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Opere pubblicate: 19994
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ALL'AMICA MORTA
......et ultra PARTE PRIMA I. Lunga distesa, immobile sotto la bianca coltre del letto, con le braccia prosciolte e le mani aperte, con la bruna testa inclinata sopra una spalla, con un soffio impercettibile di respiro, Anna pareva dormisse da due ore, immersa nel profondo abbandono del sonno giovanile. Sua sorella Laura, che dormiva in un secondo candido lettino da fanciulla, all'altro capo della vasta stanza, aveva quella sera molto prolungata la sua solita lettura notturna, con cui sfuggiva alla conversazione ultima della giornata, fra sorelle. Ma appena l'ombra della lunga e fredda notte d'inverno aveva avvolto le cose e le persone nella camera delle due fanciulle, Anna aveva schiuso gli occhi e li teneva fissi, sbarrati sul letto di Laura, il cui biancore appariva confusamente, anche nell'oscurità. Anna non dormiva. Non osava fare un movimento, non sospirava neppure; il suo corpo pareva quello di una statua e la sua vita era tutta nello sguardo, che cercava acutamente di penetrare tutto il segreto delle tenebre, volendo vedere se realmente sua sorella Laura dormisse. L'ora della notte che si avanzava rendeva sempre più gelida la stanza: Anna non aveva freddo. Da che il lume si era spento, una fiamma le era salita dal cuore al cervello, le si era diffusa per tutto il sangue, bruciandole le vene, accrescendone il palpito, bruciandole la carne, aumentando a dismisura le pulsazioni delle arterie, tanto che ella non poteva più seguirne, mentalmente, il precipitato movimento. Simile ai colpiti da una forte febbre, ella si sentiva bruciare, e le labbra si disseccavano all'alito caldo che passava, e intorno al capo, sul guanciale, ella sentiva il calore diffuso della sua testa che bruciava: e l'aria glaciale che le penetrava nei polmoni non ispegneva quella fiamma, non arrivava a vincere il tumultuoso irrompere del vivido sangue giovanile dal cuore al cervello. Spesso, per sollevarsi, avrebbe voluto emettere uno di quei sospiri che sono anche un grido, che sono anche un lamento, ma il timore di svegliare Laura le faceva soffocare anche i sospiri. Non soffriva di quella grande fiamma che le batteva alle tempia e ai polsi, che le faceva palpitare disordinatamente il cuore: soffriva di non poter sapere, certamente, se sua sorella dormisse. Uno spiraglio fra le imposte era stato lasciato da lei, apposta: ma vi entrava un bagliore così smorto, che non si diffondeva. Pensò di muoversi, facendo scricchiolare il letto, per udire se poi si muovesse Laura nel suo, destata; ma il terrore di dover prolungare la sua aspettazione, la immobilizzò, quasi che mille vincoli le annodassero le membra. Non poteva più neppure misurare l'ora, poichè non aveva prestato orecchio all'orologio del loro salottino, che si udiva anche nella loro stanza: e le parevano anni che durasse quell'attesa, le parevano anni che la bruciasse quel calore inebbriante, le parevano anni che stesse lì, con gli ardenti occhi spalancati sull'ombra. E un triste pensiero le attraversò la mente, che fosse trascorsa l'ora detta. Forse era trascorsa, nella immobilità, nel silenzio, ed ella stessa che l'aspettava febbrilmente, l'aveva lasciata fuggire. Ma fiocamente ammortito dalla lontananza e dalle porte chiuse, udì suonare l'orologio. Era l'ora detta. Allora, con una cautela paurosa, che ad ogni piccolo moto le procurava un palpito più violento, con una lentezza di mosse da sonnambula, fremendo a ogni stridore del suo letto, fermandosi ed attendendo, buttandosi indietro, sgomenta, ella si levò a sedere e poi scivolò fuori del letto. Quel biancore confuso in cui dormiva sua sorella l'affascinava sempre: e teneva il capo rivolto da quella parte, mentre le mani cercavano le calze, le scarpe, i vestiti. Tutto era lì, vicino, messo appositamente vicino, ma ogni difficoltà vinta per vestirsi, senza fare nessunissimo rumore, rappresentava un compendio di precauzioni, di pause, di paurosi intervalli d'immobilità. Quando finalmente ebbe indossato il vestito di lana bianca, si vide, nell'ombra. - Forse Laura mi vede - pensò, tremando. Ma aveva anche preparato un grande e pesante sciallo di lana nera, e se lo tirò dalle spalle sul capo, lo lasciò cadere fin giù ai piedi come un mantello, e il confuso candore del suo abito sparve. Pure, aveva eseguito il miracolo di vestirsi, stando ferma accanto al letto: non aveva osato fare un passo innanzi, era certa che Laura si sarebbe svegliata. Le pareva che l'avessero inchiodata sul tappeto, innanzi al letto: non avrebbe potuto levare un piede, ne era sicura. - Un po' di forza, Signore - pregò fra sè, impetuosamente, nell'ardore della sua passione. Camminò, scivolando, come un fantasma, fatto di inafferrabile nebbia, radente il tappeto. Alla metà della stanza, presa da un impulso di audacia, due parole le uscirono, basse, dalle labbra: - Laura, Laura... - chiamò, tendendo l'orecchio, acuendo lo sguardo. Niente, laggiù. La prova suprema era fatta. Fece un gesto, buttandosi alle spalle tutti i timori, e quasi conoscesse in quelle tenebre perfettamente il suo cammino, arrivò alla porta che aveva lasciata socchiusa, e passò nel salottino, sospirando liberamente. Per non far cadere lo sciallo, lo teneva convulsamente stretto al collo con una mano, e con l'altra brancolava innanzi a sè, poichè nel salottino era facile inciampare in qualche mobile; era pieno di tavolinetti, di mensole, di poltrone: teneva bene aperti gli occhi, innanzi a sè, camminando piano. Battè contro lo stipite della porta, fra il salotto e il salone, e si fermò, stordita dal colpo preso nella fronte, appoggiata al legno, con le orecchie che le tintinnavano: - Madonna mia, Madonna mia - diceva fra sè, angosciata. Passando, sfiorò la stanza dove riposava la loro istitutrice, Stella Martini; ma la povera e buona donna era di sonno duro, ella lo sapeva; e si fidava così di lei, Stella Martini, che era doloroso ingannarla. Ma tante altre cose più dolorose faceva ella, Anna, attraversando di notte quella sua casa tranquilla, tremando finanche di esser sorpresa da un servo, raccomandandosi, empiamente sì, ma raccomandandosi, a Dio! Il colpo dato contro la porta, e l'orgasmo della sua febbre le avevano turbata la mente: quando arrivò alla stanza da pranzo, le parve di aver attraversato cento stanze, cento appartamenti, una interminabile, favolosa fuga di stanze e di appartamenti. E quando aprì la porticina inferiore che, per mezzo di una scaletta nel muro, portava sulla terrazza, ella divampò di nuovo, anelando, salendo prestamente malgrado l'oscurità, non curandosi più di far rumore, schiudendo d'impeto la porticina superiore che dava sulla terrazza, correndo sul terreno, solcato da nere strisce di asfalto, fra l'aria gelida della notte che le schiaffeggiò le guance e la fronte, nel gran gelo invernale, sotto un cielo nero. Corse, giunse a un muretto divisorio poco alto, e tendendo le braccia verso la terrazza accanto, disperatamente, chiamò: - Giustino, Giustino! Subito un'ombra di uomo apparve sull'altra terrazza, si appressò, si fermò al muretto di divisione: una voce tenera rispose: - Eccomi, Anna. Ma ella, prendendolo per mano, attirandolo a sè, lo invocò di nuovo: - Vieni, vieni... Egli saltò agevolmente il muretto: stavano accanto ora, nella grande oscurità della notte. Tutta chiusa nel suo mantello nero, senza parlare, Anna curvò il capo e scoppiò in singhiozzi. - Che hai? che hai? - chiese lui, cercando di vederne la faccia, affannandosi. Anna