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Opere pubblicate: 19994
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LIBRO SETTIMO
Così dicendo, dalle porte eruppe seguìto dal fratello il grande Ettorre. Ardono entrambi di far pugna: e quale i naviganti allegra amico vento che un Dio lor manda allor che stanchi ei sono d'agitar le spumanti onde co' remi, e cascano le membra di fatica; tali al desìo de' Teucri essi appariro. A prima giunta Paride stramazza Menestio d'Arna abitatore, e figlio del portator di clava Arëitòo, a cui lo partorìa Filomedusa per grand'occhi lodata. Ettore attasta Eïoneo di lancia alla cervice sotto l'elmetto, e morto lo distende. Glauco, duce de' Licii, a un tempo istesso d'un colpo di zagaglia ad Ifinòo, prole di Dèssio, l'omero trafigge appunto in quella che salìa sul cocchio, e dal cocchio al terren morto il trabocca. Vista la strage degli Achei, Minerva dall'Olimpo calossi impetuosa verso il sacro Ilïon. La vide Apollo dalla pergàmea rocca, e vincitori bramando i Teucri, le si fece incontro vicino al faggio, e favellò primiero: Figlia di Giove, e quale il cor t'invade furia novella? E qual sì grande affetto dall'Olimpo ti spinge? a portar forse della pugna agli Achei la dubbia palma, poiché niuna ti tocca il cor pietade dello strazio de' Teucri? Or su, m'ascolta, e fia lo meglio. Si sospenda in questo giorno la zuffa, e alla novella aurora si ripigli e s'incalzi infin che Troia cada: da che la sua caduta a voi possenti Dive il cor cotanto invoglia. Sia così, Palla gli rispose: io scesi fra i Troiani e gli Achei con questa mente. Ma come avvisi di quetar la pugna? Suscitiam, replicava il saettante figlio di Giove, suscitiam la forte alma d'Ettorre a provocar qualcuno de' prodi Achivi a singolar tenzone: e indignati gli Achivi un valoroso spingano anch'essi a cimentarsi in campo da solo a solo col troian guerriero. Disse, e Minerva acconsentìa. Conobbe de' consultanti iddii tosto il disegno il Prïamide Elèno in suo pensiero, e ad Ettore venuto: Ettore, ei disse, pari a quello d'un nume è il tuo consiglio; ma udir vuoi tu del tuo fratello il senno? Fa dall'armi cessar Teucri ed Achei, e degli Achei tu sfida il più valente a singolar certame. Io ti fo certo che il tuo giorno fatal non giunse ancora; così mi dice degli Dei la voce. Esultò di letizia all'alto invito il valoroso: e presa per lo mezzo la sua gran lancia, e tra l'un campo e l'altro procedendo, fe' alto alle troiane falangi; ed elle soffermârsi tutte. Soffermârsi del pari al riverito cenno d'Atride i coturnati Achivi, e in forma d'avoltoi Minerva e Febo sull'alto faggio s'arrestâr di Giove, con diletto mirando de' guerrieri quinci e quindi seder dense le file d'elmi orrende e di scudi e d'aste erette. Quale è l'orror che di Favonio il soffio nel suo primo spirar spande sul mare, che destato s'arruffa e l'onde imbruna: tale de' Teucri e degli Achei nel vasto campo sedute comparìan le file. Trasse Ettorre nel mezzo, e così disse: Udite, o Teucri, udite attenti, o Achivi, ciò che nel petto mi ragiona il core. Ratificar non piacque all'alto Giove i nostri giuramenti, e in suo segreto agli uni e agli altri macchinar ne sembra grandi infortunii, finché l'ora arrivi ch'Ilio per voi s'atterri, o che voi stessi atterrati restiate appo le navi. Or quando il vostro campo il fior racchiude degli achivi guerrieri, esca a duello chi cuor si sente: lo disfida Ettorre. Eccovi i patti del certame, e Giove testimonio ne sia. Se il mio nemico m'ucciderà, dell'armi ei mi dispogli, e le si porti; ma il mio corpo renda, onde i Troiani e le troiane spose m'onorino del rogo. Ov'io lui spegna, ed Apollo la palma a me conceda, porteronne le tolte armi nel sacro Ilio, e del nume appenderolle al tempio: ma l'intatto cadavere alle navi vi sarà rimandato, onde d'esequie l'orni l'achea pietade e di sepolcro su l'Ellesponto. Lo vedrà de' posteri naviganti qualcuno, e fia che dica: Ecco la tomba d'un antico prode che combattendo coll'illustre Ettorre glorïoso perì. Questo fia detto, ed eterno vivrassi il nome mio. All'audace disfida ammutoliro gli Achei, tementi d'accettarla, e insieme di recusarla vergognosi. Alfine in piè rizzossi Menelao, nell'imo del cor gemendo, ed in acerbi detti prorompendo gridò: Vili superbi, Achive, non Achei! Fia questo il colmo dell'ignominia, se tra voi non trova quell'audace Troian chi gli risponda. Oh possiate voi tutti in nebbia e polve resoluti sparir, voi che vi state qui senza core immoti e senza onore. Ma io medesmo, io sì, contra costui scenderò nell'arena. In man de' numi della vittoria i termini son posti. Ciò detto, l'armi indossa. E certo allora per le mani d'Ettorre, o Menelao, trovato avresti di tua vita il fine, (ch'egli di forza ti vincea d'assai) se subito in piè surti i prenci achivi non rattenean tua foga. Egli medesmo il regnatore Atride Agamennóne l'afferrò per la mano, e, Tu deliri, disse, e il delirio non ti giova. Or via, fa senno, e premi il tuo dolor, né spinto da bellicosa gara avventurarti con un più prode di cui tutti han tema, col Prïamide Ettorre. Anco il Pelìde, sì più forte di te, lo scontro teme di quella lancia nel conflitto. Or dunque ritorna alla tua schiera, e statti in posa. Gli desteranno incontra altro più fermo duellator gli Achivi, e tal ch'Ettorre, intrepido quantunque ed indefesso, metterà volentier, se dritto io veggo, le ginocchia in riposo, ove pur sia che netto egli esca dalla gran tenzone. Svolge il saggio parlar del sommo Atride del fratello il pensier, che obbedïente quetossi, e lieti gli levâr di dosso le bell'arme i sergenti. Allor nel mezzo surse Nestore, e disse: Eterni Dei! Oh di che lutto ricoprirsi io veggio la casa degli eroi, l'achea contrada! Oh quanto in cor ne gemerà l'antico di cocchi agitator Pelèo, di lingua fra' Mirmidon sì chiaro e di consiglio; egli che in sua magion solea di tutti gli Achei le schiatte dimandarmi e i figli, e giubilava nell'udirli! Ed ora se per Ettorre ei tutti li sapesse di terror costernati, oh come al cielo alzerebbe le mani, e pregherebbe di scendere dolente anima a Pluto! O Giove padre, o Pallade, o divino di Latona figliuol! ché non son io nel fior degli anni, come quando in riva pugnâr del ratto Celadonte i Pilii con la sperta di lancia arcade gente sotto il muro di Fea verso le chiare del Jàrdano correnti? Alla lor testa Ereutalion venìa, che pari a nume l'armatura regal d'Arëitòo indosso avea, del