fa grondare di sangue la storia umana.”Capire, giudicare / capire o giudicare?” Sangue che ben difficilmente potrà essere lavato con una pallida speranza palingenetica:
“Nella notte la luce della luna,
straziante eredità di un crepuscolo sofferto,
speranza vitale di una nuova aurora” (Su mille volti in inverno)
Chi mai potrà operare il miracolo? Se nell’Ottocento la prometeica voce di Goethe, nei versi finali del Faust poteva indicare nell’”eterno femminino” una forma di celeste redenzione dell’uomo, un poeta dei nostri giorni come Giuseppe Cappello, toccato dalla bufera dell’irrazionale e sconvolgente vita attuale, recita a voce bassa nella conclusione della sua intensa silloge:
“Donna
Nel dialogo con la tua anima
viene di scuro in chiaro il senso della mia esistenza”. (Donna)
Si chiude così un intenso itinerario poetico, che auguriamo possa segnare un brillante inizio, ma già in esso si coglie una pienezza d’ispirazione che, a un tempo, fa presagire nuove significative mete.
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