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Opere pubblicate: 19994
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LIBRO QUINTO
Allor Palla Minerva a Dïomede forza infuse ed ardire, onde fra tutti gli Achei splendesse glorïoso e chiaro. Lampi gli uscìan dall'elmo e dallo scudo d'inestinguibil fiamma, al tremolìo simigliante del vivo astro d'autunno, che lavato nel mar splende più bello. Tal mandava dal capo e dalle spalle divin foco l'eroe, quando la Diva lo sospinse nel mezzo ove più densa ferve la mischia. Era fra' Teucri un certo Darete, uom ricco e d'onoranza degno, di Vulcan sacerdote, e genitore di due prodi figliuoi mastri di guerra Fegèo nomati e Idèo. Precorsi agli altri si fêr costoro incontro a Dïomede, essi sul cocchio, ed ei pedone: e a fronte divenuti così, scagliò primiero la lung'asta Fegèo. L'asta al Tidìde lambì l'omero manco, e non l'offese. Col ferrato suo cerro allor secondo mosse il Tidìde, né di mano indarno il telo gli fuggì, ché tra le poppe del nemico s'infisse, e dalla biga lo spiombò. Diede Idèo, visto quel colpo, un salto a terra, e in un col suo bel carro smarrito abbandonò la pia difesa dell'ucciso fratel. Né avrìa schivato perciò la morte; ma Vulcan di nebbia lo ricinse e servollo, onde non resti il vecchio padre desolato al tutto. Tolse i destrieri il vincitore, e trarli da' compagni li fece alle sue navi. Visti i due figli di Darete i Teucri l'un freddo nella polve e l'altro in fuga, turbârsi; e la glaucopide Minerva preso per mano il fero Marte disse: O Marte, Marte, esizïoso Iddio che lordo ir godi d'uman sangue e al suolo adeguar le città, non lasceremo noi dunque battagliar soli tra loro Teucri ed Achei, qualunque sia la parte cui dar la palma vorrà Giove? Or via ritiriamci, evitiam l'ira del nume. In questo favellar trasse la scaltra l'impetuoso Dio fuor del conflitto, e su la riva riposar lo fece dell'erboso Scamandro. Allora i Dànai cacciâr li Teucri in fuga; e ognun de' duci un fuggitivo uccise. Agamennóne primier riversa il vasto Hodio dal carro, degli Alizóni condottiero, e primo al fuggir. Gli piantò l'asta nel tergo, e fuor del petto uscir la fece. Ei cadde romoroso, e suonâr l'armi sovr'esso. Dalla glebosa Tarne era venuto Festo figliuol del Mèone Boro. Il colse Idomenèo coll'asta alla diritta spalla nel punto che salìa sul carro. Cadde il meschin d'orrenda notte avvolto, e i servi lo spogliâr d'Idomenèo. L'Atride Menelao di Strofio il figlio Scamandrio uccise, cacciator famoso cui la stessa Dïana ammaestrava le fere a saettar quante ne pasce montana selva. E nulla allor gli valse la Diva amica degli strali, e nulla l'arte dell'arco. Menelao lo giunse mentre innanzi gli fugge, e tra le spalle l'asta gli spinse, e trapassòglì il petto. Boccon cadde il trafitto, e cupamente l'armi sovr'esso rimbombar s'udiro. Prole del fabbro Armònide, Fereclo da Merïon fu spento. Era costui per tutte guise di lavori industri maraviglioso, e a Pallade Minerva caramente diletto. Opra fur sua di Paride le navi, onde principio ebbe il danno de' Teucri, e di lui stesso, perché i decreti degli Dei non seppe. L'inseguì, lo raggiunse, lo percosse nel destro clune Merïone, e sotto l'osso vêr la vescica uscì la punta. Gli mancâr le ginocchia, e guaiolando e cadendo il coprì di morte il velo. Mege uccise Pedèo, bastarda prole d'Antènore, cui l'inclita Teano, gratificando al suo consorte, avea con molta cura nutricato al paro dei diletti suoi figli. Si fe' sopra a costui coll'acuta asta il Filìde Mege, e alla nuca lo ferì. Trascorse tra i denti il ferro, e gli tagliò la lingua. Così concio egli cadde, e nella sabbia fe' tenaglia co' denti al freddo acciaro. Ipsènore, figliuol del generoso Dolopïon, scamandrio sacerdote riverito qual Dio, fugge davanti al chiaro germe d'Evemone Eurìpilo. Eurìpilo l'insegue, e via correndo tal gli cala su l'omero un fendente che il braccio gli recide. Sanguinoso casca il mozzo lacerto nella polve, e la purpurea morte e il violento fato le luci gli abbuiâr. Di questi tal nell'acerba pugna era il lavoro. Ma di qual parte fosse Dïomede, se troiano od acheo, mal tu sapresti discernere, sì fervido ei trascorre il campo tutto; simile alla piena di tumido torrente che cresciuto dalle piogge di Giove, ed improvviso precipitando i saldi ponti abbatte debil freno alle fiere onde, e de' verdi campi i ripari rovesciando, ingoia con fragor le speranze e le fatiche de' gagliardi coloni: a questa guisa sgominava il Tidìde e dissipava le caterve de' Troi, che sostenerne non potean, benché