divo Arëitòo che gli uomini tutti e le ben cinte donne clavigero nomâr; perché non d'arco né di lunga asta armato ei combattea, ma con clava di ferro poderosa rompea le schiere. A lui diè morte poscia, pel valore non già, ma per inganno Licurgo al varco d'un angusto calle, ove il rotar della ferrata clava al suo scampo non valse; ché Licurgo prevenendone il colpo traforògli l'epa coll'asta, e stramazzollo; e l'armi così gli tolse che da Marte egli ebbe, armi che poscia l'uccisor portava ne' fervidi conflitti; insin che, fatto per vecchiezza impotente, al suo diletto prode scudiero Ereutalion le cesse. Di queste dunque altero iva costui disfidando i più forti, ed atterriti n'eran sì tutti, che nessun si mosse. Ma io mi mossi audace core, e d'anni minor di tutti m'azzuffai con esso, e col favor di Pallade lo spensi: forte eccelso campion che in molta arena giaceami steso al piede. Oh mi fiorisse or quell'etade e la mia forza intégra! Per certo Ettorre troverìa qui tosto chi gli risponda. E voi del campo acheo i più forti, i più degni, ad incontrarlo voi non andrete con allegro petto? Tacque: e rizzârsi subitani in piedi nove guerrieri. Si rizzò primiero il re de' prodi Agamennón; rizzossi dopo lui Dïomede, indi ambedue gl'impetuosi Aiaci; indi, col fido Merïon bellicoso, Idomenèo; e poscia d'Evemon l'inclito figlio Eurìpilo, e Toante Andremonìde, e il saggio Ulisse finalmente. Ognuno chiese il certame coll'eroe troiano. Disse allora il buon veglio: Arbitra sia della scelta la sorta, e sia l'eletto, salvo tornando dall'ardente agone, degli Achei la salute e di sé stesso. Segna a quel detto ognun sua sorte: e dentro l'elmo la gitta del maggior Atride. La turba intanto supplicante ai numi sollevava le palme; e con gli sguardi fissi nel cielo udìasi dire: O Giove, fa che la sorte il Telamònio Aiace nomi, o il Tidìde, o di Micene il sire. Così pregava; e il cavalier Nestorre agitava le sorti: ed ecco uscirne quella che tutti desïâr. La prese, e a dritta e a manca ai prenci achivi in giro la mostrava l'araldo, e nullo ancora la conoscea per sua. Ma come, andando dall'uno all'altro, il banditor pervenne al Telamònio Aiace e gliela porse, riconobbe l'eroe lieto il suo segno, e gittatolo in mezzo, Amici, è mia, gridò, la sorte, e ne gioisce il core, che su l'illustre Ettòr spera la palma. Voi, mentre l'arma io vesto, al sommo Giove supplicate in silenzio, onde non sia dai teucri orecchi il vostro prego udito; o supplicate ad alta voce ancora, se sì vi piace, ché nessuno io temo, né guerriero v'avrà che mio malgrado di me trionfi, né per fallo mio. Sì rozzo in guerra non lasciommi, io spero, la marzïal palestra in Salamina, né il chiaro sangue di che nato io sono. Disse; e gli Achivi alzâr gli sguardi al cielo, e a Giove supplicâr con questi accenti: Saturnio padre, che dall'Ida imperi massimo, augusto! vincitor deh rendi e glorioso Aiace; o se pur anco t'è caro Ettorre e lo proteggi, almeno forza ad entrambi e gloria ugual concedi. Di splendid'armi frettoloso intanto Aiace si vestiva: e poiché tutte l'ebbe assunte dintorno alla persona, concitato avvïossi, a camminava quale incede il gran Marte allor che scende tra fiere genti stimolate all'armi dallo sdegno di Giove, e dall'insana roditrice dell'alme émpia Contesa. Tale si mosse degli Achei trinciera lo smisurato Aiace, sorridendo con terribile piglio, e misurava a vasti passi il suol, l'asta crollando che lunga sul terren l'ombra spandea. Di letizia esultavano gli Achivi a riguardarlo; ma per l'ossa ai Teucri corse subito un gelo. Palpitonne lo stesso Ettòr; ma né schivar per tema il fier cimento, né tra' suoi ritrarsi più non gli lice, ché fu sua la sfida. E già gli è sopra Aiace coll'immenso pavese che parea mobile torre; opra di Tichio, d'Ila abitatore, prestantissimo fabbro, che di sette costruito l'avea ben salde e grosse cuoia di tauro, e indóttavi di sopra una falda d'acciar. Con questo al petto enorme scudo il Telamònio eroe féssi avanti al Troiano, e minaccioso mosse queste parole: Ettore, or chiaro saprai da solo a sol quai prodi ancora rimangono agli Achei dopo il Pelìde cuor di lïone e rompitor di schiere. Irato coll'Atride egli alle navi neghittoso si sta; ma noi siam tali, che non temiamo lo tuo scontro, e molti. Comincia or tu la pugna, e tira il primo. Nobile prence Telamònio Aiace, rispose Ettorre, a che mi tenti, e parli come a imbelle fanciullo o femminetta cui dell'armi il mestiero è pellegrino? E anch'io trattar so il ferro e dar la morte, e a dritta e a manca anch'io girar lo scudo, e infaticato sostener l'attacco, e a piè fermo danzar nel sanguinoso ballo di Marte, o d'un salto sul cocchio lanciarmi, e concitar nella battaglia i veloci destrier. Né già vogl'io un tuo pari ferire insidïoso, ma discoperto, se arrivar ti posso. Ciò detto, bilanciò colla man forte la lunga lancia, e saettò d'Aiace il settemplice scudo. Furïosa la punta trapassò la ferrea falda che di fuor lo copriva, e via scorrendo squarciò sei giri del bovin tessuto, e al settimo fermossi. Allor secondo trasse Aiace, e colpì di Priamo il figlio nella rotonda targa. Traforolla il frassino veloce, e nell'usbergo sì addentro si ficcò, che presso al lombo lacerògli la tunica. Piegossi Ettore a tempo, ed evitò la morte. Ricovrò l'uno e l'altro il proprio telo, e all'assalto tornâr come per fame fieri leoni, o per vigor tremendi arruffati cinghiali alla montagna. Di nuovo Ettorre coll'acuto cerro colpì, lo scudo ostil, ma senza offesa, ch'ivi la punta si curvò: di nuovo trasse Aiace il suo telo, ed alla penna dello scudo ferendo, a parte a parte lo trapassò, gli punse il collo, e vivo sangue spiccionne. Né per ciò l'attacco lasciò l'audace Ettorre. Era nel campo un negro ed aspro enorme sasso: a questo diè di piglio il Troiano, e contra il Greco lo fulminò. Percosse il duro scoglio il colmo dello scudo, e orribilmente ne rimbombò la ferrea piastra intorno. Seguì l'esempio il gran Telamonìde, ed afferrato e sollevato ei pure un altro più d'assai rude macigno, con forza immensa lo rotò, lo spinse contra il nemico. Il molar sasso infranse l'ettoreo scudo, e di tal colpo offese lui nel ginocchio, che riverso ei cadde con lo scudo sul petto: ma rizzollo immantinente di Latona il figlio. E qui tratte le spade i due campioni più da vicino si ferìan, se ratti, messaggieri di Giove e de' mortali, non accorrean gli araldi, il teucro Idèo, e l'achivo Taltìbio, ambo lodati di prudente