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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
LIBRO NONO
Queste de' Teucri eran le veglie. Intanto del gelido Terror negra compagna la Fuga, dagli Dei ne' petti infusa, l'achivo campo possedea. Percosso da profonda tristezza era di tutti i più forti lo spirto; e in quella guisa che il pescoso Oceàno si rabbuffa, quando improvviso dalla tracia tana di Ponente sorgiunge e d'Aquilone l'impetuoso soffio; alto s'estolle l'onda, e si sparge di molt'alga il lido: tale è l'interna degli Achei tempesta. Sovra ogni altro l'Atride addolorato di qua, di là s'aggira, ed agli araldi comanda di chiamar tutti in segreto ad uno ad uno i duci a parlamento. Come fûro adunati, e mesti in volto s'assisero, levossi Agamennóne. Lagrimava simìle a cupo fonte che tenebrosi da scoscesa rupe versa i suoi rivi; e dal profondo seno messo un sospiro, cominciò: Diletti principi Argivi, in una ria sciagura Giove m'avvolse. Dispietato! ei prima mi promise e giurò che al suol prostrate d'Ilio le mura, glorïoso in Argo avrei fatto ritorno; ed or mi froda indegnamente, e dopo tante in guerra estinte vite, di partir m'impone inonorato. Il piacimento è questo del prepotente nume, che già molte spianò cittadi eccelse, e molte ancora ne spianerà, ché immenso è il suo potere. Dunque al mio detto obbediam tutti, al vento diam le vele, fuggiamo alla diletta paterna terra, ché dell'alta Troia lo sperato conquisto è vana impresa. Ammutîr tutti a queste voci, e in cupo lungo silenzio si restâr dolenti i figli degli Achei. Lo ruppe alfine il bellicoso Dïomede, e disse: Atride, al torto tuo parlar col vero libero dir, che in libero consesso lice ad ognun, risponderò. Tu m'odi senza disdegno. Osasti, e fosti il primo, alla presenza degli Achei pur dianzi vituperarmi, e imbelle dirmi, e privo d'ogni coraggio, e l'udîr tutti. Or io dico a te di rimando, che se Giove l'un ti diè de' suoi doni, l'onor sommo dello scettro su noi, non ti concesse l'altro più grande che lo scettro, il core. Misero! e speri sì codardi e fiacchi, come pur cianci, della Grecia i figli? Se il cor ti sprona alla partenza, parti; sono aperte le vie; le numerose navi, che d'Argo ti seguîr, son pronte: ma gli altri Achivi rimarran qui fermi all'eccidio di Troia; e se pur essi fuggiran sulle prore al patrio lido, noi resteremo a guerreggiar; noi due Stènelo e Dïomede, insin che giunga il dì supremo d'Ilion; ché noi qua ne venimmo col favor d'un Dio. Tacque; e tutti mandâr di plauso un grido, del Tidìde ammirando i generosi sensi; e di Pilo il venerabil veglio surto in piedi dicea: Nelle battaglie forte ti mostri, o Dïomede, e vinci di senno insieme i coetani eroi. Né biasmar né impugnar le tue parole potrà qui nullo degli Achei: ma pure, benché retti e prudenti e di noi degni, non ferîr giusto i tuoi discorsi il segno. Giovinetto se' tu, sì che il minore esser potresti de' miei figli. Io dunque che di te più d'assai vecchio mi vanto, dironne il resto, né il mio dir veruno biasmerà, non lo stesso Agamennóne. È senza patria, senza leggi e senza lari chi la civile orrenda guerra desidera. Ma giovi or della fosca diva dell'ombre rispettar l'impero. S'apprestino le cene, ed ogni scolta vegli al fosso del muro, e questo sia de' giovani il pensier. Tu, sommo Atride, come a capo s'addice, accogli a mensa i più provetti; e ben lo puoi, ché piene le tende hai tu del buon lïeo che ognora pel vasto mar ti recano veloci l'achive prore dalle tracie viti. Nulla all'uopo ti manca, ed al tuo cenno tutto obbedisce. Congregati i duci, apra ognun la sua mente, e tu seconda il consiglio miglior, ché di consiglio utile e saggio or fa mestier davvero. Imminente alle navi è l'inimico, pien di fuochi il suo campo. E chi mirarli può senza tema? Questa fia la notte che l'esercito perda, o lo conservi. Disse, e tutti obbediro. Immantinente uscîr di rilucenti armi vestite le sentinelle. N'eran sette i duci; il Nestoride prence Trasimede, di Marte i figli Ascàlafo e Jalmeno, Merïon, Dëipìro ed Afarèo con Licomede di Creonte; e cento giovani prodi conducea ciascuno di lunghe picche armati. In ordinanza si difilâr tra il fosso e il muro, e quivi destaro i fuochi, e apposero le cene. Nella tenda regal l'Atride intanto convita i duci, di vivande grate li ristaura; e sì tosto che de' cibi e del bere in ciascun tacque il desìo, il buon Nestorre, di cui sempre uscìa ottimo il detto, cominciò primiero a svolgere dal petto un suo consiglio, e in questo saggio ragionar l'espose: Agamennóne glorïoso Atride, da te principio prenderan le mie parole, e in te si finiranno, in te di molte genti imperador, cui Giove, per la salute de' suggetti, il carco delle leggi commise e dello scettro. Principalmente quindi a te conviensi dir tua sentenza, ed ascoltar l'altrui, e la porre ad effetto, ove da pura coscïenza proceda, e il ben ne frutti; ché il buon consiglio, da qualunque ei vegna, tuo lo farai coll'eseguirlo. Io dunque ciò che acconcio a me par, dirò palese, né verun penserà miglior pensiero di quel ch'io penso e mi pensai dal punto che dalla tenda dell'irato Achille via menasti, o gran re, la giovinetta Brisëide, sprezzato il nostro avviso. Ben io, lo sai, con molti e caldi preghi ti sconfortai dall'opra: ma tu spinto dall'altero tuo cor onta facesti al fortissimo eroe, dagl'Immortali stessi onorato, e il premio gli rapisti de' suoi sudori, e ancor lo ti ritieni. Or tempo egli è di consultar le guise di blandirlo e piegarlo, o con eletti doni o col dolce favellar che tocca. Tu parli il vero, Agamennón rispose, parli il vero pur troppo, enumerando i miei torti, o buon vecchio. Errai, nol nego: val molte squadre un valoroso in cui ponga Giove il suo cor, siccome in questo per lo cui solo onor doma gli Achei. Ma se ascoltando un mal desìo l'offesi, or vo' placarlo, e il presentar di molti onorevoli doni, e a voi qui tutti li dirò: sette tripodi, non anco tocchi dal foco; dieci aurei talenti; due volte tanti splendidi lebeti; dodici velocissimi destrieri usi nel corso a riportarmi i primi premii, e di tanti già mi fêr l'acquisto, che povero per certo e di ricchezze desideroso non sarìa chi tutti li possedesse. Donerogli in oltre di suprema beltà sette captive lesbie donzelle a meraviglia sperte nell'opre di Minerva, e da me stesso trascelte il dì che Lesbo ei prese. A queste aggiungo la rapita a lui poc'anzi Brisëide, e farò giuro solenne ch'unqua il suo letto non calcai. Ciò tutto senza indugio fia pronto. Ove gli Dei ne concedano poscia il porre al fondo la troiana città, primiero ei vada, nel partir delle spoglie, a ricolmarsi d'oro e bronzo le navi, e si trascelga venti bei corpi di dardanie donne dopo l'argiva Elèna le più belle. Di più: se d'Argo riveder n'è dato le care sponde, ei genero sarammi onorato e diletto al par d'Oreste, ch'unico germe a me del miglior sesso ivi s'edùca alle dovizie in seno. Ho di tre figlie nella