piangeva, senza rispondergli, con un singulto sordo che parea la soffocasse. - Non piangere... non piangere... dimmi che hai... - mormorava lui teneramente, con una carezza compassionevole nelle parole e nella voce. - Niente, niente... ho avuto paura... - singultava lei come una creaturina sgomenta. - Cara, cara, cara - seguitava a mormorar lui, con una tenerezza piena di malinconia. - Ah, io sono una poveretta... sono una poveretta, - disse lei, intendendo l'intonazione di pietà, facendo un atto di desolazione, ch'egli intravide nella bruna notte. - Io ti voglio tanto bene - disse Giustino, a voce bassa, semplicemente. - Ripeti - disse lei, cessando di piangere. - Ti voglio tanto bene, Anna. - Io ti adoro, anima mia diletta. - Se mi vuoi bene, devi esser tranquilla... - Ti adoro, creatura mia cara... - Promettimi che non piangerai più così... - Ti adoro; ti adoro; ti adoro - ripeteva ella monotonamente, con la voce fatta sorda dall'emozione. Egli tacque: pareva non trovasse la parola più alta per corrispondere a quella commozione. Un vento freddissimo passò loro sul volto, attraverso l'ombra. - Hai freddo? - chiese Giustino con una gentilezza fraterna. - No: divampo - e gli stese la mano. Infatti la piccola mano, fra quelle di Giustino, bruciava. - È la passione - disse Anna. Egli sollevò delicatamente la mano sottile alle sue labbra e vi depose un lieve bacio, sulle dita. Non erano dunque gli occhi di lei che scintillarono nella notte, umane stelle di passione? - La passione mi consuma - seguitò lei, quasi parlasse a se stessa. - Io non sento nè il freddo, nè la notte, nè il pericolo, nè nulla. Non sento che te, non voglio che l'amor tuo, non voglio che vivere con te, sempre, sino alla morte, e di là anche, sempre con te, intendi, sempre... - Ahimè... - disse lui, sottovoce, con un rimpianto profondo. - Che hai detto? - gridò Anna, scuotendosi. - È un lamento, cara: un lamento, sopra il nostro sogno. - Non parlare così, non dirmi questo! - esclamò ella, disperata. - Perchè non vuoi lasciarmelo dire? Il dolce sogno, Anna, che abbiamo fatto insieme, si va dileguando, ogni giorno. Non vogliono che viviamo insieme. - Chi non vuole? - Colui che dispone di te, Cesare Dias. - Tu l'hai visto? - Oggi. - E non vuole? - No, non vuole. - Perchè non vuole? - Perchè tu hai danaro e io no: perchè tu sei nobile e io no. - Ma io ti adoro, Giustino! - Questo, al tuo tutore importa poco. - È un uomo cattivo... - È un uomo - diss'egli, brevemente. - Ma è una crudeltà, quella che egli commette! - gridò ella, levando le braccia al cielo. Giustino tacque. - Che gli hai risposto? Che cosa hai ribattuto? Non hai ripetuto, ancora una volta, che mi vuoi bene, che ti adoro, che morremo, se ci dividono? Non hai descritta la nostra disperazione? - Era inutile - disse Giustino, malinconicamente. - Oh Dio, oh Dio, e non hai difeso l'amor nostro, la nostra felicità? non hai gridato, non hai pianto, non hai tentato di scuotere quel cuore arido? Ma che uomo sei, ma che cuore hai tu stesso, che lasci sentenziare così la nostra morte? Oh Signore, Signore, che uomo ho amato io, dunque? - Anna, Anna... - disse lui con dolcezza. - Perchè non hai reagito, perchè non ti sei ribellato? Sei giovane, hai coraggio; perchè Cesare Dias, che è quasi vecchio, che è un glaciale calcolatore, ti ha fatto paura? - Perchè Cesare Dias aveva ragione, Anna - concluse lui, quietamente. - Ah sacrilego, sacrilego bestemmiatore dell'amore! - disse Anna, arretrandosi, colpita da un movimento di orrore. Nell'oblio della sua disperazione, ella aveva lasciato andare lo sciallo, che dalla testa le era scivolato sulle spalle, poi le era caduto ai piedi, senza che ella se ne accorgesse. Adesso ella si ergeva innanzi a lui, vestita di bianco, nell'ombra, come un desolato fantasma, che l'umano dolore fa vagabondare sulla terra, fra uno strazio che non avrà mai fine. E sebbene egli avesse preveduto quello scoppio selvaggio e clamoroso di dolore, sebbene egli avesse tratto dall'istesso suo mite, segreto e profondo dolore, una forza grande per affrontare quell'ultimo colloquio, pure lo strazio dell'unica donna che aveva amata, lo struggeva in tutto il suo disperato coraggio. - Cesare Dias aveva ragione, Anna mia. Io non posso sposarti, sono un povero giovane senza quattrini. - L'amore è più forte dei danari. - Sono un borghese: non ho un titolo da darti. - L'amore è più forte di un titolo. - Tutto si oppone al nostro amore, Anna. - L'amore è più forte di tutto, anche della morte - ribattè Anna, per la terza volta, con la monotona fissità che dà un unico sentimento. Fu un silenzio lungo, dopo questa sentenza della passione. Ma egli sentiva di dover andare sino in fondo: vedeva il suo dovere, e soffocava i suoi fremiti. - Anna mia, pensa bene. Le nostre anime erano fatte per vivere insieme, ma le nostre persone si trovano in condizioni così diverse, divise da tante cose, tanto lontane, che nessun miracolo arriverà a riunirle. Tu mi accusi di rinnegare il nostro amore, che è la nostra forza: ma è anche degno di noi vincere noi stessi in questa lotta. Anna, Anna, sono io che perdo tutto! - e la voce gli tremò - e pure ti consiglio a dimenticare questa folle ebbrezza giovanile. Tu sei giovane, sei bella, sei ricca, sei nobile, e mi ami, e ti debbo dire: dimentica, dimentica! Misura quanto è grande questo sacrificio, e vedi se non è da noi, che siamo due buone creature, di compirlo coraggiosamente. Anna, tu sarai amata, meglio, da miglior cuore; tu meriti il più puro e il più nobile affetto, tu non sarai a lungo infelice; va, la vita è ancora bella per te: piangerai, sì, soffrirai, perchè mi vuoi bene, perchè sei una cara creatura amorosa, ma dopo, dopo, troverai la tua bella via fiorita e larga. Sono io quello che non troverò più, che smarrirò la luce del mio intelletto, il sangue vivo del mio cuore: ma che importa di me? Tu dimenticherai, Anna. Anna, immobile, ascoltava: non proferì verbo. Egli, che aveva detto assai più di quanto soleva nella semplice sua manifestazione affettuosa, affannava un poco, tremando. - Parla - interrogò lui, ansioso. - Non posso dimenticare - rispose fievolmente Anna. - Prova, fa un tentativo, cerchiamo di non vederci. - No, no, è inutile - replicò ella, con la voce che le moriva sulle labbra. - E che vuoi fare? - Non so, non so... - e pareva smarrita. La improvvisa, crescente debolezza dell'appassionata fanciulla sotto il peso di quella fatalità, sgomentò Giustino più delle sue clamorose collere, e un novello impeto di compassione amorosa lo assalì. Le prese le mani; adesso erano fredde, come se tutto il gelo di quella nottata invernale fosse ormai giunto a vincere la vampa dell'amore, che le bruciava il sangue. Egli si appoggiò le due manine sul petto, teneramente. - Che hai? Ella non rispose: quasi mancandole le forze, abbassò la testa sul petto di lui, appoggiando la fronte sulle manine congiunte. Giustino le accarezzò i bruni e ricci capelli, con un moto fugace; appena appena se egli avvertiva l'anelare del suo respiro. - Anna, che hai? - le chiese, fremendo per mille sensazioni. - Ho, che non mi ami. - Come puoi dubitare? - Se mi amassi - cominciò ella a dire, pianamente, tenendo sempre la testa bruna appoggiata sul suo petto - non mi proporresti di separarci; se mi amassi non penseresti possibile questa separazione; se mi amassi, ti parrebbe di morire dovendo dimenticare ed essere dimenticato. Giustino, tu non mi ami. - Anna, Anna! - Giudico da me - continuò ella, pianissimo. - Sono una debole donna, eppure resisto, lotto e vincerei, sì, vincerei, se tu mi