consiglio. Entrâr costoro con securtade in mezzo ai combattenti, ed interposto fra le nude spade il pacifico scettro, il saggio Idèo così primiero favellò: Cessate, diletti figli, la battaglia. Entrambi siete cari al gran Giove, entrambi (e chiaro ognun sel vede) acerrimi guerrieri: ma la notte discende, e giova, o figli, alla notte obbedir. - Dimandi Ettorre questa tregua, rispose il fiero Aiace: primo ei tutti sfidonne, e primo ei chiegga. Ritirerommi, se l'esempio ei porga. E l'illustre rival tosto riprese: Aiace, i numi ti largîr cortesi pari alla forza ed al valore il senno, e nel valor tu vinci ogni altro Acheo. Abbian riposo le nostr'armi, e cessi la tenzon. Pugneremo altra fïata finché la Parca ne divida, e intera all'uno o all'altro la vittoria doni. Or la notte già cade, e della notte romper non dêssi la ragion. Tu riedi dunque alle navi a rallegrar gli Achivi, i congiunti, gli amici. Io nella sacra città rïentro a serenar de' Teucri le meste fronti e le dardanie donne, che in lunghi pepli avvolte appiè dell'are per me si stanno a supplicar. Ma pria di dipartirci, un mutuo dono attesti la nostra stima: e gli Achei poscia e i Teucri diran: Costoro duellâr coll'ira di fier nemici, e separârsi amici. Così dicendo, la sua propria spada gli presentò d'argentei chiovi adorna con fulgida vagina ed un pendaglio di leggiadro lavoro; Aiace a lui il risplendente suo purpureo cinto. Così divisi, agli Achei l'uno, ai Teucri l'altro avvïossi. Esilarârsi i Teucri, vivo il lor duce ritornar veggendo dalla forza scampato e dall'invitte mani d'Aiace; e trepidanti ancora del passato periglio alla cittade l'accompagnaro. Dall'opposta parte della palma superbo il lor campione guidâr gli Achivi al padiglion d'Atride, che per tutti onorar tosto al Tonante un bue quinquenne in sacrificio offerse. Lo scuoiâr, lo spaccâr, lo fêro in brani acconciamente, e negli spiedi infisso l'abbrustolâr con molta cura, e tolto il tutto al foco, l'apprestâr sul desco, e banchettando ne cibò ciascuno a pien talento. Ma l'immenso tergo del sacro bue donollo Agamennóne d'onore in segno al vincitor guerriero. Del cibarsi e del ber spento il desìo, il buon veglio Nestorre, di cui sempre ottimo uscìa l'avviso, in questo dire svolse il suo senno: Atride e duci achei, questo giorno fatal la vita estinse di molti prodi, del cui sangue rossa fe' l'aspro Marte la scamandria riva, e all'Orco ne passâr l'ombre insepolte. Al nuovo sole le nostr'armi adunque si restino tranquille, e noi sul campo convenendo, imporrem le salme esangui su le carrette, e muli oprando e buoi, qui ne faremo il pio trasporto, e al rogo le darem lungi dalle navi alquanto, onde al nostro tornar nel patrio suolo le ceneri portarne ai mesti figli. E dintorno alla pira una comune tomba ergeremo, e di muraglia e d'alte torri, a difesa delle navi e nostra, con rapido lavor la cingeremo, e salde vi apriremo e larghe porte per l'egresso de' cocchi. Indi un'esterna profonda fossa scaverem che tutta circondi la muraglia, e de' cavalli l'impeto affreni e de' pedon, se mai de' Teucri irrompa l'orgoglioso ardire. Disse, e tutti annuiro i prenci achei. Di Prïamo alle soglie in questo mentre su l'alta iliaca rocca i Teucri anch'essi tenean confusa e trepida consulta. Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l'argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr'armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s'assise. E surto in piedi il bel marito della bella Argiva così Pari rispose: Al cor m'è grave, Antenore, il tuo detto, e so che porti una miglior sentenza in tuo segreto. Ché se parli davver, davvero i numi ti han tolto il senno. Ma ben io qui schietti i miei sensi aprirò. La donna io mai non renderò, giammai. Quanto alle ricche spoglie che d'Argo a queste rive addussi, tutte render le voglio, ed altre ancora aggiungeronne di mio proprio dritto. Tacque, e sul seggio si raccolse. Allora in sembianza d'un Dio levossi in mezzo il Dardanide Prïamo, ed, Udite, Teucri, ei disse, e alleati, il mio pensiero, quale il cor lo significa. Pel campo del consueto cibo si ristauri ognuno, e attenda alla sua scolta, e vegli. Col nuovo sole alle nemiche navi Idèo sen vada, e ad ambedue gli Atridi di Paride, cagion della contesa, riferisca la mente, e una discreta proposta aggiunga di cessar la guerra, finché il rogo consunte abbia le morte salme de' nostri, per pugnar di poi finché la Parca ne spartisca, e agli uni conceda o agli altri la vittoria intégra. Tutti assentiro riverenti al detto: indi pel campo procurâr le cene in divisi drappelli. Il dì novello alle navi s'avvìa l'araldo Idèo, e raccolti ritrova a parlamento i bellicosi Achei davanti all'alta agamennònia poppa. Appresentossi tosto il canoro banditore, e disse: Atridi e duci achei, mi diè comando Priamo e di Troia gli ottimati insieme di sporvi, se vi fia grato l'udirla, di Paride, cagion di questa guerra, una proferta. Le ricchezze tutte ch'ei d'Argo addusse (oh pria perito ei fosse!) ei tutte le vi rende, ed altre ancora di sua ragion n'aggiungerà. Ma quanto alla gentil tua donna, o Menelao, di questa ei niega il rendimento, e indarno l'esortano i Troiani. E un'altra io reco di lor proposta: Se quetar vi piaccia della guerra il furor, finché de' morti le care spoglie il foco abbia combuste, per indi razzuffarci infin che piena tra noi decida la vittoria il fato. Disse, e tutti ammutîr. Sciolse il Tidìde alfin la voce; e, Niun di Pari, ei grida, l'offerta accetti, né la stessa pure rapita donna. Ai Dardani sovrasta, un fanciullo il vedrìa, l'esizio estremo. Plausero tutti al suo parlar gli Achivi con alte grida, e n'ammiraro il senno. Indi vòlto all'araldo il grande Atride: Idèo, diss'egli, per te stesso udisti degli Achei la risposta, e in un la mia. Quanto agli estinti, di buon grado assento che siano incesi; ché non dêssi avaro esser di rogo a chi di vita è privo, né porre indugio a consolarne l'ombra coll'officio pietoso. Il fulminante sposo di Giuno il nostro giuro ascolti. Così dicendo alzò lo scettro al cielo, e l'araldo tornossi entro la sacra cittade ai Teucri, già del suo ritorno impazïenti e in pien consesso accolti. Giunse, e intromesso la risposta espose. Si sparsero allor ratti, altri al carreggio de' cadaveri intenti, altri al funèbre taglio de' boschi. Dall'opposta parte un cuor medesmo, una medesma cura occupava gli Achivi. E già dal queto grembo del mare al ciel montando il sole