molti, la ruina. Come Pandaro il vide sì furente scorrere il campo, e tutte a sé dinanzi scompigliar le falangi, alla sua mira curvò subito l'arco, e l'irruente eroe percosse alla diritta spalla. Entrò pel cavo dell'usbergo il crudo strale, e forollo, e il sanguinò. Coraggio, forte allora gridò l'inclito figlio di Licaon, magnanimi Troiani, stimolate i cavalli, ritornate alla pugna. Ferito è degli Achei il più forte guerrier, né credo ei possa a lungo tollerar l'acerbo colpo, se vano feritor non mi sospinse qua dalla Licia il re dell'arco Apollo. Così gridava il vantator. Ma domo non restò da quel colpo Dïomede, che ritraendo il passo, e de' cavalli coprendosi e del cocchio, al suo fedele Capaneìde si rivolse, e disse: Corri, Stènelo mio, scendi dal carro, e dall'omero tosto mi divelli questo acerbo quadrel. - Diè un salto a terra Stènelo e corse, e l'aspro stral gli svelse dall'omero trafitto. Per la maglia dell'usbergo spicciava il caldo sangue, e imperturbato sì l'eroe pregava: Invitta figlia dell'Egìoco Giove, se nelle ardenti pugne unqua a me fosti del tuo favor cortese e al mio gran padre, odimi, o Dea Minerva, ed or di nuovo m'assisti, e al tiro della lancia mia manda il mio feritor: dammi ch'io spegna questo ventoso nebulon che grida ch'io del Sol non vedrò più l'aurea luce. Udì la Diva il prego, e a lui repente e mani e piedi e tutta la persona agile rese, e fattasi vicina e manifesta disse: Ti rinfranca Dïomede, e co' Troi pugna securo; ch'io del tuo grande genitor Tidèo l'invitta gagliardìa ti pongo in petto, e la nube dagli occhi ecco ti sgombro che la vista mortal t'appanna e grava, onde tu ben discerna le divine e l'umane sembianze. Ove alcun Dio qui ti venga a tentar, tu con gli Eterni non cimentarti, no; ma se in conflitto vien la figlia di Giove Citerea, l'acuto ferro adopra, e la ferisci. Sparve, ciò detto, la cerulea Diva. Allor diè volta e si mischiò tra' primi combattenti il Tidìde, a pugnar pronto più che prima d'assai; ché in quel momento triplice in petto si sentì la forza. Come lïon che, mentre il gregge assalta, ferito dal pastor, ma non ucciso, vie più s'infuria, e superando tutte resistenze si slancia entro l'ovile: derelitte, tremanti ed affollate l'una addosso dell'altra si riversano le pecorelle, ed ei vi salta in mezzo con ingordo furor: tal dentro ai Teucri diede il forte Tidìde. A prima giunta Astìnoo uccise ed Ipenòr: trafisse l'uno coll'asta alla mammella; all'altro la paletta dell'omero percosse con tale un colpo della grande spada, che gli spiccò dal collo e dalla schiena l'omero netto. Dopo questi addosso ad Abante si spicca e a Poliido, figli del veglio interprete di sogni Euridamante; ma il meschin non seppe nella lor dipartenza a questa volta divinarne il destin, ch'ambi il Tidìde li pose a morte e li spogliò. Drizzossi quindi a Xanto e Faon figli a Fenopo, ambo a lui nati nell'età canuta. In amara vecchiezza il derelitto genitor si struggea, ché d'altra prole, cui sua reda lasciar, lieto non era. Gli spense ambo il Tidìde, e lor togliendo la cara vita, in aspre cure e in pianti pose il misero padre, a cui negato fu il vederli tornar dalla battaglia salvi al suo seno; e di lui morto in lutto ignoti eredi si partîr l'avere. Due Prïamidi, Cromio ed Echemóne, venìano entrambi in un sol cocchio. A questi s'avventò Dïomede; e col furore di lïon che una mandra al bosco assalta e di giovenca o bue frange la nuca; così mal conci entrambi il fier Tidìde precipitolli dalla biga, e tolte l'arme de' vinti, a' suoi sergenti ei dienne i destrieri onde trarli alla marina. Come de' Teucri sbarattar le file videlo Enea, si mosse, e per la folta e fra il rombo dell'aste discorrendo a cercar diessi il valoroso e chiaro figlio di Licaon, Pandaro. Il trova, gli si appresenta e fa queste parole: Pandaro, dov'è l'arco? ove i veloci tuoi strali? ov'è la gloria in che qui nullo teco gareggia, né verun si vanta licio arcier superarti? Or su, ti sveglia, alza a Giove la mano, un dardo allenta contro costui, qualunque ei sia, che desta cotanta strage, e sì malmena i Teucri, de' quai già molti e forti a giacer pose: se pur egli non fosse un qualche nume adirato con noi per obblïati sacrifizi: e de' numi acerba è l'ira. Così d'Anchise il figlio. E il figlio a lui di Licaone: O delle teucre genti inclito duce Enea, se quello scudo e quell'elmo a tre coni e quei destrieri ben riconosco, colui parmi in tutto il forte Dïomede. E nondimeno negar non l'oso un immortal. Ma s'egli è il mortale ch'io dico, il bellicoso figliuolo di