reggia il fiore, Crisotemi, Laòdice, Ifianassa. Qual più d'esse il talenta a sposa ei prenda senza dotarla, ed a Pelèo la meni. Doterolla io medesmo, e di tal dote qual non s'ebbe giammai altra donzella: sette città, Cardàmile ed Enòpe, le liete di bei prati Ira ed Antèa, l'inclita Fere, Epèa la bella, e Pèdaso d'alme viti feconda: elle son poste tutte quante sul mar verso il confine dell'arenosa Pilo, e dense tutte di cittadini che di greggi e mandre ricchissimi, co' doni al par d'un Dio l'onoreranno, e di tributi opimi faran bello il suo scettro. Ecco di quanto gli farò dono se depor vuol l'ira. Placar si lasci: inesorato è il solo Pluto, e per questo il più abborrito iddio. Rammenti ancora che di grado e d'anni io gli vo sopra; lo rammenti, e ceda. Potentissimo Atride Agamennóne, riprese il veglio cavalier, pregiati sono i doni che appresti al re Pelìde. Senza dunque indugiar alla sua tenda si mandino i legati. Io stesso, o sire, li nomerò, né alcun mi fia ritroso: primamente Fenice, al sommo Giove carissimo mortale, e capo ei sia dell'imbasciata. Il seguirà col grande Aiace il divo Ulisse, e degli araldi n'andran Hodio ed Eurìbate. Frattanto date l'acqua alle mani, e comandate alto silenzio, acciò che salga a Giove la nostra prece, e la pietà ne svegli. Disse; e a tutti fu caro il suo consiglio. Dier le linfe alle mani i banditori; lesti i donzelli coronâr di liete spume le tazze, e le portaro in giro: e libato e gustato a pien talento il devoto licore, uscîr veloci dalla tenda regal gli ambasciadori; e molti avvisi porgea lor per via il buon veglio, girando a ciascheduno, principalmente di Laerte al figlio, le parlanti pupille, e a tentar tutte le vie gli esorta d'ammansar quel fiero. Del risonante mar lungo la riva avviârsi i legati, supplicando dall'imo cor l'Enosigèo Nettunno perché d'Achille la grand'alma ei pieghi. Alle tende venuti ed alle navi de' Mirmidóni, ritrovâr l'eroe che ricreava colla cetra il core, cetra arguta e gentil, che la traversa avea d'argento, e spoglia era del sacco della città d'Eezïon distrutta. Su questa degli eroi le glorïose geste cantando raddolcìa le cure: Solo a rincontro gli sedea Patròclo aspettando la fin del bellicoso canto in silenzio riverente. Ed ecco dall'Itaco precessi all'improvviso avanzarsi i legati, e al suo cospetto rispettosi sostar. Alzasi Achille del vederli stupito, ed abbandona colla cetra lo seggio; alzasi ei pure di Menèzio il buon figlio, e lor porgendo il Pelìde la man, Salvete, ei dice, voi mi giungete assai graditi: al certo vi trae grand'uopo: benché irato, io v'amo sovra tutti gli Achei. - Così dicendo, dentro la tenda interïor li guida, in alti scanni fa sederli sopra porporini tappeti, ed a Patròclo che accanto gli venìa, Recami, disse, o mio diletto, il mio maggior cratere, e mesci del più puro, ed apparecchia il suo nappo a ciascun: sotto il mio tetto oggi entrâr generose anime care. Disse; e Patròclo del suo dolce amico alla voce obbedì. Su l'ignee vampe concavo bronzo di gran seno ei pose, e dentro vi tuffò di pecorella e di scelta capretta i lombi opimi con esso il pingue saporoso tergo di saginato porco. Intenerite così le carni, Automedonte in alto le sollevava; e con forbito acciaro acconciamente le incidea lo stesso divino Achille, e le infiggea ne' spiedi. Destava intanto un grande foco il figlio di Menèzio, e conversi in viva bragia i crepitanti rami, e già del tutto queta la fiamma, delle brage ei fece ardente un letto, e gli schidion vi stese; del sacro sal gli asperse, e tolte alfine dagli alari le carni abbrustolate sul desco le posò; prese di pani un nitido canestro, e su la mensa distribuilli; ma le apposte dapi spartìa lo stesso Achille, assiso in faccia ad Ulisse col tergo alla parete. Ciò fatto, ingiunse al suo diletto amico le sacre offerte ai numi; e quei nel foco le primizie gettò. Stesero tutti allor le mani all'imbandito cibo. Come fur sazi, fe' degli occhi Aiace al buon Fenice un cotal cenno: il vide lo scaltro Ulisse, e ricolmato il nappo, al grande Achille propinollo, e disse: Salve, Achille; poc'anzi entro la tenda d'Atride, ed ora nella tua di lieto cibo noi certo ritroviam dovizia; ma chi di cibo può sentir diletto mentre sul capo ci veggiam pendente un'orrenda sciagura, e sul periglio delle navi si trema? E periranno, se tu, sangue divin, non ti rivesti di tua fortezza, e non ne rechi aita. Gli orgogliosi Troiani e gli alleati imminente all'armata e al nostro muro han posto il campo, e mille fuochi accesi, e fan minaccia d'avanzarsi arditi, e le navi assalir. Giove co' lampi del suo favor gli affida; Ettore i truci occhi volgendo d'ogni parte, e molto delle sue forze altero e del suo Giove, terribilmente infuria, e non rispetta né mortali né Dei (tanto gl'invade furor la mente), e della nuova aurora già le tardanze accusa, e freme, e giura di venirne a schiantar di propria mano delle navi gli aplustri, ed a scagliarvi dentro le fiamme, e incenerirle tutte, e tutti tra le vampe istupiditi ancidere gli Achivi. Or io di forte timor la mente contristar mi sento, che le costui minacce avversi numi non mandino ad effetto, e che non sia delle Parche decreto il dover noi lungi d'Argo perir su queste rive. Ma tu deh! sorgi, e benché tardi, accorri a preservar dall'inimico assalto i desolati Achei. Se gli abbandoni, alto cordoglio un dì n'avrai, né al danno troverai più riparo. A tempo adunque l'antivieni prudente, ed allontana dall'argolica gente il giorno estremo. Ricòrdati, mio caro, i saggi avvisi del tuo padre Pelèo, quando di Ftia invïotti all'Atride. Amato figlio, (il buon vecchio dicea) Minerva e Giuno, se fia lor grado, ti daran fortezza; ma tu nel petto il cor superbo affrena, ché cor più bello è il mansueto; e tienti (onde più sempre e giovani e canuti t'onorino gli Achei), tienti remoto dalla feconda d'ogni mal Contesa. Questi del veglio i bei ricordi fûro: tu gli obblïasti. Ten sovvenga adesso, e la trista una volta ira deponi. Ti sarà, se lo fai, largo di cari doni l'Atride. Nella tenda ei dianzi l'impromessa ne fece: odili tutti. Sette tripodi intatti, e dieci d'oro talenti, e venti splendidi lebeti; dodici velocissimi destrieri usi nel corso a riportarne i primi premii, e già tanti n'acquistâr, che brama più di ricchezze non avrìa chi tutti li possedesse. Ti largisce inoltre sette d'alma beltà lesbie donzelle d'ago esperte e di spola, e da lui stesso per lor suprema leggiadrìa trascelte il dì che Lesbo tu espugnavi. A queste la figlia aggiunge di Brisèo, giurando che intatta, o prence, la ti rende. E tutte pronte son queste cose. Ove poi Troia ne sia dato atterrar, tu primo andrai, nel partir della preda, a ricolmarti d'oro e di bronzo i tuoi navigli, e dieci captive e dieci ti scerrai tenute dopo l'Argiva Elèna le più belle. Di più: se d'Argo rivedrem le rive, tu genero sarai del grande Atride, e in onoranza e nella copia accolto d'ogni cara dovizia al par del suo