amassi... - Anna! - Ah non chiamarmi, non chiamarmi; tutta questa tenerezza a che serve? essa è buona, essa è saggia, essa è confortante, ma è tenerezza, non è amore; ma tu puoi pensare, riflettere, giudicare: non è amore questo; tu parli di dovere, di dignità a chi ti adora, a chi non vede altro che te nel mondo; io non so nulla di questo: ti amo, non so niente; e ora soltanto ho inteso che il tuo non è amore. Taci. Non ti capisco: non puoi capirmi. Addio, amore. Ella si volle staccare da lui, per andarsene. Giustino, disperato, la trattenne: ella si abbandonò di nuovo, come se non avesse altro appoggio; come se quello fosse stato l'ultimo suo rifugio. - Che vuoi fare? - egli chiese, sentendo vacillare sotto i suoi piedi la terra, sentendo abbassarsi sopra il suo capo il cielo. - Se non posso viver teco, debbo morire - rispose ella, quietamente, con gli occhi chiusi, quasi aspettasse così la morte. - Non parlate di morte, Anna, non aumentare il mio rimorso. Sono io che ti ho turbato l'esistenza... - Non importa. - Sono io che ho messo il dolore nella tua lieta giovinezza... - Non importa. - Sono io, che ti rendo ribelle a Cesare Dias, a tua sorella Laura, alla volontà dei tuoi parenti, di tutti i tuoi amici. - Non importa. - Sono io, infine, che ti strappo al tuo sonno, che t'induco a mille pericoli... pensa se ci scoprissero, qui... saresti perduta. - Non importa: conducimi via. E Giustino vide, malgrado l'ombra, brillare fosforicamente gli occhi innamorati di Anna. Egli tremava di sgomento, di tenerezza, innanzi a quel drammatico amore che si portava via l'animo suo, semplice e retto: e gli pareva di trovarsi innanzi a un sentimento troppo di lui più grande, colpito da una morale incapacità a misurarlo tutto, a contenerlo tutto, a esprimerlo tutto. - Se mi amassi, mi porteresti via - sospirò lei. - Ma dove? - In qualunque paese. Tu sei la mia patria. - Fuggire, una fanciulla onorata! Fuggire come una avventuriera? - L'amore assolve. - Io ti assolverei; non gli altri. - La mia famiglia sei tu: portami via. - Anna, Anna, dove troveremo ricovero? senza risorse, senz'amici, avendo commesso un grave errore, la nostra vita sarebbe infelicissima. - No, no, no; portami via. Avremo poco tempo da patire, fino a che io possa avere la mia fortuna. Portami via. - E io sarei accusato di speculazione! No, no, Anna, non è possibile, non sopporterei tale vergogna! Ella si staccò da lui e lo respinse indietro, con un moto d'orrore. - Come? - disse lei con voce affannata - come, tu avresti vergogna? Della tua vergogna ti preoccupi? E la mia? Onorata, stimata, amata, io non curo questo onore, quest'affetto, e preferisco perdere tutto il rispetto della gente e l'amore dei miei parenti: e tu pensi a te? Io avrei potuto scegliere fra una pleiade di giovani uomini, del mio ceto, del mio stato, e ho voluto scegliere te, perchè sei intelligente, onesto e buono, affrontando il disprezzo degli sciocchi e dei cattivi, che pure ha il suo peso, perchè gli sciocchi e i cattivi sono molti: e tu ti vergogni di quello che diranno di te? Io ti vengo dietro come una povera pazza, e inganno tutti, e non vi è parola mia che non sia menzogna, e sono qui, avendo abbandonato la mia stanza, durante il sonno di mia sorella, sono fuori della mia casa, di notte, insieme con te, tanto che se un servo mi scopre, può dire che sono l'ultima delle ultime: e tu pensi alla speculazione, pensi a quello che dirà il mondo di te? Oh come siete forti, voi uomini, come conoscete la vostra via, come vi camminate diritti, senza rispondere alle voci che vi chiamano, senza sentirvi ai panni le mani che vogliono fermarvi; niente, niente, niente! Voi siete uomini e avete l'onore da vigilare, la dignità da conservare, la reputazione delicata da salvaguardare; avete ragione: è così, noi siamo folli che buttiamo via l'onore e la dignità per amarvi, povere creature folli del loro cuore! Giustino non aveva tentato di protestare a nessuna delle frasi violente, che essa gli gettava al volto: ma ognuna di quelle frasi fischianti d'ira, scoppianti di dolorosa collera, lo sbalzava da una emozione all'altra, ora intenerito, ora impaurito, sempre commosso da quella voce, da quel calore di passione. Adesso l'incendio che egli imprudentemente aveva acceso, abbruciava tutto il bell'edificio semplice e sicuro del suo sogno, e intorno a sè egli non vedeva che crollanti, fumanti mine. L'amore di Anna lo riempiva di felicità, ma gl'incuteva rispetto e timore, come le cose che non sappiamo limitare e di cui ignoriamo la misteriosa forza. Ma, nella rettitudine del suo cuore, egli intese che essa aveva ragione e che bisognava lasciarsi morire, sotto il crollo del proprio sogno. Allora si avanzò verso lei, le s'inginocchiò innanzi - era la prima volta che lo faceva - e le disse semplicemente: - Perdonami. Partiamo, andiamo via. Ella gli appoggiò la mano sottile sui capelli, in una carezza materna; ed egli la udì pronunziare, sottovoce, con uno strazio infinito: - Oh Dio! Ambedue intesero che la loro vita era decisa, che avevano giuocato il gran dado della loro esistenza. Un pensiero li tenne silenziosi per qualche tempo: egli si era sollevato e allontanato da lei, passandosi la mano sulla fronte che bruciava, poichè la stessa vampa che infiammava il sangue di Anna, gli si era comunicata. Pareva che non avessero più nulla da dirsi, ora che avevano stabilito di fuggire insieme. La gravità di questa suprema risoluzione li teneva muti, immobili, sotto il pondo della fatalità che li schiacciava. Non si odiavano, certo; ma anche il loro amore era passato in seconda linea, rincantucciato in un angolo del cuore, ora che la gran catastrofe inevitabile già li avvolgeva. E con quella forza di rimbalzo che ella aveva in sè, uno dei tesori preziosi della sua bollente anima, ella fu la prima a spezzare quel tragico minuto, lungo, di silenzio. - Ascolta, Giustino - ella disse. - Prima di fuggire, lascia che io tenti un'ultima via. Tu hai parlato a Cesare Dias, gli hai detto che mi vuoi bene, che io ti adoro, ma egli non ti avrà creduto... - Infatti, egli sorrise di scherno. - È un uomo che ha molto vissuto, è stato molto amato, ha molto amato, e di tutto ciò non gli resta nulla: è un essere glaciale e solitario, che non parla mai del suo scetticismo, ma che non crede; è una creatura miserabile ed arida, inaridita forse. Sento che mi disprezza come un cuore folle, come una mente esaltata, mentre lui, a me, fa pietà, come mi fanno pietà tutti quelli che non possiedono l'amore. Pure... parlerò a Cesare Dias. La verità mi sgorgherà dall'animo con tanto impeto, che egli mi crederà. Tutto gli dirò: malgrado i suoi quarant'anni, malgrado la corruzione del suo spirito, malgrado tutta la sdegnosa sua ironia, l'amor vero troverà la parola convincente: egli darà il suo consenso. - Non potresti prima convincere tua sorella? Avresti un'alleata affettuosa... - disse lui, dubbioso, intendendo quanto fosse lontana la realtà dalle speranze di Anna. - Mia sorella è peggiore di Cesare Dias - rispose ella, con un lieve tremito nella voce. - Non mi confiderò mai con lei. - Hai paura? - Ti prego di non parlarmi di lei, te ne prego - disse ella sordamente - è un discorso che mi fa male. - Pure... - Ti dico di no. Laura non sa, non deve sapere, guai se sapesse! Preferisco mille volte parlare a lui: egli si deve ricordare del passato, ma Laura non ha nessun passato, non ha niente, è un'anima morta. Parlerò con lui, mi crederà. - E se non ti crede? - Mi crederà. - Anna, Anna, se non ti crede? - Allora, fuggiremo. Ma debbo fare questo estremo tentativo. Dio