| MICHAEL CUNNINGHAM:
«Mi ritrovo a star seduto a lungo davanti al computer, fino a quando qualcosa non cominci a spuntare. Attraverso spesso dei momenti di frustrazione e di disperazione, ma non perdo mai la fede in quel processo fondamentale della scrittura, né l’amore per ciò che i grandi e bei libri devono rappresentare.
Ho scritto solamente quattro romanzi, che non sono molti considerando che ci ho impiegato quasi vent’anni. Lavoro molto, ma molto lentamente, ed è l’unico metodo di lavoro che io conosca. Inizio sempre con null’altro che una vaga idea di quello che sto per fare, e lascio che sia il romanzo stesso a suggerire la sua forma ed il contenuto. Ciò implica un bel po’ di scrittura e riscrittura: richiede che molte pagine vengano scartate , a causa di una scelta sbagliata, o di una direzione errata presa dai personaggi. Posso solo sperare di vivere abbastanza a lungo per scriverne molti di più di quanto voglia, ma non sarò mai veloce né prolifico».
ANDREA CAMILLERI:
«Il mio metodo di scrivere i romanzi, non i gialli per cui occorre una certa sequenza temporale e logica, è un po’ anarchico. Se dalla lettura di due pagine di un autore nasce quella spinta a costruirci un romanzo, io parto col raccontare un episodio, che una volta finito il romanzo non so che collocazione avrà.
Mentre scrivevo “Il birraio di Preston” mi sono accorto che c’era qualcosa che non funzionava ed era il fatto che, avendolo costruito secondo un ordine cronologico, era noiosissimo. E in quell’occasione mi posi la domanda se ero capace di scrivere un romanzo dalla A alla Z. Così è nata l’idea di ingabbiarmi all’interno della struttura, ancora più rigida per il romanzo giallo, e il risultato è stato “La forma dell’acqua”».
MICHELE SERRA:
«La fatica maggiore, quando scrivo, sta nel cercare di sfruttare più che posso il potere straordinario delle parole. L’italiano è una lingua bellissima, è carica di sfumature, ambiguità. Sono un amante della glottologia, perché con essa si scoprono cose bellissime (per esempio rito e arte hanno la stessa radice). Le parole mi piacciono enormemente, forse da giovane mi sono fatto incantare da questo. Dove si mettono otto aggettivi forse ne bastano tre, crescendo penso che scriverò in forma più asciutta senza rinunciare però ogni tanto a far suonare le parole.
Questa è una cosa che mi ha sempre mortificato: i critici letterari d’Italia si occupano pochissimo dei testi. Io penso invece che un libro è un prodotto essenzialissimo, dentro c’è solamente una cosa: scrittura. E quindi nel mio libro troverete principalmente questo».
LUIS SEPULVEDA:
«Io mi dedico simultaneamente a più storie ed ho un rapporto molto intenso con la scrittura. Però scrivo soltanto di mattina, quando la mente è riposata e produce le idee più floride. Mi impongo, seguendo i consigli di Hemingway, di non bere mai mentre lavoro e di staccare solo se ho ben chiaro come far proseguire la trama. Una volta che ho terminato la storia, la abbandono per alcuni mesi, per poi ritornarci su con un lavoro minuzioso di ristesura: rileggendo e ricorreggendo fino a che non prende la forma estetica che cerco. Questa è sicuramente la fase più difficile della scrittura.
[…] Siccome viaggio molto, mi capita di scrivere ovunque. Anche in aeroporto. E nelle biblioteche con le prese per il computer. A proposito, dimenticavo che per me il computer è fondamentale: ti permette di aprire e chiudere la storia che vuoi».
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DA ORIZZONTI N.32
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