unico Oreste. Delle tre che il fanno beato genitor alme fanciulle, Crisotemi, Laòdice, Ifianassa, prendi quale vorrai senza dotarla. Doteralla lo stesso Agamennóne di tanta dote e tal, ch'altra giammai regal donzella la simìl non s'ebbe; sette città, Cardamile ed Enòpe, Ira, Pedaso, Antèa, Fere ed Epèa, tutte belle marittime contrade verso il pilio confin, tutte frequenti d'abitatori, a cui di molte mandre s'alza il muggito, e che di bei tributi t'onoreranno al par d'un Dio. Ciò tutto daratti Atride, se lo sdegno acqueti. Ché se lui sempre e i suoi presenti abborri, abbi almeno pietà degli altri Achei là nelle tende costernati e chiusi, che t'avranno qual nume, ed alle stelle la tua gloria alzeran. Vien dunque, e spegni questo Ettòr che furente a te si para, e vanta che nessun di quanti Achivi qua navigaro, di valor l'eguaglia. Divino senno, Laerzìade Ulisse, rispose Achille, senza velo, e quali il cor li detta e proveralli il fatto, m'è d'uopo palesar dell'alma i sensi, onde cessiate di garrirmi intorno. Odio al par della porte atre di Pluto colui ch'altro ha sul labbro, altro nel core: ma ben io dirò netto il mio pensiero. Né il grande Atride Agamennón, né alcuno me degli Achivi piegherà. Qual prezzo, qual ricompensa delle assidue pugne? Di chi poltrisce e di chi suda in guerra qui s'uguaglia la sorte: il vile usurpa l'onor del prode, e una medesma tomba l'infingardo riceve e l'operoso. Ed io che tanto travagliai, che a tanti rischi di Marte la mia vita esposi, che guadagni, per dio, che guiderdone su gli altri ottenni? In vero il meschinello augel son io, che d'esca i suoi provvede piccioli implumi, e sé medesmo obblìa. Quante, senza dar sonno alle palpèbre, trascorse notti! quanti giorni avvolto in sanguinose pugne ho combattuto per le ree mogli di costor! Conquisi guerreggiando sul mar dodici altere cittadi; ne conquisi undici a piede dintorno ai campi d'Ilïon; da tutte molte asportai pregiate spoglie, e tutte all'Atride le cessi, a lui che inerte rimasto indietro, nell'avare navi le ricevea superbo, e dividendo altrui lo peggio riserbossi il meglio; o s'alcun dono agli altri duci ei fenne, nol si ritolse almeno. Io sol del mio premio fui spoglio, io solo; egli la donna del mio cor si ritiene, e ne gioisce. A che mai questa degli Achei co' Teucri cotanta guerra? a che raccolse Atride qui tant'armi? Non forse per la bella Elena? Ma l'amor delle consorti tocca egli forse il cor de' soli Atridi? Ogni buono, ogni saggio ama la sua, e tienla in pregio, siccom'io costei carissima al mio cor, quantunque ancella. Or ch'egli dalle man la mi rapìo con fatto iniquo, di piegar non tenti me da sue frodi ammaestrato assai. Teco, Ulisse, e co' suoi re tanti ei dunque consulti il modo di sottrar l'armata alle fiamme nemiche. E quale ha d'uopo ei del mio braccio? Senza me già fece di gran cose. Innalzato ha un alto muro, lungo il muro ha scavato un largo e cupo fosso, e nel fosso un gran palizzo infisse. Mirabil opra! che dal fiero Ettorre nol fa sicuro ancor, da quell'Ettorre che, mentre io parvi fra gli Achei, scostarsi non ardìa dalle mura, o non giugnea che sino al faggio delle porte Scee. Sola una volta ei là m'attese, e a stento poté sottrarsi all'asta mia. Ma nullo più conflitto vogl'io con quel guerriero, nullo: e offerti dimani al sommo Giove e agli altri numi i sacrifici, e tratte tutte nel mare le mie carche navi, sì, dimani vedrai, se te ne cale, coll'aurora spiegar sull'Ellesponto i miei legni le vele, ed esultanti tutte di lieti remator le sponde. Se di prospero corso il buon Nettunno cortese mi sarà, la terza luce di Ftia porrammi su la dolce riva. Ivi molta lasciai propria ricchezza qua venendo in mal punto, ivi molt'altra ne reco in oro, e in fulvo rame, e in terso splendido ferro e in eleganti donne, tutto tesoro a me sortito. Il solo premio ne manca che mi diè l'Atride, e re villano mel ritolse ei poscia. Torna dunque all'ingrato, e gli riporta tutto che dico, e a tutti in faccia, ond'anco negli altri Achei si svegli una giust'ira e un avvisato diffidar dell'arti di quel franco impudente, che pur tale non ardirebbe di mirarmi in fronte. Digli che a parte non verrò giammai né di fatto con lui né di consiglio; che mi deluse; che mi fece oltraggio; che gli basti l'aver tanto potuto sola una volta, e che mal fonda in vane ciance la speme d'un secondo inganno. Digli che senza più turbarmi corra alla ruina a cui l'incalza Giove che di senno il privò: digli che abborro suoi doni, e spregio come vil mancipio il donator. Né s'egli e dieci e venti volte gli addoppii, né se tutto ei m'offra ciò ch'or possiede, e ciò ch'un dì venirgli potrìa d'altronde, e quante entran ricchezze in Orcomèno e nell'egizia Tebe per le cento sue porte e li dugento aurighi co' lor carri a ciascheduna; mi fosse ei largo di tant'oro alfine quanto di sabbia e polve si calpesta, né così pur si speri Agamennóne la mia mente inchinar prima che tutto pagato ei m'abbia dell'offesa il fio. Non vo' la figlia di costui. Foss'ella pari a Minerva nell'ingegno, e il vanto di beltà contendesse a Citerea, non prenderolla in mia consorte io mai. Serbila ad altro Acheo che al grand'Atride più di grado s'adegui e di possanza. A me, se salvo raddurranmi i numi al patrio tetto, a me scerrà lo stesso Pelèo lo sposa. Han molte Ellade e Ftia figlie di regi assai possenti: e quale di lor vorrò, legittima e diletta moglie farolla, e mi godrò con essa nella pace, a cui stanco il cor sospira, il paterno retaggio. E parmi in vero che di mia vita non pareggi il prezzo né tutta l'opulenza in Ilio accolta pria della giunta degli Achei, né quanto tesor si chiude nel marmoreo templo del saettante Apollo in sul petroso balzo di Pito. Racquistar si ponno e tripodi e cavalli e armenti e greggi; ma l'alma, che passò del labbro il varco, chi la racquista? chi del freddo petto la riconduce a ravvivar la fiamma? Meco io porto (la Dea madre mel dice) doppio fato di morte. Se qui resto a pugnar sotto Troia, al patrio lido m'è tolto il ritornar, ma d'immortale gloria l'acquisto mi farò. Se riedo al dolce suol natìo, perdo la bella gloria, ma il fiore de' miei dì non fia tronco da morte innanzi tempo, ed io lieta godrommi e dïuturna vita. Questa m'eleggo, e gli altri tutti esorto a rimbarcarsi e abbandonar di Troia l'impossibil conquista. Il Dio de' tuoni su lei stese la mano, e rincorârsi i suoi guerrieri. Itene adunque, e come di legati è dover, le mie risposte ai prenci achivi riferendo, dite che a preservar le navi e il campo argivo lor fa mestiero ruminar novello miglior partito, ché il già preso è vano. Inesorata è l'ira mia. Fenice qui rimanga e riposi: al nuovo giorno seguirammi, se il vuole, alla diletta patria. Di forza nol trarrò giammai. Disse: e l'alto parlare e l'aspro niego tutti li fece sbalorditi e muti. Ruppe alfin quel silenzio il cavaliero veglio Fenice, e sul destin tremando delle argoliche navi, ed ai sospiri