mi darà la forza che ebbero gli Apostoli. Dopo... ti scriverò per dirti tutto. Non posso venire più qui: è troppo pericoloso. Se mi scoprono, tutto fallisce. Ti scriverò. Soltanto tu regola le tue cose, come se fossi in punto di morte, come se dovessi abbandonare questo paese, per non tornarvi mai più, mai più. Sii sempre pronto. - Sarò sempre pronto - diss'egli con una lieve malinconia nella voce. - Senza incertezza? - Senza incertezza - replicò lui. - Senza rimpiangere nulla? - Senza rimpiangere nulla - e la voce gli morì sulle labbra. - Grazie: tu mi ami. Saremo tanto felici, vedrai, felici più di ogni regal coppia sulla terra! - Tanto felici! - mormorò sottovoce Giustino, eco fedele, ma triste. - E così Dio ci assista - concluse essa fervidamente, stendendogli la mano per salutarlo. Egli prese quella mano: e nella stretta vi fu un tacito giuramento; la mano dice queste cose. Ma era un giuramento di amici, di fratelli; semplice e austero. Ella si allontanò lentamente, quasi stanca; egli restò ad aspettare, prima d'intraprendere le due o tre scalate, per ritornare sulla terrazza della sua casa. Solo quando ebbe atteso dieci minuti, senza udire nessun nuovo rumore, nessuna nuova chiamata, egli credette di andarsene, sicuro che Anna fosse ritornata alla sua stanza, senza aver incontrato nessuno. Rientrando nella sua casa egli era triste e fiacco, senza idee e senza volontà; e vi si addormentò, di un sonno profondo. Anche lei, scendendo la scaletta che dalla terrazza portava alla stanza da pranzo, si sentì spossata, vinta dalla grave crisi morale che attraversava; una immensa debolezza la curvava, e trascinava i passi per la casa buia, attraverso le stanze, senza aver più nè la nozione del tempo, nè quella dello spazio, non provando neppure più il terrore di esser sorpresa, morta a tutte le sensazioni. Ma giunta nel salottino attiguo alla stanza da letto, uno spettacolo improvviso, imprevisto, le ridiede tutte le forze, gittandola a un tremore invincibile: dalla porta socchiusa ella vedeva, sì, vedeva della luce, nella loro camera, era acceso il lume, Laura era svegliata, Laura aveva visto il suo letto vuoto, Laura l'aspettava, col lume acceso! E nella follia che le saliva dal cuore al cervello, ella pensò, sperando: - Forse muoio... Ma un minuto passò, ed ella si trovò sempre lì, inchiodata in mezzo al salotto, affascinata da quella luce; la testa le girava, un ronzìo le mordeva le orecchie... - Potessi morire, potessi morire! - pensò. Quanto tempo stette lì? Chi sa! Sperava, almeno, che, tranquilla come era Laura, a un certo punto si sarebbe alzata, andando in cerca di lei, o avrebbe tranquillamente smorzato il lume. Almeno avesse potuto rientrare all'oscuro, senza esser costretta ad arrossire innanzi a sua sorella! Un po' di ombra, alla vergogna del suo inganno! Ma il lume restava acceso e tendendo l'orecchio ella udì un fruscio di foglio voltato; Laura leggeva. Così placidamente dunque ella leggeva, Laura, quando sua sorella era sparita, andando a mettere nelle mani di un estraneo, di uno sconosciuto la sua vita? Ah, forse Laura, inconscia, non sospettava nulla, ed era meglio affrontare coraggiosamente il suo aspetto. E d'un tratto, con l'impeto del suo generoso temperamento, aprì la porta ed entrò, e guardò Laura. La bellissima fanciulla, dai capelli biondo-fulvi e crespi sulla fronte, dall'ovale roseo purissimo, dai bigi occhi metallici, dalla piccola e fiera bocca, era seduta sul letto e leggeva quietamente. Quando vide avanzarsi sua sorella, col mantello nero pendente sul candido abito, coi capelli bruni mezzo disciolti sul collo, col viso smorto, Laura la guardò con tale un'occhiata ironica e disprezzante; un tale sorriso d'ironia e di sprezzo le contrasse le labbra, che la povera Anna, tremando come una foglia, perduta, folle di scorno e di pentimento, cadde in ginocchio in mezzo alla stanza, stendendo le braccia a sua sorella, piangendo, singhiozzando, gridando: - Perdonami, per carità, Laura, perdonami! Laura, Laura, Laura!... Ma la tacita fanciulla dal nobile e niveo volto verginale non ruppe il suo silenzio, non cambiò di colore, non cessò di sorridere alteramente, come se tutto l'umano fango dell'amore non giungesse a macchiare la candida stola del suo cuore glaciale, come se ella non potesse perdonare, mai. E in terra, abbandonata sulle braccia, nella infinita angoscia, Anna piangeva lamentandosi sottovoce, senza che il suo pianto arrivasse a strappare un cenno di pietà a sua sorella. Nell'alba invernale, come un mucchio di cenci bianchi, Anna si doleva ancora: sua sorella, abbandonato placidamente il biondo capo sul guanciale, dormiva, in un'alta serenità glaciale. II. La lettera diceva così: "Carissimo amore, ho affrontato anche io Cesare Dias. Quale uomo! La sola sua presenza mi gela e basta che egli mi guardi coi suoi chiarissimi occhi azzurri, perchè la voce mi muoia sulle labbra; il suo silenzio ha per me qualche cosa di pauroso, e quando discorre, la sua voce incisiva mi ferisce, prima per il tono, poi per le dure parole che pronunzia. Pure, ho avuto l'audacia di parlargli del mio matrimonio, stamane, quando è venuto per la consueta visita; gli ho chiesto un breve colloquio, senza tremare, sebbene da tanti giorni la sua fredda cortesia di tutore abbia una tinta ironica, sprezzante. Laura era presente, taciturna, con la sua aria distratta, e ha fatto una lieve alzata di spalle, noncurante e sdegnosa; si è levata lentamente e se ne è andata, senza voltarsi, con quel suo passo lieve che pare appena sfiori la terra. Cesare Dias, seduto in una poltroncina, giuocando con una stecca di avorio, sorrideva senza guardarmi, e quel sorriso mi scomponeva le idee. Ma dovevo tentare, dovevo; lo avevo promesso a te, amore, a me stessa, e la vita mi era insopportabile, accanto a mia sorella che possedeva il mio segreto, che mi torturava col suo sogghigno di persona che non ha mai amato, che mi faceva fremere di vergogna e di spavento, quando pensavo che ella poteva narrarlo, il segreto di quella notte burrascosa. Cesare Dias sorrideva, fissando i bizzarri lavori della stecca giapponese, e sembrava non avesse nessuna premura di udir nulla da me. Ebbene, malgrado il mio turbamento, malgrado che mi trovassi in presenza di una persona che non amo e che non mi ama, malgrado l'abisso che divide il mio carattere da quello di Cesare Dias, io ho osato dirgli che ti adoravo, che volevo vivere e morire con te, che la mia fortuna sarebbe bastata alla nostra famiglia, che non avrei voluto e saputo sposar nessun altro che te, che infine, umilmente, devotamente, al parente più prossimo, all'amico più saggio, chiedevo di dare il consenso al mio matrimonio. "Egli mi ha ascoltato, con gli occhi bassi, senza dar cenno d'interesse: solo, la stecca gli è restata immobile due o tre volte, fra le mani. Alla fine, ha detto seccamente: no. E allora ha avuto principio una scena atroce, in cui ho, volta a volta, tentato di pregare, di piangere, di ribellarmi, di proclamare la libertà del mio cuore, come avrei, fra poco tempo, proclamata la libertà della mia persona, e ho trovato sempre di fronte un cuore arido e duro, una volontà ostinata, e tutto un ragionamento perfido, falso, convenzionale, basato sul rispetto umano, sull'egoismo, sulla mancanza di sentimento. Cesare Dias ha negato il mio amore e il tuo; ha negato che esistano dei grandi amori, per cui si vive e si muore; ha negato che la passione sia indimenticabile; ha negato che non si possa vivere senza affetti profondi: il suo vocabolo è stato no, al principio del nostro colloquio, ha