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Info sull'Opera
Autrice:
Rivista Orizzonti
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Intervista a GIOVANNI D’ALESSANDRO

di Rivista Orizzonti


Si chiamava proprio “puttana del tedesco” la donna che si concedeva a un soldato della Wehrmacht, l’esercito di occupazione sopraggiunto in Italia nel periodo seguente alla caduta del regime fascista. Vedova, o col marito ancora al fronte, poco importava: il marchio era quello e quello sarebbe rimasto per sempre. Giovanni D’Alessandro racconta questa Italia nel suo romanzo “La puttana del tedesco” (Rizzoli, pp. 288, € 17,50) e nell’aprire uno sguardo ampio e complesso, umano e sociale, su una pagina di Storia insanguinata, riporta alle nuove generazioni di lettori un quadro che insolitamente ritrae l’Abruzzo, terra di origine dello stesso autore: una conca dell’Italia, posizionata geograficamente in maniera anomala rispetto ai fronti d’attacco presso i quali le milizie americane facevano intanto pressione per cacciare il nemico anche da quest’ultimo presidio che era divenuto il Belpaese. Una conca, dicevamo, dove Ada, nel bel mezzo della guerra che ogni giorno sembra finire quando invece ogni giorno riprende daccapo, vive un amore proibito, un amore che una donna rimasta vedova molto giovane e madre di due figli non è affatto un bene viva. Meglio annullarsi, meglio rendersi invalidi in maniera invisibile, perché a mancare non è un arto o un organo, ma la felicità: quel particolare stato di umanissima grazia che, spesso, appare agli occhi degli altri esseri umani come una colpa. D’altronde la gioia, in tempo di guerra, è forse rara quanto il cibo. Ma non impossibile.
“Giudicate voi”, sembra in ogni caso che D’Alessandro voglia dire, con questo suo romanzo, come Primo Levi nel suo “Se questo è un uomo”. Giudicate voi, dunque, se questa è una donna. Tanto oggi quanto allora.

“La puttana del tedesco” si ambienta nel 1943, in un Abruzzo devastato dagli effetti della guerra, ma sempre saturo della popolaresca tendenza a considerare soltanto l’aspetto superficiale di una vicenda come quella di Ada – e assai male. Cos’è cambiato, oggi, rispetto a ieri, in questa particolare zona del Sud Italia? È ancora una colpa, come lei scrive, sentirsi “capaci di felicità”?

D’ALESSANDRO: Nella guerra, a ogni latitudine, emerge sempre l’aspetto più negativo, distruttivo e malvagio dell’animo umano. Non si perdona a Ada di saper gestire la sua condi-zione di donna sola in lotta, che ritrova anche l’amore – il vero profondo amore - in un tedesco con addosso l’uniforme dell’odiato invasore e del nemico, perché dietro le apparenze dell’alieno, del diverso, lei ha riconosciuto il compagno della sua vita. Anche di questo è geloso il mondo; del suo aver saputo, con libertà e spregiudicatezza, afferrare l’amore, attrarlo nella propria sfera e dargli vita. L’invidia, dice un proverbio, è nata con l’uomo. Molto è cambiato da allora, ma queste movenze negative dell’animo appartengono, ovunque, alla storia dell’uomo, non sono un retaggio dell’Abruzzo, che qui è solo il set, universale, di una terra in guerra.

Che importanza assume oggi riscoprire una pagina della Storia ufficiale at-traverso una vicenda umana come quella che racconta nel suo romanzo?

D’ALESSANDRO: Nell’ipotesi narrativa contenuta nel mio romanzo assume un’importanza basilare. Significa riscoprire l’unica Storia: quella che accomuna tutti gli esseri umani, su opposti fronti, nella sempre attuale tragedia della guerra. Vinti e vincitori, vittime e carnefici, famosi e ignoti, tutti fagocitati dallo spirito del male quando questo, in forme eternamente mutevoli, si leva sulla terra. È anche, peraltro, un tributo alla memoria delle sofferenze ignorate dei senza nome, nella guerra. La protagonista del mio romanzo, Ada, una giovane vedova con due figli e nessun sostegno, combatte dal ’39 al ’46 una guerra ignorata, umile, oscura, al punto da non aver nemmeno la dignità di un’emersione, di una dichiarazione, di un riconoscimento. Vincerà, perché è forte e perchè non sa neppure di star combattendo. E ritroverà l’amore, come è giusto che sia, perché su thanatos, l’istinto di morte, a trionfare è sempre eros, l’istinto di vita e di amore: omnia vincit amor, come duemila anni fa scriveva Ovidio, il poeta della stessa città d’Abruzzo, Sulmona, in cui vive Ada.

Ma in letteratura, e in altri ambiti, è più facile descrivere il dolore, soprattutto se fine a se stesso. Lei descrive la gioia. Una gioia semplice, incoerente per i tempi in cui viene vissuta, eppure umana e in quanto tale legittima. Se ambientasse ai giorni nostri una vicenda come questa, sarebbe ancora così? O questa tensione alla gioia nella nostra società ha bisogno di altri espedienti per realizzarsi, che non siano l’amore?