mescendo i pianti, così prese a dire: Se in tuo pensiero è fissa, inclito Achille, la tua partenza, se nell'ira immoto di niuna guisa allontanar non vuoi gli ostili incendii dalla classe achea, come, ahi come poss'io, diletto figlio, qui restar senza te? Teco mandommi il tuo canuto genitor Pelèo quel giorno che all'Atride Agamennóne invïotti da Ftia, fanciullo ancora dell'arte ignaro dell'acerba guerra, e dell'arte del dir che fama acquista. Quindi ei teco spedimmi, onde di questi studi erudirti, e farmi a te nell'opre della lingua maestro e della mano. A niun conto vorrei dunque, mio caro, dispiccarmi da te, no, s'anco un Dio, rasa la mia vecchiezza, mi prometta rinverdir le mie membra, e ritornarmi giovinetto qual era allor che il suolo d'Ellade abbandonai, l'ira fuggendo e un atroce imprecar del padre mio Amintore d'Orméno. Era di questa ira cagione un'avvenente druda ch'egli, sprezzata la consorte, amava follemente. Abbracciò le mie ginocchia la tradita mia madre, e supplicommi di mischiarmi in amor colla rivale, e porle in odio il vecchio amante. Il feci. Reso accorto di questo il genitore, mi maledisse, ed invocò sul mio capo l'orrendi Eumenidi, pregando che mai concesso non mi fosse il porre sul suo ginocchio un figlio mio. L'udiro il sotterraneo Giove e la spietata Proserpina, e il feral voto fu pieno. Carco allor della sacra ira del padre, non mi sofferse il cor di più restarmi nelle case paterne. E servi e amici e congiunti mi fean con caldi preghi dolce ritegno, ed in allegre mense stornar volendo il mio pensier, si diero a far macco d'agnelle e di torelli, a rosolar sul foco i saginati lombi suìni, a tracannar del veglio l'anfore in serbo. Nove notti al fianco mi fur essi così con veglie alterne e con perpetui fuochi, un sotto il portico del ben chiuso cortil, l'altro alle soglie della mia stanza nell'andron. Ma quando della decima notte il buio venne, l'uscio sconfissi, e della stanza evaso varcai d'un salto della corte il muro, né de' custodi alcun né dell'ancelle di mia fuga s'avvide. Errai gran pezza per l'ellade contrada, e giunto ai campi della feconda pecorosa Ftia, trassi al cospetto di Pelèo. M'accolse lietamente il buon sire, e mi dilesse come un padre il figliuol ch'unico in largo aver gli nasca nell'età canuta: e di popolo molto e di molt'oro fattomi ricco, l'ultimo confine di Ftia mi diede ad abitar, commesso de' Dolopi il governo alla mia cura. Son io, divino Achille, io mi son quegli che ti crebbi qual sei, che caramente t'amai; né tu volevi bambinello ir con altri alla mensa, né vivanda domestica gustar, ov'io non pria adagiato t'avessi e carezzato su' miei ginocchi, minuzzando il cibo, e porgendo la beva che dal labbro infantil traboccando a me sovente irrigava sul petto il vestimento. Così molto soffersi a tua cagione, e consolava le mie pene il dolce pensier che, i numi a me negando un figlio generato da me, tu mi saresti tal per amore divenuto, e tale m'avresti salvo un dì da ria sciagura. Doma dunque, cor mio, doma l'altero tuo spirto: disconviene una spietata anima a te che rassomigli i numi: ché i numi stessi, sì di noi più grandi d'onor, di forza, di virtù, son miti; e con vittime e voti e libamenti e odorosi olocausti il supplicante mortal li placa nell'error caduto. Perocché del gran Giove alme figliuole son le Preghiere che dal pianto fatte rugose e losche con incerto passo van dietro ad Ate ad emendarla intese. Vigorosa di piè questa nocente forte Dea le precorre, e discorrendo la terra tutta l'uman germe offende. Esse van dopo, e degli offesi han cura. Chi dispettoso queste Dee riceve, ne va colmo di beni ed esaudito; chi pertinace le respinge indietro, ne spermenta lo sdegno. Esse del padre si presentano al trono, e gli fan prego ch'Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti l'inesorato che al pregar fu sordo. Trovin dunque di Giove oggi le figlie appo te quell'onor ch'anco de' forti piega le menti. Se al tuo piè di molti doni l'offerta non mettesse Atride coll'impromessa di molt'altri poscia, e persistesse in suo rancor, non io t'esorterei di por giù l'ira, e all'uopo degli Achivi volar, comunque afflitti; ma molti di presente egli ne porge, ed altri poi ne profferisce, e i duci miglior trascelti tra gli Achei t'invìa, e a te stesso i più cari a supplicarti. Non disprezzarne la venuta e i preghi, onde l'ira, che pria giusta pur era, non torni ingiusta. Degli andati eroi somma laude fu questa, allor che grave li possedea corruccio, alle preghiere placarsi, né sdegnar supplici doni. Opportuno sovviemmi un fatto antico, che quale avvenne io qui fra tutti amici narrerò. Combattean ferocemente con gli Etòli i Cureti anzi alle mura di Calidone, ad espugnarla questi, a difenderla quelli; e gli uni e gli altri, gente d'alto valor, con mutue stragi si distruggean. Commossa avea tal guerra di Dïana uno sdegno, e del suo sdegno fu la cagione Enèo che, de' suoi campi terminata la messe, e offerti ai numi i consueti sacrifici, sola (fosse spregio od obblìo) lasciato avea senza offerte la Diva. Ella di questo altamente adirata un fero spinse cinghial d'Enèo ne' campi, che tremendo tutte atterrava col fulmineo dente le fruttifere piante. Il forte Enìde Meleagro alla fin, dalle propinque città raccolto molto nerbo avendo di cacciatori e cani, a morte il mise; né minor forza si chiedea: tant'era smisurata la belva, e tanti al rogo n'avea sospinti. Ma la Dea pel teschio e per la pelle dell'irsuta fera tra i Cureti e gli Etòli una gran lite suscitò. Finché in campo il bellicoso Meleagro comparve, andâr disfatti, benché molti, i Cureti, e approssimarse unqua alle mura non potean. Ma l'ira, che anche i più saggi invade, il petto accese di Meleagro, e la destò la madre Altèa che, forte pe' fratelli uccisi crucciosa, il figlio maledisse, e il suolo colle man percotendo inginocchiata e forsennata con orrendi preghi di gran pianto confusi il negro Pluto supplicava e la rigida mogliera di dar morte all'eroe: né dal profondo orco fu sorda l'implacata Erinni. Del materno furor sdegnato il figlio lungi dall'armi si ritrasse in braccio alla bella consorte Cleopatra, di Marpissa Evenina e del possente Ida figliuola, di quell'Ida io dico che tra' guerrieri de' suoi tempi il grido di fortissimo avea, tanto che contra lo stesso Apollo per la tolta ninfa ardì l'arco impugnar. Mutato poscia di Cleopatra il nome, i genitori la chiamaro Alcïon, perché simìle alla mesta Alcïon gemea la madre quando rapilla il saettante Iddio. Con gran furore intanto eran le porte di Calidone e le turrite mura combattute e percosse. Eletta schiera di venerandi vegli e sacerdoti a Meleagro deputati il prega di venir, di respingere il nemico, a sua scelta offerendo di cinquanta iugeri il dono, del miglior terreno di tutto il caledonio almo paese, parte alle viti acconcio e parte al solco. Molto egli pure il genitor lo prega, dell'adirato figlio alle sublimi soglie traendo