continuato a esser no, sempre no, facendomi le dimostrazioni più paradossali, più stravaganti e più ciniche; per convincermi che io m'illudeva, che noi c'illudevamo, e che era suo dovere opporsi a tale traviamento. Oh quanto ho pianto, come ho prostrato il mio spirito innanzi a quell'uomo che ragionava così freddamente, e come ora mi pento di essermi così umiliata! Mi rammento: quando la violenza della mia passione per te, amore, scoppiava in clamori, l'ho visto guardarmi con ammirazione di spettatore, come al teatro si ammira una scena drammatica e dopo si applaudisce l'attore che ha così bene recitato, fingendo la passione. Non mi credeva, e la collera mi ha due o tre volte fatto perdere il lume degli occhi, e sono giunta a minacciare di fare uno scandalo. - Lo scandalo ricade su chi lo fa, - ha detto lui, severamente, alzandosi per far cessare il colloquio. "Se ne è andato: l'ho inteso, nel salotto, parlare quietamente con mia sorella Laura, quasi nulla fosse stato, quasi non mi avesse lasciato singhiozzando, quasi non mi udisse ancora disperarmi e invocare i nomi della Madonna e dei santi. Ma questa gente non ha viscere, e io sono circondata da persone che mi credono un'esaltata, una pazza. "Amor mio, dolcissimo amore mio, eterno mio pensiero, è dunque deciso che dobbiamo fuggire. Bisogna fuggire, qui si muore, così. Tutto è meglio di questa casa che è una prigione: tutto è meglio della galera. Io non voglio più trascinare la catena. Sì, quello che fo, è così grave che mi sgomenta: la fanciulla che fugge di casa, secondo il comune giudizio degli uomini, si disonora, e malgrado la santità del matrimonio, dopo, non muore mai il sospetto. Sento che butto via tutta la mia vita, per un sogno d'amore. Ma anche il destino è stato così bizzarramente crudele pel mio cuore, dandomi una fortuna e togliendomi il padre, dandomi un cuore avvampante di affetto e isolandomi da tutti gli affetti, dandomi la più cara e insieme la più disamorata delle sorelle. "Che posso io più sapere del giusto, dell'onesto, se le sacre voci dell'onestà e della giustizia non hanno accompagnato la mia adolescenza? Per chi debbo io sacrificarmi, giacchè coloro che mi amavano sono morti, e coloro che vivono non mi amano? Io ho bisogno di amore; l'ho trovato, mi attacco ad esso, non lo lascio più. Chi mi piangerà qui? Nessuno. Quali mani si stenderanno a richiamarmi? Quelle di nessuno. Che ricordi porto via? Niente di niente. Io sono una creatura solitaria e sconosciuta che fugge il paese glaciale del polo, in traccia di quel sole vivificante che è l'amore. Tu sei il sole, tu sei l'amore. Non mi giudicare male, io non sono simile alle altre fanciulle che hanno una casa, una famiglia, un nido: io sono invece una povera pellegrina senza tetto, senza ricovero, che cerca una casa, una famiglia, un nido. Io sarò la tua sposa, la tua amante, la tua serva, quello che tu vuoi, purchè io viva teco, sotto il tuo tetto, raccogliendo il capo stanco sul tuo petto: ti amo. Una vita intera nella santa atmosfera del tuo amore, mi farà perdonare questo errore, che commetto. Non mi perdonerà il mondo. Ma io sdegno le persone che non hanno saputo sacrificar tutto all'amore; e coloro che hanno amato mi compatiranno. Io non saprò più nulla, che il tuo amore non sia. Tu mi perdonerai, perchè mi vuoi bene. "Dunque è deciso. Fra tre giorni da quello in cui riceverai la mia lettera, venerdì, lascia la tua casa, come se andassi a passeggiare, senza bagaglio, senza scialli, e fatti portare da una carrozza alla stazione. Ivi prenderai il treno Napoli-Salerno, che parte all'una precisa pomeridiana e arriva a Pompei alle due. Io non verrò alla stazione di Pompei, per non destare sospetti, ma starò girando per la città morta guardando le sue ruine: cercami dovunque, o piuttosto, no, vieni nella strada dei Sepolcri, accanto alla villa di Diomede, dinanzi a quella tomba di Nevoleia Tyche, una fanciulla pompeiana dolcissima, dice l'iscrizione. Ivi staremo sino al tramonto del sole e poi partiremo per Metaponto e per Brindisi, dove c'imbarcheremo per l'Oriente. Io ho del danaro: sai che Cesare Dias, per non avere noie, aveva lasciato nelle mie mani l'uso delle mie rendite, da due anni. Dopo... quando questi danari saranno finiti, ebbene, lavoreremo fino a che io abbia ventun anni. Hai dunque inteso? Non ti curare di come io potrò uscire di casa, andare alla stazione ed arrivare a Pompei senza farmi scoprire. È un mio piano semplice e audace che non posso comunicarti; debbo per forza eseguire quello e non un altro, perchè qualunque nostra riunione in Napoli ci esporrebbe a un grave rischio. Soli, partendo con treni diversi, perduti nella folla, come vuoi che ci scoprano? Ti meraviglia questa mia lucidezza di mente, questa calma, questa precisione? Sono venti giorni ch'io rifletto su questo piano, che non dormo di notte per istudiarne i particolari più minuti. Rammentati, rammentati: venerdì, alle dodici, partenza dalla tua casa; all'una, partenza dalla stazione; alle due e mezzo, convegno innanzi alla Tomba di Nevoleia Tyche; non dimenticare, per carità; se tu non dovessi arrivare all'ora detta, che farò, io sola, dentro Pompei, tormentandomi, morendo d'inquietudine? "Dolcissimo amor mio, è questa l'ultima lettera mia che tu ricevi. Perchè, scrivendo queste parole, un senso di dolore mi vince e mi fa piegare il capo? La parola ultima è sempre triste, comunque si dica; e faccia Dio che io non debba rimpiangere questo tempo bello, anche nelle sue torture. Ma tu mi amerai sempre, anche lontani dalla patria, anche poveri, anche infelici? Tu non dirai che io ho voluto il tuo male? Tu proteggerai questa debole creatura esposta a tutte le miserie umane, forte soltanto del suo amore? Tu sei buono, sei onesto, sei leale; il tuo amore ha delicatezze fraterne, tu sarai ogni cosa, ogni persona per me, e il mondo, e Dio! Ah, io bestemmio, è vero, ma ti adoro, ma io non sento più che l'imperioso, il feroce desiderio di fuggire, di venire a te, di non separarmi mai più, di camminare con te, sino all'ultima ora! Bando alla mestizia: noi ci amiamo, la vita è nostra; infelici i cuori senz'amore e senza la speranza dell'amore! L'ultima lettera è questa, è vero: ma dopo incomincia il grande avvenire. Ricordati, ricordati dove ti aspetta - Anna". Giustino Morelli lesse due volte la lettera di Anna, lentamente, come se ne imparasse a mente le parole. Era solo nella sua piccola casa: imbruniva. Poi abbassò il capo sul petto ed era smorto in viso: si sentiva vinto e perduto. Vinto e perduto, lui: vinta e perduta, Anna. . . . . . . . . . . . . . In quell'ora mattinale la chiesa di santa Chiara, tutta candida di stucchi, tutta ricca di ori, smorti e nobili, co' suoi marmi dolcemente bigiastri e con le sue miti pitture dall'alta volta, era quasi deserta: le vecchie devote erano sedute qua e là, strette nello sciallo di lana nera, e qualche donna del popolo, pregava inginocchiata, all'altare dell'Eterno Padre. Le due donne, Anna Acquaviva, e la sua damigella di compagnia, Stella Martini, eran sedute a metà della chiesa, cogli occhi abbassati sui loro libri di preci. Stella Martini aveva una di quelle facce scialbe e flosce di vecchie zitelle, che furono un tempo delicatamente graziose, e il cui fiore di bellezza si è appassito prima di trent'anni, che finiscono per rassomigliare a bambole vecchie, imbottite di cruschello, da cui il cruschello sia caduto; vestiva di nero e aveva un aspetto di rassegnata bontà, di pace spirituale. Anna indossava un abito di lana nera, con una giacchetta bigia all'inglese, e sui neri capelli