Tidèo, tanto furore non è senza il favor d'un qualche iddio, che di nebbia i celesti omeri avvolto stagli al fianco, e dal petto gli disvìa le veloci saette. Io gli scagliai dianzi un dardo, e lo colsi alla diritta spalla nel cavo del torace, e certo d'averlo mi credea sospinto a Pluto. Pur non lo spensi: e irato quindi io temo qualche nume. Non ho su cui salire or qui cocchio verun. Stolto! che in serbo undici ne lasciai nel patrio tetto di fresco fatti e belli, e di cortine ricoperti, con due d'orzo e di spelda ben pasciuti cavalli a ciascheduno. E sì che il giorno ch'io partii, gli eccelsi nostri palagi abbandonando, il veglio guerriero Licaon molti ne dava prudenti avvisi, e mi facea precetto di guidar sempre mai montato in cocchio le troiane coorti alla battaglia. Certo era meglio l'obbedir; ma, folle! nol feci, ed ebbi ai corridor riguardo, temendo che assueti a largo pasto di pasto non patissero difetto in racchiusa città. Lasciàili adunque, e pedon venni ad Ilio, ogni fidanza posta nell'arco, che giovarmi poscia dovea sì poco. Saettai con questo due de' primi, l'Atride ed il Tidìde, e ferii l'uno e l'altro, e il vivo sangue ne trassi io sì, ma n'attizzai più l'ira. In mal punto spiccai dunque dal muro gli archi ricurvi il dì che al grande Ettore compiacendo qua mossi, e de' Troiani il comando accettai. Ma se redire, se con quest'occhi riveder m'è dato la patria, la consorte e la sublime mia vasta reggia, mi recida ostile ferro la testa, se di propria mano non infrango e non getto nell'accese vampe quest'arco inutile compagno. E al borïoso il duce Enea: Non dire, no, questi spregi. Della pugna il volto cangerà, se ambedue sopra un medesmo cocchio raccolti affronterem costui, e farem delle nostre armi periglio. Monta dunque il mio carro, e de' cavalli di Troe vedi la vaglia, e come in campo per ogni lato sappiano veloci inseguire e fuggir. Questi (se avvegna che il Tonante di nuovo a Dïomede dia dell'armi l'onor), questi trarranno salvi noi pure alla cittade. Or via prendi tu questa sferza e queste briglie, ch'io de' corsieri, per pugnar, ti cedo il governo; o costui tu stesso affronta, ché de' corsieri sarà mia la cura. Sì (riprese il figliuol di Licaone) tien tu le briglie, Enea, reggi tu stesso i tuoi cavalli, che la mano udendo del consueto auriga, il curvo carro meglio trarranno, se fuggir fia forza dal figlio di Tidèo. Se lor vien manco la tua voce, potrìan per caso istrano spaventati adombrarsi, e senza legge aggirarsi pel campo, e a trarne fuori della pugna indugiar tanto che il fero Dïomede n'assegua impetuoso, ed entrambi n'uccida, e via ne meni i destrieri di Troe. Resta tu dunque al timone e alle briglie, ché coll'asta io del nemico sosterrò l'assalto. Montâr, ciò detto, sull'adorno cocchio, e animosi drizzâr contra il Tidìde i veloci cavalli. Il chiaro figlio di Capanèo li vide, ed all'amico vòlto il presto parlar, Tidìde, ei disse, mio diletto Tidìde, a pugnar teco veggo pronti venir due di gran nerbo valorosi guerrier, l'uno il famoso Pandaro arciero che figliuol si vanta di Licaone, e l'altro Enea che prole vantasi ei pur di Venere e d'Anchise. Su, presto in cocchio; ritiriamci, e incauto tu non istarmi a furiar tra i primi con sì gran rischio della dolce vita. Bieco guatollo il gran Tidìde, e disse: Non parlarmi di fuga. Indarno tenti persuadermi una viltà. Fuggire dal cimento e tremar, non lo consente la mia natura: ho forze intégre, e sdegno de' cavalli il vantaggio. Andrò pedone, quale mi trovo, ad incontrar costoro; ché Pallade mi vieta ogni paura. Ma non essi ambedue salvi di mano ci scapperan, dai rapidi sottratti lor corridori, ed avverrà che appena ne scampi un solo. Un altro avviso ancora vo' dirti, e tu non l'obblïar. Se fia che l'alto onore d'atterrarli entrambi la prudente Minerva mi conceda, tu per le briglie allora i miei cavalli lega all'anse del cocchio, e ratto vola ai cavalli d'Enea, e dai Troiani via te li mena fra gli Achei. Son essi della stirpe gentil di quei che Giove, prezzo del figlio Ganimede, un giorno a Troe donava; né miglior destrieri vede l'occhio del Sole e dell'Aurora. Al re Laomedonte il prence Anchise la razza ne furò, sopposte ai padri segretamente un dì le sue puledre che di tale imeneo sei generosi corsier gli partoriro. Egli n'impingua quattro di questi a sé nel suo presepe, e due ne cesse al figlio Enea, superbi cavalli da battaglia. Ove n'avvegna di predarli, n'avremo immensa lode. Mentre seguìan tra lor queste parole, quelli incitando i corridor veloci tosto appressârsi, e