il senil fianco, e in voce supplicante del talamo picchiando alle sbarrate porte. Anche le suore, anche la madre già pentita orando chiedean mercede; ed ei più fermo ognora la ricusava. Accorsero gli amici i più cari e diletti; e su quel core nulla poteva degli amici il prego: finché le porte da sonori e spessi colpi battute, lo fêr certo alfine che scalate i Cureti avean le mura, e messo il foco alla città. Piangente la sua bella consorte allor si fece a deprecarlo, ed alla mente tutti d'una presa città gli orrendi mali gli dipinse: trafitti i cittadini, arse le case, ed in catene i figli strascinati e le spose. Si commosse all'atroce pensier l'alma superba, prese l'armi, volò, vinse, e gli Etòli salvò; ma solo dal suo cor sospinto. Quindi alcun dono non ottenne, e il tardo beneficio rimase inonorato. Non imitar cotesto esempio, o figlio, né vi ti spinga demone maligno: ché il soccorso indugiar, finché le navi s'incendano, maggior onta sarìa. Vieni, imita gli Dei, gli offerti doni non disdegnar. Se li dispregi, e poscia volontario combatti, egual non fia, benché ritorni vincitor, l'onore. Qui tacque il veglio, e brevemente Achille in questi detti replicò: Fenice, caro alunno di Giove, ed a me caro padre, di questo onor non ho bisogno. L'onor ch'io cerco mi verrà da Giove, e qui pure davanti a queste antenne l'avrò fin che vitale aura mi spiri, fin che il piè mi sorregga. Altra or vo' dirti cosa che in mente riporrai. Per farti grato all'Atride non venir con pianti né con lagni a turbarmi il cor più mai. Non amar contra il giusto il mio nemico, se l'amor mio t'è caro, e meco offendi chi m'offende, ché questo ti sta meglio. Del mio regno partecipa, e diviso sia teco ogni onor mio. Riporteranno questi le mie risposte, e tu qui dormi sovra morbido letto. Al nuovo sole consulterem se starci, o andar si debba. Disse; e a Patròclo fe' degli occhi un cenno d'allestire al buon veglio un colmo letto, onde gli altri a lasciar tosto la tenda volgessero il pensiero. In questo mezzo vòlto ad Ulisse il gran Telamonìde, Partiam, diss'egli, ché per questa via parmi che vano il ragionar rïesca. Benché ingrata, n'è forza il recar pronti la risposta agli Achei, che impazïenti, e forse ancora in assemblea seduti l'attendono. Feroce alma superba chiude Achille nel petto: indegnamente l'amistà de' compagni egli calpesta, né ricorda l'onor che gli rendemmo su gli altri tutti. Dispietato! Il prezzo qualcuno accetta dell'ucciso figlio, o del fratello; e l'uccisor, pagata del suo fallo la pena, in una stessa città dimora col placato offeso. Ma inesorata ed indomata è l'ira che a te pose nel petto un dio nemico; per chi? per una donzelletta! e sette noi te n'offriamo a maraviglia belle, e molt'altre più cose. Or via, rivesti cor benigno una volta. Abbi rispetto ai santi dritti dell'ospizio almeno, ch'ospiti tuoi noi siamo, e dal consesso degli Achei ne venimmo, a te fra tutti i più cari ed amici. - Illustre figlio di Telamone, gli rispose Achille, ottimo io sento il tuo parlar; ma l'ira mi rigonfia qualor penso a colui che in mezzo degli Achei mi vilipese come un vil vagabondo. Andate, e netta la risposta ridite. Alcun pensiero non tenterammi di pugnar, se prima il Prïamìde bellicoso Ettorre fino al quartier de' Mirmidoni il foco e la strage non porti. Ov'egli ardisca assalir questa tenda e questa nave, saprò la furia rintuzzarne, io spero. Sì disse; e quegli, alzato il nappo e fatta la libagion, partîrsi; e taciturno li precedeva di Laerte il figlio. A' suoi sergenti intanto ed all'ancelle Patroclo impone d'apprestar veloci soffice letto al buon Fenice; e pronte quelle obbedendo steser d'agnelline pelli uno strato, vi spiegâr di sopra di finissimo lino una sottile candida tela, e su la tela un'ampia purpurea coltre; e qui ravvolto il vecchio aspettando l'aurora si riposa. Nel chiuso fondo della tenda ei pure ritirossi il Pelìde, ed al suo fianco lesbia fanciulla di Forbante figlia si corcò la gentil Dïomedea. Dormì Patròclo in altra parte, e a lato Ifi gli giacque, un'elegante schiava che il Pelìde donògli il dì che l'alta Sciro egli prese d'Enïeo cittade. Giunti i legati al padiglion d'Atride, sursero tutti e con aurate tazze e affollate dimande i prenci achivi gli accolsero. Primiero interrogolli il re de' forti Agamennón: Preclaro della Grecia splendor, inclito Ulisse, parla: vuol egli dalle fiamme ostili servar l'armata? o d'ira ancor ripieno il cor superbo, di venir ricusa? Glorïoso signor, rispose il saggio di Laerte figliuol, non che gli sdegni ammorzar, li raccende egli più sempre, e te dispregia e i tuoi presenti, e dice che del come salvar le navi e il campo co' duci achivi ti consulti. Aggiunse poi la minaccia, che il novello sole varar vedrallo le sue navi; e gli altri a rimbarcarsi esorta, ché dell'alto Ilio l'occaso non vedrem, dic'egli, giammai: la mano del Tonante il copre, e rincorârsi i Teucri. Ecco i suoi sensi, che questi a me consorti, il grande Aiace e i saggi araldi confermar ti ponno. Il vegliardo Fenice è là rimasto per suo cenno a dormir, onde dimani seguitarlo, se il vuole, al patrio lido: non farà forza al suo voler, se il niega. D'alto stupor percossi alla feroce risposta, tutti ammutoliro i duci, e lunga pezza taciturni e mesti si restâr. Finalmente in questi detti proruppe il fiero Dïomede: Eccelso sire de' prodi, glorïoso Atride, non avessi tu mai né supplicato né fatta offerta di cotanti doni all'altero Pelìde. Era superbo egli già per se stesso; or tu n'hai fatto montar l'orgoglio più d'assai. Ma vada, o rimanga, di lui non più parole. Lasciam che il proprio genio, o qualche iddio lo ridesti alla pugna. Or secondiamo tutti il mio dir. Di cibo e di lïeo, fonte d'ogni vigor, vi ristorate, e nel sonno immergete ogni pensiero. Tosto che schiuda del mattin le porte il roseo dito della bella Aurora, metti in punto, o gran re, fanti e cavalli nanzi alle navi, e a ben pugnar gl'istiga, e combatti tu stesso alla lor testa. Disse, e tutti applaudîr lodando a cielo l'alto parlar di Dïomede i regi; e fatti i libamenti, alla sua tenda s'incamminò ciascuno. Ivi le stanche membra accolser del sonno il dolce dono. LIBRO DECIMO Tutti per l'alta notte i duci achei dormìan sul lido in sopor molle avvinti; ma non l'Atride Agamennón, cui molti toglieano il dolce sonno aspri pensieri. Quale il marito di Giunon lampeggia quando prepara una gran piova o grandine, o folta neve ad inalbare i campi, o fracasso di guerra voratrice; spessi così dal sen d'Agamennóne rompevano i sospiri, e il cor tremava. Volge lo sguardo alle troiane tende, e stupisce mirando i molti fuochi ch'ardon dinanzi ad Ilio, e non ascolta che di tibie la voce e di sampogne e festivo fragor. Ma quando il campo acheo contempla ed il tacente lido, svellesi il crine, al ciel si lagna, ed alto geme il cor generoso. Alfin gli parve questo il miglior consiglio, ir del Nelìde Nestore in traccia a consultarne il senno, onde