raccolti strettamente sulla nuca da un grosso pettine di tartaruga bionda, posava un tocchetto nero, dall'ala grigia. Il pallor caldo del suo viso non aveva una goccia di sangue sotto la pelle, e ogni tanto ella si mordicchiava il labbro, nervosamente. Per molto tempo ella tenne il libro delle orazioni, aperto, senza voltare la pagina bianca: ma Stella Martini non se ne accorse; ella pregava fervidamente. A un certo punto, la fanciulla si levò: - Io vado - disse, pur restando ferma, guardando la vôlta della chiesa. - Non avete il velo? - chiese Stella Martini. - No, vado così. Sto poco. E con passo leggerissimo si allontanò verso l'alto della chiesa, sparendo in un confessionale, dalla parte opposta dove stava Stella Martini. Costei la seguì con lo sguardo; poi, pazientemente, abbassò il capo e si mise a recitare fra sè il rosario. Nel confessionale, il buon prete dei Verginisti, dal viso rotondo e roseo che avea conservato qualche cosa d'infantile nella vecchiaia, e dalla corona di capelli candidi, faceva le domande di rito, dolcemente, non meravigliandosi del tremore della voce che gli rispondeva, conoscendo bene il carattere della sua penitente, cercando di ricondurla ad una contemplazione pacifica dell'esistenza. Ma Anna Acquaviva quel giorno rispondeva assai confusamente; spesso non intendeva il senso delle semplici parole, che il prete le rivolgeva; spesso un silenzio era la risposta, mentre un respiro affannava, dietro la grata; e infine quando il confessore le ebbe chiesto, con una certa ansietà: - Ma che cosa avete dunque? - Padre, sono in grave pericolo - rispose una voce sorda. Invano egli, scosso, cercò di sapere: ella esitava a dare spiegazioni: udiva le esortazioni alla quiete, alla sincerità, senza mormorare altro che questo: - Padre, mi minaccia una disgrazia. Allora egli si fece severo, l'ammonì che era un peccato molto brutto venire lì a burlarsi della fede, quando non si voleva neppure chiederne gli ausilii nella sventura: che il Signore aborriva specialmente i sacrileghi che mescolano il sacro col profano, e che tengono tanto al peccato, nel momento istesso del pentimento. E le dichiarò che non poteva assolverla; ma capì che quell'animo fiero e impetuoso si era ormai chiuso alle letificanti dolcezze della religione. - Tornerò - disse lei, levandosi risolutamente. Per tornare da Stella Martini ella doveva ripassare innanzi al confessionale e il padre Verginista si piegò a vederne il viso e l'andatura: un dolore mistico gli restava nel cuore, per quell'anima smarrita. Ma ella non ripassò, ed egli pensò che la povera creatura se ne fosse andata via da un'altra parte. Infatti Anna Acquaviva, invece d'avviarsi verso Stella Martini, fece due passi indietro ed entrata in una cappella, sparve dalla porta della chiesa, che dà sul chiostro di Santa Chiara: la damigella, senza levar gli occhi, seguitava a pregare fervorosamente, aspettando che la confessione finisse. Anna scese assai tranquillamente gli scalini, attraversò il chiostro senza affrettarsi, senza voltarsi indietro, e uscita nella via di Santa Chiara, salì in una carrozzella da nolo, facendone sollevare il mantice, e dicendo al cocchiere di andare alla stazione. Aveva compiuto tutto ciò con molta calma, ma quando fu in fondo a quella nicchia oscura, trabalzata sul selciato di Trinità Maggiore, sola, libera, fuggita infine, si arrovesciò indietro, comprimendosi un fazzoletto sulle labbra per soffocare le folli grida di gioia e di angoscia insieme, che ne irrompevano. Andava, andava, come in un sogno, scuotendosi ogni tanto all'idea bella e atroce che era proprio lei, Anna Acquaviva, che aveva abbandonato per sempre la sua casa e la sua famiglia, portando delle migliaia di lire nella borsetta infilata al polso, per gittarsi nelle braccia di Giustino Morelli: e nessun sentimento di paura la teneva più: ormai tutto era finito, non l'avrebbero più ripresa, era via, era via, nell'ignoto, essere sconosciuto e disperso nella sconosciuta folla. E in quel sonnambulismo di chi compie una grande azione decisiva ella era precisa e rigida nei movimenti, simile ad un automa. Alla stazione pagò il cocchiere, e macchinalmente chiese al bigliettinaio un biglietto per Pompei. - Col ritorno? - domandò costui, naturalmente. Da Pompei si ritorna sempre nella giornata. - No - ella rispose, sussultando simile a una sonnambula che si svegli. Egli pensò che fosse un'inglese appassionata di antichità. Ella mise il biglietto nell'apertura del guanto, e senza sbagliare, come un congegno di orologeria perfettamente montato, si avviò alla sala di prima classe. Si guardò attorno con indifferenza, come se non fosso neppure possibile che Cesare Dias la raggiungesse in quella sala, o che qualche persona di sua conoscenza si meravigliasse d'incontrarla sola, colà: niente, niente, era immobile, senza più un sentimento, col bisogno di andare innanzi, niente altro. Non si sorprendeva neppure di esser sola, per la prima volta: e le pareva che da anni e anni viaggiasse così, anzi, che sempre nella sua vita non avesse fatto altro: e che Laura Acquaviva, Cesare Dias e Stella Martini fossero pallide ombre di un passato, anteriore anche all'esistenza, gente vista altrove. Ella andava ripetendo fra sè, macchinalmente, come il bimbo che non deve dimenticare una parola: - Pompei, Pompei, Pompei. Ma salendo nello scompartimento di prima classe, vuoto, dette indietro sullo scalino: pareva che una forza l'avesse respinta. Qual mano misteriosa, dunque, le impediva di andare? Tremò, quasi desta dal sogno: e dovette fare uno sforzo per salire nel vagone, vincendo quell'ostacolo misterioso che le dava un brivido di paura, anche perchè ne sentiva l'impressione, senza distinguerne l'aspetto. E da quel minuto in cui la segreta voce del destino le era confusamente risuonata nella coscienza, ella visse in quel dormiveglia morale di chi attraversa una grave crisi: dormiveglia che ora la cullava in carezzose visioni di felicità, innanzi al ridente spettacolo della azzurra costiera napoletana, dove il freddo invernale si mitigava in un tiepido scirocco: e che ora si dileguava facendole fare un sussulto innanzi a un'oscura ma opprimente realtà. Filava, filava il treno mattinale fra la campagna e il mare, quasi rasentando le chete onde, passando attraverso le case bianche di Portici, attraverso le case rossastre di Torre del Greco, attraverso le case bianche, rosse e bige della popolosa Torre Annunziata, scivolando con poco rumore sulle rotaie bagnate dalla rugiada sciroccale: e Anna, stretta nel suo paltoncino, con la veletta abbassata sugli occhi, raccolta in un cantuccio, dietro il cristallo dello sportello, passava da una grande, confusa e dolcissima apparizione fiorita, di stelle, di carezze, di baci, a un freddo terrore di un pericolo imminente, che la faceva rincantucciare, più timida di una fanciulletta che si sia smarrita nella strada. Oh sì, nell'orizzonte chiarissimo ondeggiava il fantasma di un avvenire tutto amore, tutto passione, tutto tenerezza: un fantasma fiammeggiante di tutte le voluttà dell'anima e delle fibre; ma quando ella si scuoteva dalla contemplazione più estatica della grande luce, dentro sè udiva le implacabili parole della coscienza che mai non tace, in tutte le anime, pure ed impure, corrotte ed incorrotte, la voce profonda che è la verità istessa: - Non andare, non andare; se vai, sei perduta. E questo presentimento, in un'ora di viaggio, crebbe talmente, che quando il treno, oltrepassata Torre Annunziata, si mise per la bruciata e brunastra campagna che è quella vesuviana e che precede la