co' rugiadosi lucidi suoi strali le campagne ferìa, quando nell'atra pianura si scontrâr Teucri ed Achei ognuno in cerca de' suoi morti, a tale dal sangue sfigurati e dalla polve, che mal se ne potea, senza lavarli, ravvisar le sembianze. Alfin trovati e conosciuti li ponean su i mesti plaustri piangendo. Ma di Priamo il senno non consentìa del pianto a' suoi lo sfogo: quindi afflitti, ma muti, al rogo i Teucri diero a mucchi le salme; ed arse tutte, col cuor serrato alla città tornaro. D'un medesmo dolor rotti gli Achei i lor morti ammassâr sovra la pira, e come gli ebbe la funerea fiamma consumati, del mar preser la via. Non biancheggiava ancor l'alba novella, ma il barlume soltanto antelucano, quando d'Achei dintorno all'alto rogo scelto stuolo affollossi. E primamente alzâr dappresso a quello una comune tomba agli estinti, ed alla tomba accanto una muraglia a edificar si diero d'alti torrazzi ghirlandata, a schermo delle navi e di sé: porte vi fêro di salda imposta, e di gran varco al volo de' bellicosi cocchi: indi lunghesso l'esterno muro una profonda e vasta fossa scavâr di pali irta e gremita. Degli Achei la stupenda opra tal era. La contemplâr maravigliando i numi seduti intorno al Dio de' tuoni, e irato sì prese a dir l'Enosigèo Nettunno: Giove padre, chi fia più tra' mortali, che gl'Immortali in avvenir consulti, e n'implori il favor? Vedi tu quale e quanto muro gli orgogliosi Achei innanti alle lor navi abbian costrutto e circondato d'un'immensa fossa senza offerir solenni ostie agli Dei? Di cotant'opra andrà certo la fama ovunque giunge la divina luce, e il grido morirà delle sacrate mura che al re Laomedonte un tempo intorno ad Ilïone Apollo ed io edificammo con assai fatica. Che dicesti? sdegnoso gli rispose l'adunator de' numbi: altro qualunque Iddio di forza a te minor potrebbe di questo paventar. Ma del possente Enosigèo la gloria al par dell'almo raggio del sole splenderà per tutto. Or ben: sì tosto che gli Achei faranno veleggiando ritorno al patrio lido, e tu quel muro abbatti e tutto quanto sprofondalo nel mare, e d'alta arena coprilo sì che ogni orma ne svanisca. In questo favellar l'astro s'estinse del giorno, e l'opra degli Achei fu piena. Della sera allestite indi le mense per le tende, cibâr le opime carni di scannati giovenchi, e ristorârsi del vino che recato avean di Lenno molti navigli; e li spediva Eunèo d'Issipile figliuolo e di Giasone. Mille sestieri in amichevol dono Eunèo ne manda ad ambedue gli Atridi; compra il resto l'armata, altri con bronzo, altri con lame di lucente ferro; qual con pelli bovine, e qual col corpo del bue medesmo, o di robusto schiavo. Lieto adunque imbandîr pronto convito gli Achivi, e tutta banchettâr la notte. Banchettava del par nella cittade con gli alleati la dardania gente. Ma tutta notte di Saturno il figlio con terribili tuoni annunzïava alte sventure nel suo senno ordite. Di pallido terror tutti compresi dalle tazze spargean le spume a terra devotamente, né veruno ardìa appressarvi le labbra, se libato pria non avesse al prepotente Giove. Corcârsi alfine, e su lor scese il sonno. LIBRO OTTAVO Già spiegava l'aurora il croceo velo sul volto della terra, e co' Celesti su l'alto Olimpo il folgorante Giove tenea consiglio. Ei parla, e riverenti stansi gli Eterni ad ascoltar: M'udite tutti, ed abbiate il mio voler palese; e nessuno di voi né Dio né Diva di frangere s'ardisca il mio decreto, ma tutti insieme il secondate, ond'io l'opra, che penso, a presto fin conduca. Qualunque degli Dei vedrò furtivo partir dal cielo, e scendere a soccorso de' Troiani o de' Greci, egli all'Olimpo di turpe piaga tornerassi offeso; o l'afferrando di mia mano io stesso, nel Tartaro remoto e tenebroso lo gitterò, voragine profonda che di bronzo ha la soglia e ferree porte, e tanto in giù nell'Orco s'inabissa, quanto va lungi dalla terra il cielo. Allor saprà che degli Dei son io il più possente. E vuolsene la prova? D'oro al cielo appendete una catena, e tutti a questa v'attaccate, o Divi e voi Dive, e traete. E non per questo dal ciel trarrete in terra il sommo Giove, supremo senno, né pur tutte oprando le vostre posse. Ma ben io, se il voglio, la trarrò colla terra e il mar sospeso: indi alla vetta dell'immoto Olimpo annoderò la gran catena, ed alto tutte da quella penderan le cose. Cotanto il mio poter vince de' numi le forze e de' mortai. - Qui tacque, e tutti dal minaccioso ragionar percossi ammutolîr gli Dei. Ruppe Minerva finalmente il silenzio, e così disse: Padre e re de' Celesti, e noi pur anco sappiam che invitta è la tua gran possanza. Ma nondimen de' bellicosi Achei pietà ne prende, che di fato iniquo son vicini a perir. Noi dalla pugna, se tu il comandi, ci terrem lontani; ma non vietar che di consiglio almeno sien giovati gli Achivi, onde non tutti cadan nell'ira tua disfatti e morti. Con un sorriso le rispose il sommo de' nembi adunator: Conforta il core, diletta figlia; favellai severo, ma vo' teco esser mite. - E così detto, gli orocriniti eripedi cavalli come vento veloci al carro aggioga: al divin corpo induce una lorica tutta d'auro, e alla man data una sferza pur d'auro intesta e di gentil lavoro, monta il cocchio, e flagella a tutto corso i corridori che volâr bramosi infra la terra e lo stellato Olimpo. Tosto all'Ida, di belve e di rigosi fonti altrice, arrivò su l'ardua cima del Gargaro, ove sacro a lui frondeggia un bosco, e fuma un odorato altare. Qui degli uomini il padre e degli Dei rattenne e dal timon sciolse i cavalli, e di nebbia gli avvolse. Indi s'assise esultante di gloria in su la vetta di là lo sguardo a Troia rivolgendo ed alle navi degli Achei, che preso per le tende alla presta un parco cibo armavansi. Ed all'armi anch'essi i Teucri per la città correan; né gli sgomenta il numero minor, ché per le spose e pe' figli a pugnar pronti li rende necessità. Spalancansi le porte: erompono pedoni e cavalieri con immenso tumulto, e giunti a fronte, scudi a scudi, aste ad aste e petti a petti oppongono, e di targhe odi e d'usberghi un fiero cozzo, ed un fragor di pugna che rinforza più sempre. De' cadenti l'urlo si mesce coll'orribil vanto de' vincitori, e il suol sangue correa. Dall'ora che le porte apre al mattino fino al merigge, d'ambedue le parti durò la strage con egual fortuna. Ma quando ascese a mezzo cielo il sole, alto spiegò l'onnipossente Iddio l'auree bilance, e due diversi fati di sonnifera morte entro vi