qualcuna divisar con esso via di salute alla fortuna achea. Alzasi in questa mente, intorno al petto la tunica s'avvolge, ed imprigiona ne' bei calzari il piede. Indi una fulva pelle s'indossa di leon, che larga gli discende al calcagno, e l'asta impugna. Né di minor sgomento a Menelao palpita il petto; e fura agli occhi il sonno l'egro pensier de' periglianti Achivi, che a sua cagione avean per tanto mare portato ad Ilio temeraria guerra. Sul largo dosso gittasi veloce una di pardo maculata pelle, ponsi l'elmo alla fronte, e via brandito il giavellotto, a risvegliar s'affretta l'onorato, qual nume, e dagli Argivi tutti obbedito imperador germano; ed alla poppa della nave il trova che le bell'armi in fretta si vestìa. Grato ei n'ebbe l'arrivo: e Menelao a lui primiero, Perché t'armi, disse, venerando fratello? Alcun vuoi forse mandar de' nostri esplorator notturno al campo de' Troiani? Assai tem'io che alcuno imprenda d'arrischiarsi solo per lo buio a spïar l'oste nemica, ché molta vuolsi audacia a tanta impresa. Rispose Agamennón: Fratello, è d'uopo di prudenza ad entrambi e di consiglio che gli Argivi ne scampi e queste navi, or che di Giove si voltò la mente, e d'Ettore ha preferti i sacrifici: ch'io né vidi giammai né d'altri intesi, che un solo in un sol dì tanti potesse forti fatti operar quanti il valore di questo Ettorre a nostro danno; e a lui non fu madre una Dea, né padre un Dio: e temo io ben che lungamente afflitti di tanto strazio piangeran gli Achivi. Or tu vanne, e d'Aiace e Idomenèo ratto vola alle navi, e li risveglia, ché a Nestore io ne vado ad esortarlo di tosto alzarsi e di seguirmi al sacro stuol delle guardie, e comandarle. A lui presteran più che ad altri obbedïenza: perocché delle guardie è capitano Trasimède suo figlio, e Merïone d'Idomenèo l'amico, a' quai commesso è delle scolte il principal pensiero. E che poi mi prescrive il tuo comando? (replicò Menelao). Degg'io con essi restarmi ad aspettar la tua venuta? O, fatta l'imbasciata, a te veloce tornar? - Rimanti, Agamennón ripiglia, tu rimanti colà, ché disvïarci nell'andar ne potrìan le molte strade onde il campo è interrotto. Ovunque intanto t'avvegna di passar leva la voce, raccomanda le veglie, ognun col nome chiama del padre e della stirpe, a tutti largo ti mostra d'onoranze, e poni l'alterezza in obblìo. Prendiam con gli altri parte noi stessi alla comun fatica, perché Giove noi pur fin dalla cuna, benché regi, gravò d'alte sventure. Così dicendo, in via mise il fratello di tutto l'uopo ammaestrato; ed esso a Nestore avvïossi. Ritrovollo davanti alla sua nave entro la tenda corco in morbido letto. A sé vicine armi diverse avea, lo scudo e due lung'aste e il lucid'elmo; e non lontana giacea di vario lavorìo la cinta, di che il buon veglio si fasciava il fianco quando a battaglie sanguinose armato le sue schiere movea; ché non ancora alla triste vecchiezza egli perdona. All'apparir d'Atride erto ei rizzossi sul cubito, e levata alto la fronte, l'interrogò dicendo: E chi sei tu che pel campo ne vieni a queste navi così soletto per la notte oscura, mentre gli altri mortali han tregua e sonno? Forse alcun de' veglianti o de' compagni vai rintracciando? Parla, e taciturno non appressarti: che ricerchi? - E a lui il regnatore Atride: Oh degli Achei inclita luce, Nestore Nelìde, Agamennón son io, cui Giove opprime d'infinito travaglio, e fia che duri finché avrà spirto il petto e moto il piede. Vagabondo ne vo poiché dal ciglio fuggemi il sonno, e il rio pensier mi grava di questa guerra e della clade achea. De' Danai il rischio mi spaventa: inferma stupidisce la mente, il cor mi fugge da' suoi ripari, e tremebondo è il piede. Tu se cosa ne mediti che giovi (quando il sonno s'invola anco a' tuoi lumi), sorgi, e alle guardie discendiam. Veggiamo se da veglia stancate e da fatica siensi date al dormir, posta in obblìo la vigilanza. Del nemico il campo non è lontano, né sappiam s'ei voglia pur di notte tentar qualche conflitto. Disse; e il gerenio cavalier rispose: Agamennóne glorïoso Atride, non tutti adempirà Giove pietoso i disegni d'Ettore e le speranze. Ben più vero cred'io che molti affanni sudar d'ambascia gli faran la fronte se desterassi Achille, e la tenace ira funesta scuoterà dal petto. Or io volonteroso ecco ti seguo: andianne, risvegliam dal sonno i duci Dïomede ed Ulisse, ed il veloce Aiace d'Oilèo, e di Filèo il forte figlio; e si spedisca intanto alcun di tutta fretta a richiamarne pur l'altro Aiace e Idomenèo che lungi agli estremi del campo hanno le navi. Ma quanto a Menelao, benché ne sia d'onor degno ed amico, io non terrommi di rampognarlo (ancor che debba il franco mio parlare adirarti), e vergognarlo farò del suo poltrir, tutte lasciando a te le cure, or ch'è mestier di ressa con tutti i duci e d'ogni umìl preghiera, come crudel necessità dimanda. Ben altra volta (Agamennón rispose) ti pregai d'ammonirlo, o saggio antico, ché spesso ei posa, e di fatica è schivo; per pigrezza non già, né per difetto d'accorta mente, ma perché miei cenni meglio aspettar che antivenirli ei crede. Pur questa volta mi precorse, e innanzi mi comparve improvviso, ed io l'ho spinto a chiamarne i guerrieri che tu cerchi. Andiam, ché tutti fra le guardie, avanti alle porte del vallo congregati li troverem; ché tale è il mio comando. E Nèstore a rincontro: Or degli Achei niun ritroso a lui fia né disdegnoso, o comandi od esorti. - In questo dire la tunica s'avvolse intorno al petto; al terso piede i bei calzari annoda; quindi un'ampia s'affibbia e porporina clamide doppia, in cui fiorìa la felpa. Poi recossi alla man l'acuta e salda lancia, e verso le navi incamminossi de' loricati Achivi. E primamente svegliò dal sonno il sapïente Ulisse elevando la voce: e a lui quel grido ferì l'orecchio appena, che veloce della tenda n'uscì con questi accenti: Chi siete che soletti errando andate presso le navi per la dolce notte? Qual vi spinge bisogno? - O di Laerte magnanimo figliuol, prudente Ulisse, (gli rispose di Pilo il cavaliero) non isdegnarti, e del dolor ti caglia de' travagliati Achei: vieni, che un altro svegliarne è d'uopo, e consultar con esso o la fuga o la pugna. - A questo detto rïentrò l'Itacense nella tenda, sul tergo si gittò lo scudo, e venne. Proseguiro il cammin quindi alla volta di Dïomede, e lo trovâr di tutte l'armi vestito, e fuor del padiglione. Gli dormìano dintorno i suoi guerrieri profondamente, e degli scudi al capo s'avean fatto origlier. Fitto nel suolo stassi il calce dell'aste, e il ferro in cima mette splendor da lungi, a simiglianza del baleno di Giove. Esso l'eroe di bue selvaggio sulla dura pelle dormìa disteso, ma purpureo e ricco sotto il capo regale era un tappeto. Giuntogli sopra, il cavalier toccollo colla punta del piè, lo spinse, e forte garrendo lo destò. Sorgi, Tidìde; perché ne sfiori tutta notte il sonno? Non odi che i Troiani in campo stanno sovra il