Pandaro primiero favellò: Bellicoso ardito figlio dell'illustre Tidèo, poiché l'acuto mio stral non ti domò, vengo a far prova s'io di lancia ferir meglio mi sappia. Così detto, la lunga asta vibrando fulminolla, e colpì di Dïomede lo scudo sì, che la ferrata punta tutto passollo, e ne sfiorò l'usbergo. Sei ferito nel fianco (alto allor grida l'illustre feritor), né a lungo, io spero, vivrai: la gloria che mi porti è somma. Errasti, o folle, il colpo (imperturbato gli rispose l'eroe); ben io m'avviso ch'uno almeno di voi, pria di ristarvi da questa zuffa, nel suo sangue steso l'ira di Marte sazierà. Ciò detto, scagliò. Minerva ne diresse il telo, e a lui che curvo lo sfuggìa, cacciollo tra il naso e il ciglio. Penetrò l'acuto ferro tra' denti, ne tagliò l'estrema lingua, e di sotto al mento uscì la punta. Piombò dal cocchio, gli tonâr sul petto l'armi lucenti, sbigottîr gli stessi cavalli, e a lui si sciolsero per sempre e le forze e la vita. Enea temendo in man non caggia degli Achei l'ucciso, scese, e protesa a lui l'asta e lo scudo giravagli dintorno a simiglianza di fier lïone in suo valor sicuro; e parato a ferir qual sia nemico che gli si accosti, il difendea gridando orribilmente. Diè di piglio allora ad un enorme sasso Dïomede di tal pondo, che due nol porterebbero degli uomini moderni; ed ei vibrandolo agevolmente, e solo e con grand'impeto scagliandolo, percosse Enea nell'osso che alla coscia s'innesta ed è nomato ciotola. Il fracassò l'aspro macigno con ambi i nervi, e ne stracciò la pelle. Diè del ginocchio al grave colpo in terra l'eroe ferito, e colla man robusta puntellò la persona. Un negro velo gli coperse le luci, e qui perìa, se di lui tosto non si fosse avvista l'alma figlia di Giove Citerea che d'Anchise pastor l'avea concetto. Intorno al caro figlio ella diffuse le bianche braccia, e del lucente peplo gli antepose le falde, onde dall'armi ripararlo, e impedir che ferro acheo gli passi il petto e l'anima gl'involi. Mentre al fiero conflitto ella sottragge il diletto figliuol, Stènelo il cenno membrando dell'amico, ne sostiene in disparte i cavalli, e prestamente all'anse della biga avviluppate le redini, s'avventa ai ben chiomati corridori d'Enea; di mezzo ai Teucri agli Achivi li spinge, ed alle navi spedisceli fidati al dolce amico Dëipilo, cui sopra ogni altro eguale, perché d'alma conforme, in pregio ei tiene. Esso intanto l'eroe capaneìde rimontato il suo cocchio, e in man riprese le riluccnti briglie, allegramente de' cavalli sonar l'ugna facea dietro il Tidìde che coll'empio ferro l'alma Venere insegue, la sapendo non una delle Dee che de' mortali godon le guerre amministrar, siccome Minerva e la di mura atterratrice torva Bellona, ma un'imbelle Diva. Poiché raggiunta per la folta ei l'ebbe, abbassò l'asta il fiero, e coll'acuto ferro l'assalse, e della man gentile gli estremi le sfiorò verso il confine della palma. Forò l'asta la cute, rotto il peplo odoroso a lei tessuto dalle Grazie, e fluì dalla ferita l'icòre della Dea, sangue immortale, qual corre de' Beati entro le vene; ch'essi, né frutto cereal gustando né rubicondo vino, esangui sono, e quindi han nome d'Immortali. Al colpo died'ella un forte grido, e dalle braccia depose il figlio, a cui difesa Apollo corse tosto, e l'ascose entro una nube, onde camparlo dall'achee saette. Il bellicoso Dïomede intanto, Cedi, figlia di Giove, alto gridava, cedi il piè dalla pugna. E non ti basta sedur d'imbelli femminette il core? Se qui troppo t'avvolgi, io porto avviso che tale desteratti orror la guerra, ch'anco il sol nome ti darà paura. Disse; ed ella turbata ed affannosa partiva. La veloce Iri per mano la prese, la tirò fuor del tumulto carca di doglie e livida le nevi della morbida cute. Alla sinistra della pugna seduto il furibondo Marte trovò: la grande asta del Nume e i veloci corsier cingea la nebbia. Gli abbracciò le ginocchia supplicando la sorella, e gridò: Caro fratello, miserere di me, dammi il tuo cocchio ond'io salga all'Olimpo. Assai mi cruccia una ferita che mi feo la destra d'un ardito mortal, di Dïomede, che pur con Giove piglierìa contesa. Sì prega, e Marte i bei destrier le cede. Salì sul cocchio allor la dolorosa, salì al suo fianco la taumanzia figlia, e in man tolte le briglie, a tutto corso i cavalli sferzò che desïosi volavano. Arrivâr tosto all'Olimpo, eccelsa sede degli Eterni. Quivi arrestò la veloce Iri i corsieri, li disciolse dal giogo, e ristorolli d'immortal cibo. La divina intanto Venere al piede si gittò dell'alma genitrice