pose, il troiano e l'acheo. Le prese in mezzo, le librò, sollevolle, e degli Achivi il fato dechinò, che traboccando percosse in terra, e balzò l'altro al cielo. Tonò tremendo allor Giove dall'Ida, e un infocato fulmine nel campo avventò degli Achei, che stupefatti a quella vista impallidîr di tema. Né Idomenèo né il grande Agamennóne, né gli Aiaci, ambedue lampi di Marte, fermi al lor posto rimaner fur osi. Solo il Gerenio, degli Achei tutela, Nestore vi restò, ma suo mal grado ché un destrier l'impedìa, cui di saetta d'Elena bella l'avvenente drudo nella fronte ferì laddove spunta nel teschio de' cavalli il primo crine, ed è letale il loco alle ferite. Inalberossi il corridor trafitto, ché nel cerèbro entrata era la freccia, e dintorno alla rota per l'acuto dolor si voltolando, in iscompiglio mettea gli altri cavalli. Or mentre il vecchio gli si fa sopra colla daga, e tenta tagliarne le tirelle, ecco veloci fra la calca e il ferir de' combattenti sopraggiungere d'Ettore i destrieri, superbi di portar sì grande auriga. E qui perduta il veglio avrìa la vita, se del rischio di lui non s'accorgea l'invitto Dïomede. Un grido orrendo di pugna eccitator mise l'eroe alla volta d'Ulisse: Ah dove immemore di tua stirpe divina, dove fuggi, astuto figlio di Laerte, e volgi, come un codardo della turba, il tergo? Bada che alcun le fuggitive spalle non ti giunga coll'asta. Agl'inimici volta la fronte, ed a salvar vien meco dal furor di quel fiero il vecchio amico. Quelle grida non ode, e ratto in salvo fugge Ulisse alle navi. Allor rimasto solo il Tidìde, si sospinse in mezzo ai guerrier della fronte, avanti al cocchio di Nestore piantossi, e lui chiamando veloci gli drizzò queste parole: Troppo feroce gioventù nemica ti sta contra, o buon vecchio, e infermi troppo sono i tuoi polsi: hai grave d'anni il dorso, hai debole l'auriga e i corridori. Monta il mio cocchio, e la virtù vedrai dei cavalli di Troe, che dianzi io tolsi d'Anchise al figlio, a maraviglia sperti a fuggir ratti in campo e ad inseguire. Lascia cotesti agli scudieri in cura, drizziam questi ne' Teucri, e vegga Ettorre s'anco in mia man la lancia è furibonda. Disse: né il veglio ricusò l'invito. Di Stènelo e del buon Eurimedonte, valorosi scudieri, egli al governo cesse le sue puledre, e tosto il cocchio del Tidìde salito, in man si tolse le bellissime briglie, e col flagello i corsieri percosse. In un baleno giunser d'Ettore a fronte, che diritto lor d'incontro venìa con gran tempesta. Trasse la lancia Dïomede, e il colpo errò; ma su le poppe in mezzo al petto colpì l'auriga Enïopèo, figliuolo dell'inclito Tebèo. Cade il trafitto giù tra le rote colle briglie in pugno: s'arretrano i destrieri, e in quello stato perde ogni forza l'infelice, e spira. Del morto auriga addolorossi Ettorre, e mesto di lasciar quivi il compagno nella polve disteso, un altro audace alla guida del carro iva cercando: né di rettor gran tempo ebber bisogno i suoi destrieri, ché gli occorse all'uopo l'animoso Archepòlemo d'Ifito, cui sul carro montar fa senza indugio, e gli abbandona nella man le briglie. Immensa strage allora e fatti orrendi fôran d'arme seguìti, e come agnelli stati in Ilio sarìan racchiusi i Teucri, se de' Celesti il padre e de' mortali tosto di ciò non s'accorgea. Tonando con gran fragore un fulmine rovente vibrò nel campo il nume, e il fece in terra guizzar di Dïomede innanzi al cocchio: e subita n'uscìa d'ardente zolfo una terribil vampa. Spaventati costernansi i destrier, scappan di mano a Nestore le briglie; onde al Tidìde rivoltosi tremante; Ah piega, ei grida, piega indietro i cavalli, o Dïomede, fuggiam: nol vedi? contro noi combatte Giove irato, e a costui tutto dar vuole di presente l'onor della battaglia. Darallo, se gli piace, un'altra volta a noi pur: ma di Giove oltrapossente il supremo voler forza non pate. Tutto ben parli, o vecchio, gli rispose l'imperturbato eroe; ma il cor mi crucia la dolorosa idea ch'Ettore un giorno fra' Troiani dirà gonfio d'orgoglio: Io fugai Dïomede, io lo costrinsi a scampar nelle navi. - Ei questo vanto menerà certo, e a me si fenda allora sotto i piedi la terra, e mi divori. E Nestore ripiglia: Ah che dicesti, valoroso Tidìde? E quando avvegna che un codardo, un imbelle Ettor ti chiami, i Troiani non già sel crederanno, né le troiane spose, a cui nell'atra polve stendesti i floridi mariti. Disse; e addietro girò tosto i cavalli tra la calca fuggendo. Ettore e i Teucri con urli orrendi li seguiro, e un nembo piovean su lor d'acerbi strali, ed alto gridar s'udiva de' Troiani il duce: I cavalieri argivi, o Dïomede, e di seggio e di tazze e di vivande te finora onorâr su gli altri a mensa; ma deriso or n'andrai, che un cor palesi di femminetta. Via di qua, fanciulla; non salirai tu, no, fin ch'io respiro, d'Ilio le torri, né trarrai cattive le nostre mogli nelle navi, e morto per la mia destra giacerai tu pria. Stettesi in forse a quel parlar l'eroe di dar volta ai cavalli, e d'affrontarlo. Ben tre volte nel core e nella mente gliene corse il desìo, tre volte Giove rimormorò dall'Ida, e fe' securi della vittoria con quel segno i Teucri. Con orribile grido Ettore allora animando le schiere: O Licii, o Dardani, o Troiani, dicea, prodi compagni, mostratevi valenti, e fuor mettete le generose forze. Io non m'inganno, Giove è propizio; di vittoria a noi e d'esizio a' nemici ei diede il segno. Stolti! che questo alzâr debile muro, troppo al nostro valor frale ritegno. Quella lor fossa varcheran d'un salto i miei cavalli; e quando emerso a vista io sarò delle navi, allor le faci ministrarmi qualcun si risovvegna, ond'io que' legni incenda, e fra le vampe sbalorditi dal fumo i Greci uccida. Poi conforta i destrieri, e sì lor parla: Xanto, Podargo, Etón, Lampo divino, mercé del largo cibo or mi rendete, che dell'illustre Eezïon la figlia Andromaca vi porge, il dolce io dico frumento, e l'alma di Lïeo bevanda, ch'ella a voi mesce desïosi, a voi pria che a me stesso che pur suo mi vanto giovine sposo. Or via, volate; andiamo alla conquista del nestòreo scudo di cui va il grido al cielo, e tutto il dice d'auro perfetto, e d'auro anco la guiggia. Poi di dosso trarremo a Dïomede l'usbergo, esimia di Vulcan fatica. Se cotal preda ne riesce, io spero che ratti i Greci su le navi in questa notte medesma salperan dal lido. Del superbo parlar forte sdegnossi l'augusta Giuno, e s'agitò sul trono sì che scosso tremonne il