colle propinquo, e che disgiunti di poco spazio dalle navi ei sono? Disse; e quei si destò balzando in piedi veloce come lampo, e a lui rivolto con questi accenti rispondea: Sei troppo delle fatiche tollerante, o veglio, né ozïoso giammai. A risvegliarne di quest'ora i re duci inopia forse v'ha di giovani achei pronti alla ronda? Ma tu sei veglio infaticato e strano. E Nestore di nuovo: Illustre amico, tu verace parlasti e generoso. Padre io mi son d'egregi figli, e duce di molti prodi che potrìan le veci pur d'araldo adempir. Ma grande or preme necessità gli Achivi, e morte e vita stanno sul taglio della spada. Or vanne tu che giovine sei, vanne, e il veloce chiamami Aiace e di Filèo la prole, se pietà senti del mio tardo piede. Così parla il vegliardo. E Dïomede sull'omero si getta una rossiccia capace pelle di lïon, cadente fino al tallone ed una picca impugna. Andò l'eroe, volò, dal sonno entrambi li destò, li condusse; e tutti in gruppo s'avvïar delle guardie alle caterve: né delle guardie abbandonato al sonno duce alcuno trovâr, ma vigilanti tutti ed armati e in compagnia seduti. Come i fidi molossi al pecorile fan travagliosa sentinella udendo calar dal monte una feroce belva e stormir le boscaglie: un gran tumulto s'alza sovr'essa di latrati e gridi, e si rompe ogni sonno: così questi rotto il dolce sopor su le palpebre, notte vegliano amara, ognor del piano alla parte conversi, ove s'udisse nemico calpestìo. Gioinne il veglio, e confortolli e disse: Vigilate così sempre, o miei figli, e non si lasci niun dal sonno allacciar, onde il Troiano di noi non rida. Così detto, il varco passò del fosso, e lo seguièno i regi a consiglio chiamati. A lor s'aggiunse compagno Merïone, e di Nestorre l'inclito figlio, convocati anch'essi alla consulta. Valicato il fosso, fermârsi in loco dalla strage intatto, in quel loco medesmo ove sorgiunto Ettore dalla notte alla crudele uccisïone degli Achei fin pose. Quivi seduti cominciâr la somma a parlar delle cose; e in questi detti Nestore aperse il parlamento: Amici, havvi alcuna tra voi anima ardita e in sé sicura, che furtiva ir voglia de' fier Troiani al campo, onde qualcuno de' nemici vaganti alle trinciere far prigioniero? o tanto andar vicino, che alcun discorso de' Troiani ascolti, e ne scopra il pensier? se sia lor mente qui rimanersi ad assediar le navi, o alla città tornarsi, or che domata han l'achiva possanza? Ei forse tutte potrìa raccor tai cose, e ritornarne salvo ed illeso. D'alta fama al mondo farebbe acquisto, e n'otterrìa bel dono. Quanti son delle navi i capitani gli daranno una negra pecorella coll'agnello alla poppa; e guiderdone alcun altro non v'ha che questo adegui. Poi ne' conviti e ne' banchetti ei fia sempre onorato, desïato e caro. Disse; e tutti restâr pensosi e muti. Ruppe l'alto silenzio il bellicoso Dïomede e parlò: Saggio Nelìde, quell'audace son io: me la fidanza, me l'ardir persuade al gran periglio d'insinuarmi nel dardanio campo. Ma se meco verranne altro guerriero, securtà crescerammi ed ardimento. Se due ne vanno di conserva, l'uno fa l'altro accorto del miglior partito. Ma d'un solo, sebben veggente e prode, tardo è il coraggio e debole il consiglio. Disse: e molti volean di Dïomede ir compagni: il volean ambo gli Aiaci, il volea Merïon: più ch'altri il figlio di Nestore il volea: chiedealo anch'esso l'Atride Menelao: chiedea del pari penetrar ne' troiani accampamenti il forte Ulisse: perocché nel petto sempre il cor gli volgea le ardite imprese. Mosse allor le parole il grande Atride. Diletto Dïomede, a tuo talento un compagno ti scegli a sì grand'uopo, qual ti sembra il miglior. Molti ne vedi presti a seguirti; né verun rispetto la tua scelta governi, onde non sia che lasciato il miglior, pigli il peggiore; né ti freni pudor, né riverenza di lignaggio, né s'altri è re più grande. Così parlava, del fratello amato paventando il periglio: e fea risposta Dïomede così: Se d'un compagno mi comandate a senno mio l'eletta, come scordarmi del divino Ulisse, di cui provato è il cor, l'alma costante nelle fatiche, e che di Palla è amore? S'ei meco ne verrà, di mezzo ancora alle fiamme uscirem; cotanto è saggio. Non mi lodar né mi biasmar, Tidìde, soverchiamente (gli rispose Ulisse), ché tu parli nel mezzo ai consci Argivi. Partiam: la notte se ne va veloce, delle stelle il languir l'alba n'avvisa, né dell'ombre riman che il terzo appena. D'armi orrende, ciò detto, si vestiro. A Dïomede, che il suo brando avea obblïato alle navi, altro ne diede di doppio taglio, ed il suo proprio scudo il forte Trasimede. Indi alla fronte una celata gli adattò di cuoio taurin compatta, senza cono e cresta, che barbuta si noma, e copre il capo de' giovinetti. Merïone a gara d'una spada, d'un arco e d'un turcasso ad Ulisse fe' dono, e su la testa un morïon gli pose aspro di pelle, da molte lasse nell'interno tutto saldamente frenato, e nel di fuore di bianchissimi denti rivestito di zannuto cinghial, tutti in ghirlanda con vago lavorìo disposti e folti. Grosso feltro il cucuzzolo guarnìa. L'avea furato in Eleona un giorno Autolico ad Amìntore d'Ormeno, della casa rompendo i saldi muri; quindi il ladro in Scandea diello al Citèrio Amfidamante; Amfidamante a Molo ospital donamento, e questi poscia al figlio Merïon, che su la fronte alfin lo pose dell'astuto Ulisse. Racchiusi nelle orrende arme gli eroi partîr, lasciando in quel recesso i duci. E da man destra intanto su la via spedì loro Minerva un aïrone. Né già questi il vedean, ché agli occhi il vieta la cieca notte, ma n'udìan lo strido. Di quell'augurio l'Itacense allegro a Minerva drizzò questa preghiera: Odimi, o figlia dell'Egìoco Giove, che l'opre mie del tuo nume proteggi, né t'è veruno de' miei passi occulto. Or tu benigna più che prima, o Dea, dell'amor tuo m'affida, e ne concedi glorïoso ritorno e un forte fatto, tale che renda dolorosi i Teucri. Pregò secondo Dïomede, e disse: Di Giove invitta armipotente figlia, odi adesso me pur: fausta mi segui siccome allor che seguitasti a Tebe il mio divino genitor Tidèo, de' loricati Achivi ambasciadore attendati d'Asopo alla riviera. Di placido messaggio egli a' Tebani fu portator; ma fieri fatti ei fece nel suo ritorno col favor tuo solo, ché nume amico gli venivi al fianco. E tu propizia a me pur vieni, o Dea, e salvami. Sull'ara una giovenca ti ferirò d'un anno, ampia la fronte, ancor non doma, ancor del giogo intatta. Questa darotti, e avrà dorato il corno. Così pregaro, e gli esaudìa la Diva. Implorata di Giove la possente figlia Minerva, proseguîr la via quai due lïoni, per la notte oscura, per la strage, per l'armi e pe' cadaveri sparsi in morta di sangue atra laguna. Né d'altra parte ai forti Teucri Ettorre permette il sonno; ma de' prenci e duci chiama tutti i migliori a parlamento; e raccolti, lor apre il suo consiglio. Chi di voi mi promette un'alta impresa per grande premio che il farà contento? Darogli