Dïona, che la figlia raccogliendo al suo seno, e colla mano la carezzando e interrogando, Oh! disse, oh! chi mai de' Celesti si permise, amata figlia, in te sì grave offesa, come rea di gran fallo alla scoperta? Il superbo Tidìde Dïomede, rispose Citerea, l'empio ferimmi perché il mio figlio, il mio sovra ogni cosa diletto Enea sottrassi dalla pugna, che pugna non è più di Teucri e Achivi, ma d'Achivi e di numi. - E a lei Dïona inclita Diva replicò: Sopporta in pace, o figlia, il tuo dolor; ché molti degl'Immortali con alterno danno molte soffrimmo dai mortali offese. Le soffrì Marte il dì che gli Aloìdi Oto e il forte Efïalte l'annodaro d'aspre catene. Un anno avvinto e un mese in carcere di ferro egli si stette, e forse vi perìa, se la leggiadra madrigna Eeribèa nol rivelava al buon Mercurio che di là furtivo lo sottrasse, già tutto per la lunga e dolorosa prigionìa consunto. Le soffrì Giuno allor che il forte figlio d'Anfitrïone con trisulco dardo la destra poppa le piagò, sì ch'ella d'alto duol ne fu colta. Anco il gran Pluto dal medesmo mortal figlio di Giove aspro sofferse di saetta un colpo là su le porte dell'Inferno, e tale lo conquise un dolor, che lamentoso e con lo stral ne' duri omeri infisso all'Olimpo sen venne, ove Peone, di lenitivi farmaci spargendo la ferita, il sanò; ché sua natura mortal non era: ma ben era audace e scellerato il feritor che d'ogni nefario fatto si fea beffe, osando fin gli abitanti saettar del cielo. Oggi contro te pur spinse Minerva il figlio di Tidèo. Stolto! ché seco punto non pensa che son brevi i giorni di chi combatte con gli Dei: né babbo lo chiameran tornato dalla pugna i figlioletti al suo ginocchio avvolti. Benché forte d'assai, badi il Tidìde ch'un più forte di te seco non pugni; badi che l'Adrastina Egïalèa, di Dïomede generosa moglie, presto non debba risvegliar dal sonno ululando i famigli, e il forte Acheo plorar che colse il suo virgineo fiore. In questo dir con ambedue le palme la man le asterse dal rappreso icòre, e la man si sanò, queta ogni doglia. Riser Giuno e Minerva a quella vista, e con amaro motteggiar la Diva dalle glauche pupille il genitore così prese a tentar. Padre, senz'ira un fiero caso udir vuoi tu? Ciprigna qualche leggiadra Achea sollecitando a seguir seco i suoi Teucri diletti, nel carezzarla ed acconciarle il peplo, a un aurato ardiglione, ohimè! s'è punta la dilicata mano. - Il sommo padre grazïoso sorrise, e a sé chiamata l'aurea Venere, Figlia, le dicea, per te non sono della guerra i fieri studi, ma l'opre d'Imeneo soavi. A queste intendi, ed il pensier dell'armi tutto a Marte lo lascia ed a Minerva. Mentre in cielo seguìan queste favelle, contro il figlio d'Anchise il bellicoso Dïomede si spinge, né l'arresta il saper che la man d'Apollo il copre. Desïoso di porre Enea sotterra e spogliarlo dell'armi peregrine, nulla ei rispetta un sì gran Dio. Tre volte a morte l'assalì, tre volte Apollo gli scosse in faccia il luminoso scudo. Ma come il forte Calidonio al quarto impeto venne, il saettante nume terribile gridò: Guarda che fai; via di qua, Dïomede; il paragone non tentar degli Dei, ché de' Celesti e de' terrestri è disugual la schiatta. Disse; e alquanto l'eroe ritrasse il piede l'ira evitando dell'arciero Apollo, che, fuor condutto della mischia Enea, nella sagrata Pergamo fra l'are del suo delubro il pose. Ivi Latona, ivi l'amante dello stral Dïana lo curâr, l'onoraro. Intanto Apollo formò di tenue nebbia una figura in sembianza d'Enea; d'Enea le finse l'armi, e dintorno al vano simulacro Teucri ed Achei facean di targhe e scudi un alterno spezzar che intorno ai petti orrendo risonava. Allor si volse al Dio dell'armi il Dio del giorno, e disse: Eversor di città, Marte omicida, che sol nel sangue esulti, e non andrai ad aggredir tu dunque, a cacciar lungi questo altiero mortal, questo Tidìde che alle mani verrìa con Giove ancora? Egli assalse e ferì prima Ciprigna al carpo della mano; indi avventossi a me medesmo coll'ardir d'un Dio. Sì dicendo, s'assise alto sul colmo della pergàmea rocca, e il rovinoso Marte sen corse a concitar de' Teucri le schiere, e preso d'Acamante il volto, d'Acamante de' Traci esimio duce, così prese a spronar di Priamo i figli: Illustri Prïamìdi, e sino a quando permetterete della vostra gente per la man degli Achei sì rio macello? Sin tanto forse che la strage arrivi alle porte di Troia? A terra è steso l'eroe che al pari del divino Ettorre onoravamo, Enea preclaro figlio del magnanimo Anchise. Andiam, si voli alla difesa di cotanto