vasto Olimpo. Quindi rivolte le parole al grande dio Nettunno, sì disse: E sarà vero, possente Enosigèo, che degli Argivi a pietà non ti mova la ruina! Pur son essi che in Elice ed in Ege rècanti offerte graziose e molte. E perché dunque non vorrai tu loro la vittoria bramar? Certo se quanti siam difensori degli Achivi in cielo vorrem de' Teucri rintuzzar l'orgoglio e al Tonante far forza, egli soletto e sconsolato sederà su l'Ida. Oh! che mai parli, temeraria Giuno? le rispose sdegnoso il re Nettunno: non sia, no mai, che col saturnio Giove a cozzar ne sospinga il nostro ardire; rammenta ch'egli è onnipossente, e taci. Mentre seguìan tra lor queste parole, quanto intervallo dalle navi al muro la fossa comprendea, tutto era denso di cavalli, di cocchi e di guerrieri ivi dal fiero Ettòr serrati e chiusi, che simigliante al rapido Gradivo infuriava col favor di Giove. E ben le navi avrìa messe in faville, se l'alma Giuno in cor d'Agamennóne il pensier non ponea di girne attorno ratto egli stesso a incoraggiar gli Achivi. Per le tende egli dunque e per le navi sollecito correa, raccolto il grande purpureo manto nel robusto pugno: e cotal su la negra capitana d'Ulisse si fermò, che vasta il mezzo dell'armata tenea, donde distinta d'ogni parte mandar potea la voce fin d'Aiace e d'Achille al padiglione, che l'eguali lor prore ai lati estremi, nel valor delle braccia ambo securi, avean dedotte all'arenoso lido. Di là fec'egli rimbombar sul campo quest'alto grido: Svergognati Achivi, vitupèri nell'opre e sol d'aspetto maravigliosi! dove dunque andaro gli alteri vanti che menammo un giorno di prodezza e di forza? In Lenno queste fur le vostre burbanze allor che l'epa v'empiean le polpe de' giovenchi uccisi, e le ricolme tazze inghirlandate si venìan tracannando, e si dicea che un sol per cento e per dugento Teucri, un sol Greco valea nella battaglia. Ed or tutti ne fuga un solo Ettorre, che ben tosto farà di queste navi cenere e fumo. O Giove padre, e quale altro mai re di tanti danni afflitto, di tanto disonor carco volesti? Pur io so ben, che quando a questo lido il perverso destin mi conducea, giammai veruno de' tuoi santi altari navigando lasciai sprezzato indietro; ma l'adipe a te sempre e i miglior fianchi de' giovenchi abbruciai sovra ciascuno, bramoso d'atterrar l'iliache mura. Deh almen n'adempi questo voto, almeno danne, o Giove, uno scampo colla fuga, né per le mani del crudel Troiano consentir degli Achivi un tanto scempio. Così dicea piangendo. Ebbe pietade di sue lagrime il nume, e ad accennargli che non tutto il suo campo andrìa disfatto, il più sicuro de' volanti augurio un'aquila spedì che negli unghioni tolto al covil della veloce madre un cerbiatto stringendo, accanto all'ara, ove l'ostie svenar solean gli Achivi al fatidico Giove, dall'artiglio cader lasciò la palpitante preda. Gli Achei veduto il sacro augel, cui spinto conobbero da Giove, ad affrontarsi più coraggiosi ritornâr co' Teucri, e rinfrescâr la pugna. Allor nessuno pria del Tidìde fra cotanti Argivi vanto si diede d'agitar pel campo i veloci corsieri, ed oltre il fosso cacciarli ed azzuffarsi. Egli primiero anzi a tutti si spinse, e a prima giunta Agelao di Fradmon tolse di mezzo uom troiano. Costui piegàti in fuga i suoi destrieri avea. Coll'asta il tergo gli raggiunse il Tidìde, gliela fisse tra gli omeri, e passar la fece al petto. Cadde Agelao dal carro, e cupamente l'armi sovr'esso rintonâr. Secondo Agamennón si mosse, indi il fratello, indi gli Aiaci impetuosi, e poi Idomenèo con esso il suo scudiero Merïon che di Marte avea l'aspetto; poi d'Evemon l'illustre figlio Eurìpilo, ed ultimo giungea Teucro del curvo elastic'arco tenditor famoso. D'Aiace Telamònio egli locossi dietro lo scudo, e dello scudo Aiace gli antepose la mole. Ivi securo l'eroe guatava intorno, e quando avea saettato nel denso un inimico, quegli cadendo perdea l'alma, e questi, come fanciullo della madre al manto, ricovrava al fratel che alla grand'ombra dello splendido scudo il proteggea. Or dall'egregio arcier chi de' Troiani fu primo ucciso? Primamente Orsìloco, indi Ormeno e Ofeleste: a questi aggiunse Detore e Cromio, e per divin sembiante Licofonte lodato, e Amopaone Poliemonìde, e Melanippo, tutti l'un dopo l'altro nella polve stesi. Gioiva il re de' regi Agamennóne mirandolo dall'arco vigoroso lanciar la morte fra' nemici, e a lui vicin venuto soffermossi, e disse: Diletto capo Telamònio Teucro, siegui l'arco a scoccar, porta, se puoi, a' Dànai un raggio di salute, e onora il tuo buon padre Telamon che un giorno ti raccolse fanciullo, e benché frutto di non giusto imeneo, pur con pietoso tenero affetto in sua magion ti crebbe. Or tu fa ch'egli salga in alta fama, sebben lontano. Ti prometto io poi (e sacra tieni la promessa mia) che se Giove e Minerva mi daranno d'Ilio il conquisto, tu primier t'avrai il premio, dopo me, de' forti onore, ed in tua man porrollo io stesso, un tripode, o due cavalli ad un bel cocchio aggiunti, o di vaghe sembianze una fanciulla che teco il letto e l'amor tuo divida. E Teucro gli rispose: Illustre Atride, a che mi sproni, per me stesso assai già fervido e corrente? Io non rimango di far qui tutto il mio poter. Dal punto che verso la città li respingemmo, mi sto coll'arco ad aspettar costoro, e li trafiggo. E già ben otto acuti dardi dal nervo liberai, che tutti profondamente si ficcâr nel corpo di giovani guerrieri, e non ancora ferir m'è dato questo can rabbioso. Disse; e di nuovo fe' volar dall'arco contr'Ettore uno strale. Al colpo tutta ei l'anima diresse, e nondimeno fallì la freccia, ché l'accolse in petto di Prïamo un valente esimio figlio Gorgizïon, cui d'Esima condotta partorì la gentil Castïanira, che una Diva parea nella persona. Come carco talor del proprio frutto, e di troppa rugiada a primavera il papaver nell'orto il capo abbassa, così la testa dell'elmo gravata su la spalla chinò quell'infelice. E Teucro dalla corda ecco sprigiona alla volta d'Ettorre altra saetta, più che mai del suo sangue sitibondo. E pur di nuovo uscì lo strale in fallo, ché Apollo il devïò, ma colse al petto d'Ettòr l'audace bellicoso auriga Archepòlemo presso alla mammella. Cadde ei rovescio giù dal cocchio, addietro si piegaro i cavalli, e quivi a lui il cor ghiacciossi, e l'anima si sciolse. Di quella morte gravemente afflitto il teucro duce, e di lasciar costretto, mal suo grado, l'amico, a Cebrïone di lui fratello che