un cocchio, e di cervice altera due corsieri, i miglior dell'oste achea (taccio la fama che n'avrà nel mondo). Questo dono otterrà chiunque ardisca appressarsi alle navi, e cauto esplori se sian, qual pria, guardate, o pur se domo da nostre forze l'inimico or segga a consulta di fuga, e le notturne veglie trascuri affaticato e stanco. Disse, e il silenzio li fe' tutti muti. Era un certo Dolone infra' Troiani, uom che di bronzo e d'oro era possente, figlio d'Eumede banditor famoso, deforme il volto, ma veloce il piede, e fra cinque sirocchie unico e solo. Si trasse innanzi il tristo, e così disse: Ettore, questo cor l'incarco assume d'avvicinarsi a quelle navi, e tutto scoprir. Lo scettro mi solleva e giura che l'èneo cocchio e i corridori istessi del gran Pelìde mi darai: né vano esploratore io ti sarò: né vôta fia la tua speme. Nell'acheo steccato penetrerò, mi spingerò fin dentro l'agamennònia nave, ove a consulta forse i duci si stan di pugna o fuga. Sì disse, e l'altro sollevò lo scettro, e giurò: Testimon Giove mi sia, Giove il tonante di Giunon marito, che da que' bei corsieri altri tirato non verrà de' Troiani, e che tu solo glorïoso n'andrai. - Fu questo il giuro, ma sperso all'aura; e da quel giuro intanto incitato Dolone in su le spalle tosto l'arco gittossi, e la persona della pelle vestì di bigio lupo: poi chiuse il brutto capo entro un elmetto che d'ispida faìna era munito. Impugnò un dardo acuto, ed alle navi, per non più ritornarne apportatore di novelle ad Ettorre, incamminossi. Lasciata de' cavalli e de' pedoni la compagnia, Dolon spedito e snello battea la strada. Se n'accorse Ulisse alla pesta de' piedi, e a Dïomede sommesso favellò: Sento qualcuno venir dal campo, né so dir se spia di nostre navi, o spogliator di morti. Lasciam che via trapassi, e gli saremo ratti alle spalle, e il piglierem. Se avvegna ch'ei di corso ne vinca, tu coll'asta indefesso l'incalza, e verso il lido serralo sì, che alla città non fugga. Uscîr di via, ciò detto, e s'appiattaro tra' morti corpi; ed egli incauto e celere oltrepassò. Ma lontanato appena, quanto è un solco di mule (che de' buoi traggono meglio il ben connesso aratro nel profondo maggese), gli fur sopra: ed egli, udito il calpestìo, ristette, qualcun sperando che de' suoi venisse per comando d'Ettorre a richiamarlo. Ma giunti d'asta al tiro e ancor più presso, li conobbe nemici. Allor dier lesti l'uno alla fuga il piè, gli altri alla caccia. Quai due d'aguzzo dente esperti bracchi o lepre o caprïol pel bosco incalzano senza dar posa, ed ei precorre e bela; tali Ulisse e il Tidìde all'infelice si stringono inseguendo, e precidendo sempre ogni scampo. E già nel suo fuggire verso le navi sul momento egli era di mischiarsi alle guardie, allor che lena crebbe Minerva e forza a Dïomede, onde niun degli Achei vanto si desse di ferirlo primiero, egli secondo. Alza l'asta l'eroe, Ferma, gridando, o ch'io di lancia ti raggiungo e uccido. Vibra il telo in ciò dir, ma vibra in fallo a bello studio: gli strisciò la punta l'omero destro e conficcossi in terra. Ristette il fuggitivo, e di paura smorto tremando, della bocca uscìa stridor di denti che batteano insieme. L'aggiungono anelanti i due guerrieri, l'afferrano alle mani, ed ei piangendo grida: Salvate questa vita, ed io riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa d'oro, di rame e lavorato ferro. Di questi il padre mio, se nelle navi vivo mi sappia degli Achei, faravvi per la mia libertà dono infinito. Via, fa cor, rispondea lo scaltro Ulisse, né veruno di morte abbi sospetto, ma dinne, e sii verace: Ed a qual fine dal campo te ne vai verso le navi tutto solingo pel notturno buio mentre ogni altro mortal nel sonno ha posa? A spogliar forse estinti corpi? o forse Ettor ti manda ad ispïar de' Greci i navili, i pensieri, i portamenti? O tuo genio ti mena e tuo diletto? E a lui tremante di terror Dolone: Misero! mi travolse Ettore il senno, e in gran disastro mi cacciò, giurando che in don m'avrebbe del famoso Achille dato il cocchio e i destrieri a questo patto, ch'io di notte traessi all'inimico ad esplorar se, come pria, guardate sien le navi, o se voi dal nostro ferro domi teniate del fuggir consiglio, schivi di veglie, e di fatica oppressi. Sorrise Ulisse, e replicò: Gran dono certo ambiva il tuo cor, del grande Achille i destrier. Ma domarli e cavalcarli uom mortale non può, tranne il Pelìde cui fu madre una Dea. Ma questo ancora contami, e non mentire: Ove lasciasti, qua venendoti, Ettorre? ove si stanno i suoi guerrieri arnesi? ove i cavalli? quai son de' Teucri le vigilie e i sonni? quai le consulte? Bloccheran le navi? O in Ilio torneran, vinto il nemico? Gli rispose Dolon: Nulla del vero ti tacerò. Co' suoi più saggi Ettorre in parte da rumor scevra e sicura siede a consiglio al monumento d'Ilo. Ma le guardie, o signor, di che mi chiedi, nulla del campo alla custodia è fissa. Ché quanti in Ilio han focolar, costretti son cotesti alla veglia, e a far la scolta s'esortano a vicenda: ma nel sonno tutti giacccion sommersi i collegati, che da diverse regïon raccolti, né figli avendo né consorte al fianco, lasciano ai Teucri delle guardie il peso. Ma dormon essi co' Troian confusi (ripiglia Ulisse), o segregati? Parla, ch'io vo' saperlo. - E a lui d'Eumede il figlio: Ciò pure ti sporrò schietto e sincero. Quei della Caria, ed i Peonii arcieri, i Lelegi, i Caucóni ed i Pelasghi tutto il piano occupâr che al mare inchina; ma il pian di Timbra i Licii e i Misii alteri e i frigii cavalieri, e con gli equestri lor drappelli i Meonii. Ma dimande tante perché? Se penetrar vi giova nel nostro campo, ecco il quartier de' Traci alleati novelli, che divisi stansi ed estremi. Han duce Reso, il figlio d'Eïonèo, e a lui vid'io destrieri di gran corpo ammirandi e di bellezza, una neve in candor, nel corso un vento. Monta un cocchio costui tutto commesso d'oro e d'argento, e smisurata e d'oro (maraviglia a vedersi!) è l'armatura, di mortale non già ma di celeste petto sol degna. Che più dir? Traetemi prigioniero alle navi, o in saldi nodi qui lasciatemi avvinto infin che pure vi ritorniate, e siavi chiaro a prova se fu verace il labbro o menzognero. Lo guatò bieco Dïomede, e disse: Da che ti spinse in poter nostro il fato, Dolon, di scampo non aver lusinga, benché tu n'abbia rivelato il vero. Se per riscatto o per pietà disciolto ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo alle navi verresti esploratore, o inimico palese in campo aperto. Ma se qui perdi per mia man la vita, più d'Argo ai figli non sarai nocente. Disse; e il meschino già la man stendea supplice al mento; ma calò di forza quegli il brando sul collo, e ne recise ambe le corde. La parlante testa rotolò nella polve. Allor dal capo gli tolsero l'elmetto, e l'arco e l'asta e la lupina pelle. In man solleva le tolte spoglie Ulisse, e a te, Minerva
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