amico. Destâr la forza e il cor d'ogni guerriero queste parole. Sarpedon con aspre rampogne allora rabbuffando Ettorre, Dove andò, gli dicea, l'alto valore che poc'anzi t'avevi? E pur t'udimmo vantarti che tu sol senza l'aita de' collegati, e co' tuoi soli affini e co' fratei bastavi alla difesa della città. Ma niuno io qui ne veggo, niun ne ravviso di costor, ché tutti trepidanti s'arretrano siccome timidi veltri intorno ad un leone: e qui frattanto combattiam noi soli, noi venuti in sussidio. Io che mi sono pur della lega, di lontana al certo parte mi mossi, dalla licia terra, dal vorticoso Xanto, ove la cara moglie ed un figlio pargoletto e molti lasciai di quegli averi a cui sospira l'uomo mai sempre bisognoso. E pure alleato, qual sono, i miei guerrieri esorto alla battaglia, ed io medesmo sto qui pronto a pugnar contra costui, benché qui nulla io m'abbia che il nemico rapir mi possa, né portarlo seco. E tu ozïoso ti ristai? né almeno agli altri accenni di far fronte, e in salvo por le consorti? Guàrdati, che presi, siccome in ragna che ogni cosa involve, non divenghiate del crudel nemico cattura e preda, e ch'ei tra poco al suolo la vostr'alma cittade non adegui. A te tocca l'aver di ciò pensiero e giorno e notte, a te dell'alleanza i capitani supplicar, che fermi resistano al lor posto, e far che niuna cagion più sorga di rampogne acerbe. D'Ettore al cor fu morso amaro il detto di Sarpedonte, sì che tosto a terra saltò dal cocchio in tutto punto, e l'asta scotendo ad animar corse veloce d'ogni parte i Troiani alla battaglia, e destò mischia dolorosa. Allora voltâr la fronte i Teucri, e impetuosi fêrsi incontro agli Achei, che stretti insieme gli aspettâr di piè fermo e senza tema. Come allor che di Zefiro lo spiro disperde per le sacre aie la pula, mentre la bionda Cerere la scevra dal suo frutto gentil, che il buon villano vien ventilando; lo leggier spulezzo tutta imbianca la parte ove del vento lo sospinge il soffiar: così gli Achivi inalbava la polve al cielo alzata dall'ugna de' cavalli entrati allora sotto la sferza degli aurighi in zuffa. Difilati portavano i Troiani il valor delle destre, e furïoso li soccorrea Gradivo discorrendo il campo tutto, e tutta di gran buio la battaglia coprendo. E sì di Febo i precetti adempìa, di Febo Apollo d'aurea spada precinto, che comando dato gli avea d'accendere ne' Teucri l'ardimento guerrier, vista partire l'aiutatrice degli Achei Minerva. Fuori intanto de' pingui aditi sacri Enea messo da Febo, e per lui tutto di gagliardìa ripieno appresentossi a' suoi compagni che gioîr, vedendo vivo e salvo il guerriero e rintegrato delle pristine forze. Ma gravarlo d'alcun dimando il fier nol consentìa lavor dell'armi che dell'arco il divo sire eccitava, e l'omicida Marte, e la Discordia ognor furente e pazza. D'altra parte gli Aiaci e Dïomede e il re dulìchio anch'essi alla battaglia raccendono gli Achei già per sé stessi né la furia tementi né le grida de' Dardani, ma fermi ad aspettarli. Quai nubi che de' monti in su la cima immote arresta di Saturno il figlio quando l'aria è tranquilla e il furor dorme degli Aquiloni o d'altro impetuoso di nubi fugator vento sonoro; di piè fermo così senza veruno pensier di fuga attendono gli Achivi de' Troiani l'assalto. E Agamennóne per le file scorrendo, e molte cose d'ogni parte avvertendo, Amici, ei grida, uomini siate e di cor forte, e ognuno nel calor della pugna il guardo tema del suo compagno. De' guerrier che infiamma generoso pudore, i salvi sono più che gli uccisi; chi rossor di fuga non sente, ha persa coll'onor la forza. Scagliò l'asta, ciò detto, ed un guerriero percosse de' primai, commilitone del magnanimo Enea, Dëicoonte, di Pèrgaso figliuol tenuto in pregio dai Teucri al paro che di Priamo i figli, perché presto a pugnar sempre tra' primi. Colpillo Atride nell'opposto scudo che difesa non fece. Trapassollo tutto la lancia, e per lo cinto all'imo ventre discese. Strepitoso ei cadde, e l'armi rimbombâr sovra il caduto. Enea diè morte di rincontro a due valentissimi, Orsiloco e Cretone, figli a Dïòcle, della ben costrutta città di Fere un ricco abitatore. Scendea costui dal fiume Alfeo che largo la pilia terra di bell'acque inonda: Alfèo produsse Orsiloco di molte genti signore, Orsiloco Dïòcle, e Dïòcle costor, mastri di guerra d'un sol parto acquistati. Aveano entrambi già fatti adulti navigato a Troia per onor degli Atridi, e qui la vita entrambi terminâr. Quai due leoni, cui la madre sul monte entro i recessi d'alto speco educò, fan ruba