il seguìa, fe' cenno di dar mano alle briglie. Ad obbedirlo Cebrïon non fu lento; ed ei d'un salto dallo splendido cocchio al suol disceso con terribile grido un sasso afferra, a Teucro s'addirizza, e di ferirlo l'infiammava il desìo. Teucro in quel punto traeva un altro doloroso telo dalla faretra, e lo ponea sul nervo. Mentre alla spalla lo ritragge in fretta, e l'inimico adocchia, il sopraggiunge crollando l'elmo Ettorre, e dove il collo s'innesta al petto ed è letale il sito, coll'aspro sasso il coglie, e rotto il nervo gl'intorpidisce il braccio. Dalle dita l'arco gli fugge, e sul ginocchio ei casca. Il caduto fratello in abbandono Aiace non lasciò, ma ratto accorse, e col proteso scudo il ricoprìa, finché lo si recâr sovra le spalle due suoi cari compagni, Mecistèo d'Echìo figliuolo, e il nobile Alastorre, e alle navi il portâr che gravemente sospirava e gemea. Ne' Teucri allora di nuovo suscitò l'Olimpio Giove tal forza e lena, che al profondo fosso dirittamente ricacciâr gli Achei. Iva Ettorre alla testa, e dalle truci sue pupille mettea lampi e paura. Qual fiero alano che ne' presti piedi confidando, un cinghial da tergo assalta, od un lïone, e al suo voltarsi attento or le cluni gli addenta, ora la coscia; così gli Achivi insegue Ettorre, e sempre uccidendo il postremo li disperde. Ma poiché l'alto fosso ed il palizzo ebber varcato i fuggitivi, e molti il troiano valor n'avea già spenti, giunti alle navi si fermaro, e insieme mettendosi coraggio, e a tutti i numi sollevando le man spingea ciascuno con alta voce le preghiere al cielo. Signor del campo d'ogni parte intanto agitava i destrieri il grande Ettorre di bel crine superbi, e rotar bieco le luci si vedea come il Gorgóne, o come Marte che nel sangue esulta. Impietosita degli Achei la bianca Giuno a Minerva si rivolse, e disse: Invitta figlia dell'Egìoco Giove, dunque, ohimè! non vorremo aver più nullo pensier de' Greci già cadenti, almeno nell'estremo lor punto? Eccoli tutti l'empio lor fato a consumar vicini per l'impeto d'un sol, del fiero Ettorre che in suo furore intollerando omai passa ogni modo, e ne fa troppe offese! A cui la Diva dalle glauche luci Minerva rispondea: Certo perduta avrìa costui la furia e l'alma ancora, a giacer posto nella patria terra dal valor degli Achei; ma quel mio padre di sdegnosi pensier calda ha la mente, sempre avverso, e de' miei forti disegni acerbo correttor; né si rimembra quante volte servar gli seppi il figlio dai duri d'Euristèo comandi oppresso. Ei lagrimava lamentoso al cielo, e me dal cielo allora ad aïtarlo Giove spediva. Ma se il cor prudente detto m'avesse le presenti cose, quando alle ferree porte il suo tiranno l'invïò dell'Averno a trar dal negro Erebo il can dell'abborrito Pluto, ei, no, scampato non avrìa di Stige la profonda fiumana. Or m'odia il padre, e di Teti adempir cerca le brame, che lusinghiera gli baciò il ginocchio, e accarezzògli colla destra il mento, d'onorar supplicandolo il Pelìde delle cittadi atterrator. Ma tempo, sì, verrà tempo che la sua diletta Glaucòpide a chiamarmi egli ritorni. Or tu vanne, ed il carro m'apparecchia co' veloci cornipedi, ché tosto io ne vo dentro alle paterne stanze, e dell'armi mi vesto per la pugna. Vedrem se questo Ettòr, che sì superbo crolla il cimiero, riderà quand'io nel folto apparirò della battaglia. Qualcun per certo de' Troiani ancora presso le navi achee satolli e pingui di sue polpe farà cani ed augelli. Disse; né Giuno ricusò, ma corse ai divini cavalli, e d'auree barde in fretta li guarnìa, Giuno la figlia del gran Saturno, veneranda Diva. D'altra parte Minerva il rabescato suo bellissimo peplo, delle stesse immortali sue dita opra stupenda, sul pavimento dell'Egìoco padre lasciò cader diffuso; ed indossando del nimbifero Giove il grande usbergo, tutta s'armava a lagrimosa pugna. Sul rilucente cocchio indi salita impugnò la pesante e poderosa gran lancia, ond'ella, allor che monta in ira, di forte genitor figlia tremenda, le schiere degli eroi rovescia e doma. Stimolava Giunon velocemente colla sferza i destrieri, e tosto fûro alle celesti soglie, a cui custodi vegliano l'Ore che il maggior de' cieli hanno in cura e l'Olimpo, onde sgombrarlo o circondarlo della sacra nube. Cigolando s'aprîr per sé medesme l'eteree porte, e docili al flagello spinser per queste i corridor le Dive. Come Giove dal Gàrgaro le vide, forte sdegnossi, ed Iri a sé chiamando ali-dorata Dea, Vola, le disse, Iri veloce, le rivolgi indietro, e lor divieta il venir oltre meco ad inegual cimento. Io lo protesto, e il fatto seguirà le mie parole, io loro fiaccherò sotto la biga i corridori, e dall'infranto cocchio balzerò le superbe, e delle piaghe che loro impresse lascerà il mio telo, né pur due lustri salderanno il solco. Saprà Minerva allor qual sia stoltezza il cimentarsi col suo padre in guerra. Quanto a Giunon, m'è forza esser con ella meno irato: gli è questo il suo costume di sempre attraversarmi ogni disegno. Disse; ed Iri a portar l'alto messaggio mosse veloce al par delle procelle; ed ascesa dall'Ida al grande Olimpo di molti gioghi altero, e su le soglie incontrate le Dee, sì le rattenne, e lor di Giove le parole espose: Dove correte? Che furore è questo? Sostate il piè, ché il dar soccorso ai Greci nol vi consente Giove. Le minacce dell'alto figlio di Saturno udite, che fian messe ad effetto. Ei sotto il carro storpieravvi i destrieri, e dall'infranto carro voi stesse balzerà, né dieci anni le piaghe salderan che impresse lasceravvi il suo telo; e tu, Minerva, allor saprai qual sia demenza il farti al tuo padre nemica. Né con Giuno, sempre usata a turbargli ogni disegno, tanto s'adira, ei no, quanto con teco, invereconda audace Dea, che ardisci contra il Tonante sollevar la lancia. Disse, e ratta sparì la messaggiera. Ed a Minerva allor con questi accenti Giuno si volse: Ohimè! più non si parli, figlia di Giove, di pugnar con esso per cagion de' mortali: io nol consento. Di loro altri si muoia, altri si viva, come piace alla sorte; e Giove intanto, come dispon suo senno e sua giustizia, fra i Troiani e gli Achei tempri il destino. Sì dicendo la Dea ritorse indietro i criniti destrieri, e l'Ore ancelle li distaccâr dal giogo, e li legaro ai nettarei presepi, ed il bel cocchio appoggiaro alla lucida parete. Si raccolser le Dive in aureo seggio con gli altri Dei confuse; e Giove intanto dal Gàrgaro all'Olimpo i corridori e le fulgide ruote