D’ALESSANDRO: Questa società è meno capace di ieri di gioire. È più (auto)condizionata verso la negatività, né potrebbe essere diversamente, considerato l’humus malsano in cui affonda la sue radici, avvelenandosi di ciò che ne trae. La ringrazio per avermi detto che “ho descritto la gioia”: davvero ci sono riuscito? Ne sono lusingato. Era un compito difficilissimo, lo è sempre per uno scrittore. E gli sarebbe impossibile, forse, farlo nella contemporaneità. Basta prendere in mano alcuni libri, sfogliarli: grondano negatività e (mal descritto) dolore. Questo dipende anche dal fatto che spesso chi scrive non conosce il vero dolore, perché appartiene a una sfera privilegiata, per più versi, non ultimo dei quali l’accesso appunto all’espressione. Questa, una volta conseguita, risulta inversamente proporzionale alla profondità di ciò che si dovrebbe sentire. Quando lo scrittore “può” comunicare, comincia a non sentire più niente; subisce un’anestetizzazione della sua interiorità a vantaggio della esternazione. Così non di rado corteggia il dolore come tema letterario, ne capta alcune note, ma non sa organizzarle in un’elegia narrativa, in un abbozzo di pur dolente melodia. Ecco perché il dolore di cui molti scrittori parlano suona fal-so, o querulo, miserando, autoreferenziale, non riconoscibile e non condivisibile dagli altri. Volendo allargare il concetto e usare un paradosso, per rispondere ulteriormente a questa sua bella sollecitazione, direi: il libro più vero, sul dolore o sulla gioia, è quello che non si pubblica e che si coltiva in segreto, con amore: secondo solo a quello che non si scrive neppure.

Dopo l’uscita di questo romanzo, ha incontrato persone che hanno vissuto situazioni simili, in tempo di guerra?

D’ALESSANDRO: Moltissimi. Che mi hanno cercato e mi cercano. E mi ha commosso la loro commozione; è la legittimazione più bella che potevo sperare per questo mio lavoro.

In molti punti del libro i nomi di alcuni personaggi uccisi dalle SS, o semplicemente di passaggio, sono censurati. Si tratta perciò di testimonianze reali.

D’ALESSANDRO: Sì. I nomi sono indicati da un’iniziale puntata. È una forma di rispetto per loro. Ogni particolare, ogni episodio del romanzo è infatti attentamente basato su fonti controllate.

In questo senso, dunque, la curia che in un primo tempo accoglie Ada a lavorare perché vedova e madre di due figli, e in un secondo momento la allontana ritenendola, con termini più civili di questi, una “puttana”, è ancora soltanto cronaca oppure è lecito leggere in queste righe una sua precisa critica verso la Chiesa?

D’ALESSANDRO: Non c’è critica verso la Chiesa, prova ne sia che il grande alleato di Ada è un prete, che aiuta prigionieri inglesi e tedeschi, e non ostacola, ma protegge, in fondo, il suo scandaloso amore, pur temendo per lei: sono storie avvenute realmente in Abruzzo e altrove, con sacerdoti eroici. Il fariseismo, l’invidia, sono i veri nemici: ma quelli albergano in ogni ambito, non solo nella Chiesa.

Quanto ricordo ancora persiste nelle popolazioni abruzzesi a proposito degli scempi compiuti dall’esercito tedesco?

D’ALESSANDRO: Il ricordo è vivo. Eccidi di civili inermi, di vastissima portata, che vedono l’Abruzzo dietro solo a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, furono perpetrati contro donne, vecchi e bambini, come a Pietransieri (e in quanti altri luoghi!). Essi rappresentano una ferita sempre aperta: c’è chi vive, oggi, per essere da bambino riemerso, dopo un giorno, da sotto ai cadaveri dei suoi familiari trucidati dai tedeschi, o morti nei bombardamenti angloamericani, che gli avevano fatto scudo. Ma nei giovani, e già nella generazione intermedia dei figli, fatalmente la memoria va attenuandosi, dopo sessant’anni.

Siamo gli “ultimi dei Mohicani”: dopo di noi, nessun altro potrà raccogliere dalla viva voce dei protagonisti storie di questo passato.

D’ALESSANDRO: Certo. E se non si coltiva la memoria del dolore non proprio, se ci si chiude in sé, come se quel passato non ci appartenesse, in quanto parte di una più grande Storia comune, tutto verrà cancellato.

E allora, secondo lei, cos’altro ci sarà da salvare negli eventi successivi alla Seconda Guerra Mondiale (che, dal punto di vista letterario, sembra ancora un serbatoio parecchio sfruttato)?

D’ALESSANDRO: La coscienza delle guerre dimenticate, non dichiarate, ma non per questo meno cruente, che sono state e sono di continuo combattute in tante parti del mondo. Chi è consapevole del fatto che la guerra tra Iran e Iraq ha causato, anni fa, un milione di morti?




Note biografiche:
Giovanni D’Alessandro è nato a Ravenna nel 1955. laureato in legge, vive e lavora a Pe-scara. Il suo esordio nella narrativa è del 1996, con il romanzo “Se un Dio pietoso” (Don-zelli), finalista al Viareggio ’97, vincitore dei premi Penne-Mosca e Maria Cristina ’98. Nel 2004 ha pubblicato “I fuochi dei kelt” (Mondadori), Premio Scanno 2005. è autore di saggi e racconti e collabora con il quotidiano abruzzese “Il Centro”.


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