e guasto delle mandre, de' greggi e delle stalle, finché dal ferro de' pastor raggiunti caggiono anch'essi; e tali allor dall'asta d'Enea percossi caddero costoro col fragor di recisi eccelsi abeti. Strinse pietà dei due caduti il petto del prode Menelao, che tosto innanzi si spinse di lucenti armi vestito l'asta squassando. E Marte, che domarlo per man d'Enea fa stima, il cor gli attizza. Del magnanimo Nestore il buon figlio Antiloco osservollo, e un qualche danno paventando all'Atride, un qualche grave storpio all'impresa degli Achei, processe nell'antiguardo. Già s'aveano incontro abbassate le picche i due campioni pronti a ferir, quando d'Atride al fianco Antiloco comparve: e di due tali viste le forze in un congiunte, Enea, benché prode guerriero, retrocesse. Trassero questi tra gli Achei gli estinti Orsiloco e Cretone, e d'ambedue le miserande spoglie in man deposte degli amici, dier volta, e nella pugna novellamente si mischiâr tra' primi. Fu morto il duce allor de' generosi scudati Paflagoni, il marziale Pilemene. Il ferì d'asta alla spalla l'Atride Menelao. Lo suo sergente ed auriga Midon, gagliardo figlio d'Antimnio, cadde per la man d'Antiloco. Dava questo Midon, per via fuggirsi, la volta al cocchio. Antiloco nel pieno del cubito il ferì con tale un colpo di sasso, che gittògli al suol le belle eburnee briglie. Gli fu tosto sopra il feritor col brando, e su la tempia d'un dritto l'attastò, che giù dal carro lo travolse, e ficcògli nella sabbia testa e spalle. Anelante in quello stato ei restossi gran pezza, ché profondo era il sabbion; finché i destrier del tutto lo riversâr calpesto nella polve. Diè lor di piglio Antiloco, e veloce col flagello li spinse al campo acheo. Com'Ettore di mezzo all'ordinanze vide lor prove, impetuoso mosse con alte grida ad investirli, e dietro de' Teucri si traea le forti squadre cui Marte è duce e la feral Bellona. Bellona in compagnìa vien dell'orrendo tumulto della zuffa; e Marte in pugno palleggia un'asta smisurata, e or dietro or davanti cammina al grande Ettorre. Turbossi a quella vista il bellicoso Tidìde; e quale della strada ignaro vïator che trascorsa un'ampia landa giunge a rapido fiume che mugghiante l'onda del mar devolve, e visto il flutto che freme e spuma, di fuggir s'affretta l'orme sue ricalcando: a questa guisa retrocesse il Tidìde, e al suo drappello volgendo le parole: Amici, ei disse, qual fia stupor se forte d'asta e audace combattente si mostra il duce Ettorre? Sempre al fianco gli viene un qualche iddio che alla morte l'invola; ed or lo stesso Marte in sembianza d'un mortal l'assiste. Non vogliate attaccar dunque co' numi ostinata contesa, e date addietro, ma col viso ognor vòlto all'inimico. Mentr'egli sì dicea, scagliârsi i Teucri addosso alla sua schiera. E quivi Ettorre a morte mise due guerrier, nell'armi assai valenti e in un sol cocchio ascesi, Anchïalo e Meneste. Ebbe di loro pietade il grande Telamonio Aiace, e féssi avanti e stette, e la lucente asta lanciando, Anfio colpì, che figlio di Selago tenea suo seggio in Peso ricco d'ampie campagne. Ma la nera Parca ad Ilio il menò confederato del re troiano e de' suoi figli. Il colse sul cinto il lungo telamonio ferro, e nell'imo del ventre si confisse. Diè cadendo un rimbombo, e a dispogliarlo corse l'illustre vincitor; ma un nembo i Troiani piovean di frecce acute che d'irta selva gli coprîr lo scudo. Ben egli al morto avvicinossi, e il petto calcandogli col piè, la fulgid'asta ne sferrò, ma dall'omero le belle armi rapirgli non poteo: sì densa la grandine il premea delle saette. E temendo l'eroe nol circuisse de' Troiani la piena, che ristretti erano e molti e poderosi, e tutti con armi d'ogni guisa e d'ogni tiro ad incalzarlo, a repulsarlo intesi, ei benché forte e di gran corpo e d'alto ardir diè volta, e si ritrasse addietro. Mentre questi alle mani in questa parte si travaglian così, nemico fato contra l'illustre Sarpedon sospinse l'Eraclide Tlepòlemo, guerriero di gran persona e di gran possa. Or come a fronte si trovâr quinci il nepote e quindi il figlio del Tonante Iddio, Tlepòlemo primiero così disse: Duce de' Licii Sarpedon, qual uopo rozzo in guerra a tremar qua ti condusse? È mentitor chi dell'Egìoco Giove germe ti dice. Dal valor dei forti, che nell'andata età nacquer di lui, troppo lungi se' tu. Ben altro egli era il mio gran genitor, forza divina, cuor di leone. Qua venuto un giorno a via menar del re Laomedonte i promessi destrieri, egli con sole sei navi e pochi armati Ilio distrusse, e vedovate ne