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C’ho messo tanto per scrivere il mio primo libro per tre motivi. Uno, perché ci sono troppi giornalisti che scrivono libri di cui non si sentiva un’estrema urgenza. Due, perché non ritenevo di avere una storia interessante da scrivere. E poi il terzo motivo, come ho espresso in una specie di autointervista uscita su Repubblica, è che mi fanno lavorare come una “carogna”. Per cui facendo il conto – il campionato di calcio dura 38 giornate, il tour 4 – io arrivo sulle 42 settimane di lavoro, che diventano 46 se poi c’è anche un mondiale. E per questo, quando hai tempo libero, non ti viene in mente di metterti a scrivere. Magari di andare a funghi! Che è un’altra mia passione…(ride, ndr)
Perché mi son deciso?
Perché ho subito un assedio da parte di Carlo Feltrinelli, iniziato un capodanno di 19 anni fa, a casa di Michele Serra. Io ero molto lusingato dal fatto che un editore importante vedendomi per la prima volta – era arrivato dopo la mezzanotte in compagnia di un cane dall’aria un po’ triste: un bassotto a pelo ruvido se ben ricordo – mi dicesse: “Ah sei Mura…Fammi un libro!” Ho cercato di superare lo choc e da lì ho fiancheggiato l’idea del romanzo fino a che ho trovato un’idea.
L’idea mi è venuta vedendo che c’era sempre più polizia alle corse di ciclismo, ma c’era per cercare le siringhe, le fiale, il doping e mi sembrava banale ambientare una storia gialla al Tour sulla base del doping. E allora ho pensato: ci potrebbe essere un superpoliziotto per una serie di morti ammazzati, e allora ho cominciato a ragionare su questo.
Quando, casualmente e senza bassotto, ho rivisto Carlo Feltrinelli nell’aprile scorso alla presentazione del doppio cd di Enzo Iannacci, lui mi ha chiesto: Hai un’idea? Gli ho detto: sì c’ho una mezza idea. E lui mi ha risposto: allora passa lunedì in casa editrice che firmiamo il contratto. A quel punto ero “fottuto”. E ho cominciato a limare la storia…
Perché il Tour de France?
Perché ho cominciato a seguirlo nel ’67...
Sin dalla prima volta, per me il Tour è stato anche trasmettere emozioni. Il Tour è una specie di vacanza pagata, che mi permette di scrivere anche di Cadou (René Guy Cadou,1920-1951, poeta francese, ndr) o del cassoulet o delle marche di vino che bevo quando sono sotto i Pirenei. E ho notato, siccome c’è un rapporto abbastanza franco e fitto con i lettori, che a loro interessano queste storie.
Io credo che non possiamo solo dare dei numeri e dei commenti. E di questo sono debitore al vecchio giornalismo sportivo, quando, oltre ai giornalisti esperti (i coloristi di una volta, che conoscevano tutti gli aspetti tecnici), c’erano - io non mi paragono a loro - le cosiddette penne nuove dell’Italia del Primo Dopoguerra, quelle destinate all’alfabetizzazione delle masse, perché il quotidiano sportivo spesso era l’unico giornale ad essere letto. “L’Unità” mandava Alfonso Gatto a seguire il Tour, “Il Corriere” Orio Vergani; Il Giornale di Firenze Vasco Pratolini; un po’ più in là, Anna Maria Ortese ha seguito il Giro d’Italia di Nencini per conto dell’ “Europeo”. E poi c’erano Giovanni Mosca, Roghi …Costoro descrivevano minuziosamente i paesaggi, e anch’io avevo cominciato - poi ho smesso - a raccontare timidamente qualche paesaggio…Successivamente, siamo stati tutti fregati dalla televisione.
Una volta scelto il Tour, per via di una serie di cose – essendo orfano di Maigret come lettore, ma essendo anche orfano di un padre che era chiamato il “Maigret della Brianza” (ride, ndr) – ho deciso di dare vita non a un personaggio che fosse una caricatura di quello di Simenon, ma che lo ricordasse come anagramma e che poi fosse molto diverso: Magrite.
Infatti, Magrite, non fuma la pipa; essendo io molto poco politically correct, fuma ottanta sigarette al giorno, Gaulois blu, di cui la metà le scrocca a me. È scapolo, non ama la donna che gli prepara le pietanze la domenica. È attivo, nel senso che è esperto di arti marziali, ed è capace di colpire una monetina sparando da una distanza di trenta metri, e ne da anche dimostrazione nel libro.
I rimandi culturali mi uscivano dalle orecchie e, dovendo anche decidere dove far nascere Jules René Magrite, (“Jules” come Maigret e “René” come il pittore surrealista Magritte, ndr) ho scelto la località di Malaussène, così c’era anche una strizzatina d’occhio a Pennac. Poi Malaussène esiste davvero ed è un paese della Vaucluse da cui parte la salita per il Mont Ventoux (una delle tappe del Tour de France, ndr). E quindi la scelta di Malaussène era azzeccata, proprio come “il cacio coi maccheroni”.
Per me la fatica maggiore è stata il dover cambiare i 110 nomi veri dei ciclisti con degli pseudonimi – anche se poi alcuni sono riconoscibili. L’ho fatto su richiesta della casa editrice e credo che questa scelta sia stata operata forse per non dare troppa importanza alla corsa e rendere più visibile la storia, la narrazione.
È un libro con due storie che si incrociano. Una, la normalità, è quella di tutti i Tour (i bar, i caffé, le sigarette, le attese, il caldo, le telefonate a casa) e l’altra è quella dei morti, degli omicidi.
La scansione narrativa è dettata dal Tour: ogni tappa rappresenta un capitolo. La storia comincia alla vigilia e termina a Parigi; e la soluzione dell’enigma, avviene - non a caso - al cimitero del Père Lachaise, tra la tomba di Paul Louard e quella di Jean-Baptiste Clemént, che è stato uno dei cantori della Comune.
Per il resto io mi sono molto divertito a scriverlo, a tal punto che poi mi è anche seccato finirlo – però dovevo pur consegnarlo! E mi è rimasto qualcosa in sospeso – come quando metti via un paio di etti di provolone che vorresti mangiare – e non so, può darsi che continui. Sempre con Magrite.
(Testimonianza raccolta da Teresa Filomeno, ORIZZONTI N. 32)
Al seguente link è possibile trovare la distribuzione nazionale della rivista Orizzonti
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