gran rovina di Pompei, ella ne ebbe l'incubo, e la disperazione le fece torcere le mani intorno al manico della sua borsetta da viaggio. Erano sparite le verdi vigne e le ville che ridono fra i pampini: era sparito il mare lucidamente azzurro, dove le vele bianche parevano ali di bianchi uccelli fermi sulla cima delle acque marine: e si andava in un gran paesaggio desolato, dove pareva s'avanzasse minaccioso il vulcano, col suo eterno fuoco, col suo fumo che mai non cessa: ed erano anche spariti, per sempre, i fantasmi della felicità. Anna viaggiava sola, in una landa sterile, dove il fuoco era passato, distruggendo la vegetazione, distruggendo le case e gli uomini e i loro piaceri e i loro amori, che pareva non dovessero finire mai. E dentro a lei la voce diceva: - Così è la passione: tutto distrugge ed ella stessa muore. Tanto che pensò aver fatto una scelta malaugurata, andando a Pompei, la città dell'amore, distratta dal fuoco, perenne soggetto di ammirazione e di malinconia a chi la visita, avesse costui il cuore arido come la pomice. E fu assai smorta figura di fanciulla quella che scese dal vagone di prima classe: e incertamente, in preda alle dubbiezze desolanti di chi si sente lentamente cadere in un precipizio, ella si mise dietro a una famiglia di tedeschi, anch'essa discesa innanzi alla minuscola stazione, insieme con due preti inglesi. Andava dietro, così, senza intendere più quello che succedeva intorno, fissando un occhio distratto sulle siepi polverose che chiudono lo stesso sentiero che conduce a Pompei; sui campicelli di quel bizzarro fiore che pare un fiocco di seta, sui campicelli che vanno dalla stazione all'albergo Diomede. Nè la comitiva, tedesca, nè i due preti guardavano quella solitaria viaggiatrice dal volto bruno e pallidissimo, dai grandi occhi bigio-neri che vagavano senz'interesse intorno, avendo quegli occhi lo sguardo interiore delle persone assorbite in una passione. Solo, quando tutti furono entrati nella sala terrena dell'albergo, così triste, così pieno di tristi mosche ronzanti, ella restò in un angolo, presso una finestra, guardando il sentiero che aveva percorso, come se attendesse qualcuno, come se volesse tornare indietro. E invero Anna, più che mai, si era messa a desiderare profondamente la presenza di Giustino, pensando che solo al vederlo apparire, solo all'udire la sua cara, tenera voce, tutte le dubbiezze sarebbero fuggite. - Io lo adoro, lo adoro - pensava fra sè, assorta nell'idea della passione, cercando in essa il coraggio contro la sua coscienza. Si accorse di essere restata sola, in piedi: e un cameriere, sotto l'arco di una porta, osservava con indifferenza quella signora taciturna e immota, abituato alle stranezze dei forestieri. Ma ella capì che doveva andare, e attraversando, così, macchinalmente, un cortiletto oscuro, si mise per una scaletta che sale al primo piano dell'albergo e che, al secondo piano, spunta dirimpetto all'entrata di Pompei. Niente ella aveva udito: nè le offerte di qualche ristoro nella sala dell'albergo, nè quelle del venditore di coralli, lave e Guide di Pompei che ha una bottega colà, nè quelle di un bambino, sulla strada, che le offriva dei fiori di bambagia serica, in francese. Ella andava automaticamente, il suo cuore era preso da un solo, da un unico desiderio: veder Giustino, ecco la sua forza, ecco la ragione della sua vita, solo lui, l'amore, niente più, niente più: Giustino, Giustino, Giustino! Guardò al suo piccolo orologio di fanciulla, l'unico gioiello che aveva portato via: quanto tempo, ancora, per le due! Dopo aver preso i danari del suo biglietto, una vecchia guardia degli scavi, un ometto curvo e lento, si era avviato innanzi a lei, per farle spiegazione delle ruine. Anna lo seguiva, anch'ella debole e lenta, quasi le fossero mancate tutte le forze fisiche, mentre dentro fremeva la passione. E insieme, il vecchio povero uomo che faceva il suo mestiere, malgrado l'età e la stanchezza, e la giovinetta che si reggeva a stento, in un grande abbandono delle fibre, si misero per la bellissima, la dolcissima fra tutte le rovine dell'antichità, per la città sacra all'amore e al piacere, che pare ancora traspiri dalle pietre delle sue vie, dalle pareti rossastre dei suoi triclinii, dalla frescura taciturna delle sue terme, l'amore e il piacere. Lentamente, fra il tepore della mattinata sciroccale, essi andavano per gli alti marciapiedi, penetrando poi nei templi, attraversando le strette vie della Speranza, della Fortuna, dove così profondi solchi han lasciato nelle pietre i carri, entrando in tutte le case, uscendone, visitando le piazze, i mercati, le botteghe: il vecchio avanti, borbottando le sue spiegazioni, la giovinetta dietro, guardando ogni cosa con quelle occhiate vaghe, che pare abbiano una nebbia innanzi a sè. Due volte, la guardia disse: - Adesso, visiteremo la via dei Sepolcri, e la villa di Diomede. - Dopo - ella rispose due volte. Due o tre volte ella si lasciò cadere sopra una pietra, stanca, e il povero vecchio si sedette un po' distante, abbassando il capo sul petto, addormentandosi. Anch'ella si lasciava prendere dalla prostrazione, avendo esaurito nell'atto dell'audace fuga dalla chiesa, nel viaggio, prima in carrozza e poi in treno, tutto quello che vi era in lei d'impetuoso, di tumultuario. Adesso si sentiva troppo sola, abbandonata, povera persona che portava, attraverso la città morta, tutta l'oppressione della solitudine, della stanchezza, e quando, dopo una lunga pausa di riposo, ella si levava di nuovo, un sospiro le usciva dal petto. Pure, riprendeva il suo cammino, dovendo far passare il tempo, volendo divorare le ore che dividevano venti minuti di cammino da Pompei: il vecchietto e lei camminavano per la via stretta fra i campi, senza parlare, sollevando appena un po' di polverio col loro passo. Tornò indietro, pian piano, avendo pregato il guardiano di tacere, presa ormai da un abbattimento mortale. E quando finalmente il vecchio le disse, per la terza volta: - Adesso visiteremo la via dei Sepolcri e la villa di Diomede. Ella rispose, fievolmente: - Andiamo. Le ore, lente, erano trascorse: ne mancava una sola all'arrivo di Giustino: con l'orologetto in mano, mentre la guardia le spiegava le magnificenze della villa Diomede, ella disse, fra sè: - Adesso Giustino parte da Napoli. Impaziente, non potendo più sopportare la voce, la presenza del vecchio, non sapendosi più dominare, lo licenziò: esitante, egli non voleva andarsene, le disse che non era permesso nè di disegnare, nè, specialmente, di asportare nulla. Ma lo diceva con timidità, umile, sapendo bene che era inutile far queste raccomandazioni alla pallida fanciulla dagli occhi sognanti; e andandosene, pian piano, si voltò indietro più volte, a vedere che faceva. Ella sedeva sopra una pietra, di fronte alla tomba della dolcissima liberta Nevoleia Tyche, aspettando: aveva le mani in grembo, la testa china; non la levò neppure quando passarono gli inglesi accompagnati da un guardiano. Quest'ultima ora le parve una immensa discesa, interminabile, in una grande ombra, dove il senso di tutte le cose si smarriva; il nome di Giustino, ripetuto continuamente, le serviva per sottile linea di luce. Non udiva, non vedeva più nulla intorno a sè; ogni nozione, di ogni cosa, era sparita. A un tratto innanzi alle palpebre abbassate, fra lei e la bigia tomba della libertà, si mise un'ombra. Era giunta senza far rumore; e giunta non aveva profferita parola. Ella levò il capo, e vide innanzi a sè Giustino, che la guardava con una infinita e disperata tenerezza. Anna, incapace