alto spingea. Giunto alle case de' Celesti, a lui sciolse i corsieri l'inclito Nettunno, rimesse il cocchio, e lo coprì d'un velo. Giove sul trono si compose e tutto tremò sotto il suo piè l'immenso Olimpo. Ma Minerva e Giunon sole in disparte sedean, né motto né dimanda a Giove ardìan veruna indirizzar. S'avvide de' lor pensieri il nume, e così disse: Perché sì meste, o voi Minerva e Giuno? e' non si par che molto affaticate v'abbia finor la glorïosa pugna in esizio de' Teucri, a cui sì grave odio poneste. E v'è di mente uscito che invitto è il braccio mio? che quanti ha numi il ciel, cangiare il mio voler non ponno? A voi bensì le delicate membra prese un freddo tremor pria che la guerra pur contemplaste, e della guerra i duri esperimenti. Io vel dichiaro (e fôra già seguìto l'effetto) che percosse dalla folgore mia, no, non v'avrebbe il vostro cocchio ricondotte al cielo, albergo degli Eterni. - Il Dio sì disse, e in secreto fremean Minerva e Giuno sedendosi vicino, ed ai Troiani meditando nel cor alte sciagure. Stette muta Minerva, e contra il padre l'acerbo che l'ardea sdegno represse; ma sciolto all'ira il fren Giuno rispose: Tremendissimo Giove, e che dicesti? Ben anco a noi la tua possanza invitta è manifesta; ma pietà ne prende dei dannati a perir miseri Achei. Noi certo l'armi lascerem, se questo è il tuo strano voler; ma nondimeno qualche ai Greci daremo util consiglio, onde non tutti il tuo furor li spegna. E Giove replicò: Più fiero ancora vedrai dimani, se t'aggrada, o moglie, l'onnipotente di Saturno figlio dell'esercito achèo struggere il fiore. Perocché dalla pugna il forte Ettorre non pria desisterà, che finalmente l'ozïosa si svegli ira d'Achille il dì che in gran periglio appo le navi combatterassi per Patròclo ucciso. Tal de' fati è il voler, né de' tuoi sdegni sollecito son io, no, s'anco ai muti della terra e del mar confini estremi andar ti piaccia, nel rimoto esiglio di Giapeto e Saturno, che nel cupo Tartaro chiusi né il superno raggio del Sole, né di vento aura ricrea; no, se tant'oltre pure il tuo dispetto vagabonda ti porti, io non ti curo, poiché d'ogni pudor possasti il segno. Tacque; né Giuno osò pure d'un detto fargli risposta. In grembo al mar frattanto la splendida cadea lampa del Sole l'atra notte traendo su la terra. Della luce l'occaso i Teucri afflisse, ma pregata più volte e sospirata sovraggiunse agli Achei l'ombra notturna. Fuor del campo navale Ettore allora i Troiani ritrasse in su la riva del rapido Scamandro, ed in pianura da' cadaveri sgombra a parlamento chiamolli; ed essi dismontâr dai cocchi, e affollati dintorno al gran guerriero cura di Giove, a sue parole attenti porgean gli orecchi. Una grand'asta in pugno di ben undici cubiti sostiene: tutta di bronzo folgora la punta, e d'oro un cerchio le discorre intorno. Appoggiato su questa, così disse: Dardani, Teucri, Collegati, udite: io poc'anzi sperai ch'arse le navi e distrutti gli Argivi a Troia avremmo fatto ritorno. Ma sì bella speme ne rapîr le tenèbre invidiose, che inopportune sul cruento lido salvâr le navi e i paurosi Achei. Obbediamo alle negre ombre nemiche, apparecchiam le cene. Ognun dal temo sciolga i cavalli, e liberal sia loro di largo cibo. Di voi parte intanto alla città si affretti, e pingui agnelle e giovenchi n'adduca, e di Lïeo e di Cerere il frutto almo e gradito. Sian di secche boscaglie anco raccolte abbondanti cataste, e si cosparga, finché regna la notte e l'alba arriva, tutto di fuochi il campo e il ciel di luce, onde dell'ombre nel silenzio i Greci non prendano del mar su l'ampio dorso taciturni la fuga; o i legni almeno non salgano tranquilli, e la partenza senza terror non sia; ma nell'imbarco o di lancia piagato o di saetta vada più d'uno alle paterne case a curar la ferita, e rechi ai figli l'orror de' Teucri, e così loro insegni a non tentarli con funesta guerra. Voi cari a Giove diligenti araldi, per la città frattanto ite, e bandite che i canuti vegliardi, e i giovinetti a cui le guance il primo pelo infiora, custodiscan le mura in su gli spaldi dagli Dei fabbricati. Entro le case allumino gran fuoco anco le donne, e stazïon vi sia di sentinelle, onde, sendo noi lungi, ostile insidia nell'inerme città non s'introduca. Quanto or dico s'adémpia, e non fia vano, magnanimi compagni, il mio consiglio. Dirò dimani ciò che far ne resta. Spero ben io, se Giove e gli altri Eterni avrem propizi, di cacciarne lungi cotesti cani da funesto fato qua su le prore addutti. Or per la notte custodiamo noi stessi. Al primo raggio del nuovo giorno in tutto punto armati desteremo sul lido acre conflitto; vedrem se Dïomede, questo forte figliuolo di Tidèo, respingerammi dalle navi alle mura, o s'io coll'asta saprò passargli il fianco, e via portarne le sanguinose spoglie. Egli dimani manifesto farà se sua prodezza tal sia che possa di mia lancia il duro assalto sostener. Ma se fallace non è mia speme, ei giacerà tra' primi spento con molti de' compagni intorno, ei sì, dimani, all'apparir del Sole. Così immortal foss'io, né mai vecchiezza vïolasse i miei giorni, ed onorato foss'io del par che Pallade ed Apollo, come fatale ai Greci è il dì futuro. Tal fu d'Ettorre il favellar superbo, e gli fêr plauso i Teucri. Immantinente sciolsero dal timone i polverosi destrier sudati, e colle briglie al carro gli annodò ciascheduno. Indi menaro pecore e buoi dalla cittade in fretta. Altri vien carco di nettareo vino, altri di cibo cereale; ed altri cataste aduna di virgulti e tronchi. Rapìan l'odor delle vivande i venti da tutto il campo, e lo spargeano al cielo. Ed essi gonfi di baldanza, e in torme belliche assisi dispendean la notte, tutta empiendo di fuochi la campagna. Siccome quando in ciel tersa è la Luna, e tremole e vezzose a lei dintorno sfavillano le stelle, allor che l'aria è senza vento, ed allo sguardo tutte si scuoprono le torri e le foreste e le cime de' monti; immenso e puro l'etra si spande, gli astri tutti il volto rivelano ridenti, e in cor ne gode l'attonito pastor: tali al vederli, e altrettanti apparìan de' Teucri i fuochi tra le navi e del Xanto le correnti sotto il muro di Troia. Erano mille che di gran fiamma interrompeano il campo, e cinquanta guerrieri a ciascheduno sedeansi al lume delle vampe ardenti. Presso i carri frattanto orzo ed avena i cavalli pascevano, aspettando che dal bel trono suo l'Alba sorgesse.
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