di dir nulla, gli stese la mano e si levò; sorrideva così luminosamente che tutto il suo volto dalla bella fronte, dagli occhi scintillanti, dalle vivide guance dove era affluito il sangue, dalle rosse labbra, parea rifulgesse. Così seducente, nella ebbrezza dell'amore felice, Giustino non aveva vista mai la fanciulla, e una lieve contrazione attraversò il suo volto di buon giovane onesto. Estatica, essendo morti tutti i suoi dubbi, essendo ella risorta alla gloria del suo amore, Anna non si accorgeva della emozione dolorosa di Giustino: - Mi vuoi bene molto? - Molto. - Me ne vorrai sempre? - Sempre. Era come un'eco molle e mesta; ma la fanciulla non se ne accorgeva, un divino velo di passione le era disceso sugli occhi. Andavano, andavano, ella stretta a lui, così immensamente felice che appena appena toccava terra, godendo quel minuto intenso di amore con tutta la forza sensitiva e sentimentale che possedeva, con l'abbandono più ingenuo a tutta la felicità di cui è capace una umana persona. Andarono, così, per le vie di Pompei, senza vedere, senza guardare. Solo essa ripeteva, sottovoce, nenia carezzevole: - Dimmi che mi vuoi bene, dimmi che mi vuoi bene... Due o tre volte egli rispose affermativamente con un semplice sì, detto molto sottovoce: poi tacque. E in un minuto di chiaroveggenza, non udendolo più rispondere, Anna si fermò, trattenendolo lievemente pel braccio, domandandogli, mentre lo fissava nei buoni occhi onesti: - Che hai? Era una domanda affannosa: la voce tremava. Egli chinò gli occhi: - Niente - disse. - Perchè sei così triste? - Non sono triste - replicò lui, con uno sforzo. - Non mentire! - Non mento. - Giura che mi vuoi bene? - Ah tu non hai bisogno di giuramenti! - esclamò con tanta sicurezza e con tanto dolore, che ella si convinse subito, intendendo la sincerità e non il dolore. Ma rimase inquieta, con un'amarezza che le sorgeva dal cuore e le invadeva il sangue. Erano presso alla Via di Mare, donde si esce dalla città morta. - Andiamo via, andiamo via - disse ella impaziente. - Il treno per Metaponto non passa che alle sei: vi è tempo. - Andiamo via: non voglio restare più qui; ti prego, andiamo. Egli, rassegnato a una passiva obbedienza, obbedì. Tacevano. I due preti inglesi scendevano all'albergo Diomede e alla stazione, insieme con loro: Anna, intimidita, non osava più parlare d'amore con Giustino, ma lo guardava con certi occhi così amorosamente supplichevoli, che egli non poteva reggervi. Uscirono da Pompei, discesero la scaletta dell'albergo e si trovarono di nuovo in quella sala terrena, bassa di soffitto e piena del fastidioso ronzio delle mosche: i due preti si sedettero alla tavola sempre preparata, e mentre si allestiva il pranzo, uno leggeva gli Evangeli e l'altro la sua guida Baedeker. I due innamorati erano presso la finestra, guardando dai cristalli la via che conduce alla stazione: e Anna teneva sempre il suo braccio attaccato a quello di Giustino. Ed egli, confuso, inquieto, le chiese se volesse pranzare, così, volgarmente, come per dominare l'imbarazzo della loro posizione. No, non voleva pranzare, non aveva fame: dopo, più tardi - e la voce era nervosa, ella sogguardava i due ecclesiastici, infastidita. - Vorrei... - soggiunse all'orecchio di Giustino. - Che vorresti? - Portami via, altrove, dove possa dirti una parola! Egli titubò: ella, a un tratto, s'infiammò nel viso, intendendo: uno smarrimento che veniva dal pudore muliebre, la vinse. Ma Giustino, deciso, si era allontanato, per parlare con l'oste. Poi, era tornato: - Vieni. - Dove andiamo? - Sopra. - ... sopra? - Vedrai. Risalirono la scaletta, si fermarono al primo piano, e il cameriere che li accompagnava aprì loro la porta di un quartierino, composto di una camera e di un salotto; una grandissima camera e un piccolissimo salotto, ambedue con i balconi che guardavano la campagna e la stazione; il cameriere con la stessa sua aria indifferente li lasciò soli in quelle stanze, dove talvolta dimora due o tre giorni uno straniero appassionato di archeologia, o dove riposano, per qualche ora, delle straniere, aspettando il treno. Ambedue, rimasti soli in quel salotto, erano adesso pallidi, gravi, confusi. Ella si guardò intorno: il salottino era volgarmente ammobiliato da un divano di sargia verde, da due poltroncine di sargia, da un tavolino rotondo, nel mezzo, coperto da un tappeto di juta color nocciuola, da una mensola con un piano di marmo bianco, da qualche sedia di paglia; e questo ambiente, dove tanti estranei erano passati, le ispirò una diffidenza, un ribrezzo da non dirsi. Stando sotto l'arco della porta, gittò un'occhiata nella camera. Era vasta, con due letti in fondo, divisi da un tavolino da notte, con una toilette assai gramamente coperta di tendine bianche, un divano sempre di sargia verde e un armadio scuro: tutti questi mobili erano perduti nella vastità della camera che pareva nuda. Ella ebbe freddo al solo guardarla; eppure, nuovamente, le salì il rossore, al viso. Era agitatissima. Ma levando gli occhi in viso a Giustino, vide che costui la guardava con tanta pietà, che si sgomentò di nuovo, più intensamente. - Che hai? - gli disse con voce strozzata. Nessuna risposta. Giustino si era seduto e aveva nascosta la faccia fra le mani. - Dimmi che hai - replicò ella, fremendo di angoscia e di collera. Egli tacque; forse piangeva dietro il velo delle mani. - Se non mi dici che hai, me ne torno a Napoli, Giustino! - gridò ella, al colmo dell'ira e dell'affanno. Niente: taceva. Allora ella abbassò la testa, pensò, con l'ardentissima rapidità dei minuti supremi. E invece di andare, si sedette innanzi a lui e gli disse con tono calmo: - Tu mi disprezzi, perchè sono fuggita di casa mia. - No, Anna - mormorò lui fievolmente. - Tu mi credi una miserabile... supponi che io sia una creatura perduta? - No, cara, no. - Forse... tu... ami un'altra donna. - Non lo sospettare neppure. - Avrai... forse... un altro legame, senz'amore? - Niente mi lega, a nessuno. - Nemmeno una promessa? - Nemmeno. - E allora perchè sei triste? Perchè tremi? Perchè piangi? Io dovrei tremare e piangere, eppure non piango, io, se non del tuo pianto, ignoto pianto che mi offende e mi dispera! - Anna, ascoltami, per carità, per la memoria di tua madre, intendimi. Io sono disperato per te, per il passo che hai fatto, per il tuo avvenire che hai giuocato, per la infelicità che ti attende, domani, senza casa, senza nome, senza fortuna, perseguitata dalla tua famiglia... - Se tu mi amassi, non penseresti, non diresti queste cose... - Te le ho sempre dette, te le ripeto, Anna. Questa è una rovina che io ho fatta, io agonizzo da tre giorni sotto i rimorsi, e oggi stesso, innanzi a te che sei tutta la mia luce, mi è parso di trovarmi a una oscura catastrofe. Anna, Anna, oggi non perdono a me stesso, domani tu non mi perdonerai più... Oh amor mio, io sono un galantuomo, un cristiano, e ho potuto imporre prima a te, poi a me, tale peccato, tale errore!... Parlando così, con uno strazio infinito, tutta l'onestà del suo bellissimo animo esulcerato dal rimorso e dall'amore, traboccava. Ella lo guardava, lo udiva, stupefatta, arrestandosi dinanzi a quella rettitudine, a quella virtù più forte dell'amore, ella che credeva solo nell'amore. - Non ti capisco - disse, trasognata. - Eppure bisogna, bisogna: se tu non vedi la ragione della mia condotta, mi disprezzerai, mi odierai, come un vile, come un ladro, Anna: tu devi usare di tutta la tua mente, di tutto il tuo cuore per apprezzare; non lasciarti trascinar
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