lasciò le vie. Tu sei codardo, tu a perir qui traggi i tuoi soldati, tu veruna aita, col tuo venir di Licia, non darai alla dardania gente; e quando pure un gagliardo ti fossi, il braccio mio qui stenderatti e spingeratti a Pluto. E di rimando a lui de' Licii il duce: Tlepòlemo, le sacre iliache mura Ercole, è ver, distrusse, e la scempiezza del frigio sire il meritò, che ingrato al beneficio con acerbi detti oltraggiollo; e i destrieri, alta cagione di sua venuta, gli negò. Ma i vanti paterni non torran che la mia lancia qui non ti prostri. Tu morrai: son io che tel predìco, e a me l'onor qui tosto darai della vittoria, e l'alma a Pluto. Ciò detto appena, sollevaro in alto i ferrati lor cerri ambo i guerrieri, ed ambo a un tempo gli scagliâr. Percosse Sarpedonte il nemico a mezzo il collo, sì che tutto il passò l'asta crudele, e a lui gli occhi coperse eterna notte. Ma il telo uscito nel medesmo istante dalla man di Tlepòlemo la manca coscia ferì di Sarpedon. Passolla infino all'osso la fulminea punta, ma non diè morte, ché vietollo il padre. Accorsero gli amici, e dal tumulto sottrassero l'eroe che del confitto telo di molto si dolea, né mente v'avea posto verun, né s'avvisava di sconficcarlo dalla coscia offesa, onde espedirne il camminar: tant'era del salvarlo la fretta e la faccenda. Dall'altra parte i coturnati Achei di Tlepòlemo anch'essi dalla pugna ritraggono la salma. Al doloroso spettacolo la forte alma d'Ulisse si commosse altamente; e in suo pensiero divisando ne vien s'ei prima insegua di Giove il figlio, o più gli torni il darsi alla strage de' Licii. Alla sua lancia non concedean le Parche il porre a morte del gran Tonante il valoroso seme. Scagliasi ei dunque da Minerva spinto nella folta dei Licii, e quivi uccide l'un sovra l'altro Alastore, Cerano, Cromio, Pritani, Alcandro, e Noemone ed Alio: e più n'avrìa di lor prostrati il divino guerrier, se il grande Ettorre di lui non s'accorgea. Tra i primi ei dunque processe di corrusche armi splendente, e portante il terror ne' petti argivi. Come il vide vicin fe' lieto il core Sarpedonte, e con voce lamentosa: Generoso Prïamide, dicea, non lasciarmi giacer preda al nemico: mi soccorri, e la vita m'abbandoni nella vostra città, poiché m'è tolto il tornarmi al natìo dolce terreno, e d'allegrezza spargere la mia diletta moglie e il pargoletto figlio. Non rispose l'eroe; ma desïoso di vendicarlo e ricacciar gli Achivi colla strage di molti, oltre si spinse. In questo mezzo la pietosa cura de' compagni adagiò sotto un bel faggio a Giove sacro Sarpedonte, e il telo dalla piaga gli svelse il valoroso diletto amico Pelagon. Nell'opra svenne il ferito, e s'annebbiò la vista; ma l'aura boreal, che fresca intorno ventavagli, tornò ne' primi uffici della vita gli spirti; e nell'anelo petto affannoso ricreògli il core. Da Marte intanto e dall'ardente Ettorre assaliti gli Achei né paurosi verso le navi si fuggìan, né arditi farsi innanzi sapean. Ma quando il grido corse tra lor che Marte era co' Teucri, indietro si piegâr sempre cedendo. Or chi prima, chi poi fu l'abbattuto dal ferreo Marte e dall'audace Ettorre? Teutrante che sembianza avea d'un Dio, l'agitatore di cavalli Oreste, il vibrator di lancia Etolio Treco, e l'Enopide Elèno, ed Enomào, e d'armi adorno di color diverso Oresbio che a far d'oro alte conserve posto il pensier, tenea suo seggio in Ila appo il lago Cefisio ov'altri assai opulenti Beozi avean soggiorno. Tale e tanta d'Achivi occisïone Giuno mirando, a Pallade si volse, e con preste parole: Ohimè! le disse, invitta figlia dell'Egìoco Giove, se libera lasciam dell'omicida Marte la furia, indarno a Menelao noi promettemmo dell'iliache torri la caduta, e felice il suo ritorno. Or via, scendiamo, e di valor noi pure facciam prova laggiù. Disse, e Minerva tenne l'invito. Allor la veneranda Saturnia Giuno ad allestir veloce corse i d'oro bardati almi destrieri. Immantinente al cocchio Ebe le curve ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna d'otto raggi di bronzo, e si rivolve sovra l'asse di ferro. Il giro è tutto d'incorruttibil oro, ma di bronzo le salde lame de' lor cerchi estremi. Maraviglia a veder! Son puro argento i rotondi lor mozzi, e vergolate d'argento e d'ôr del cocchio anco le cinghie con ambedue dell'orbe i semicerchi, a cui sospese consegnar le guide. Si dispicca da questo e scorre avanti pur d'argento il timone, in cima a cui Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre pettiere; e queste parimenti e quello d'auro sono contesti. Desïosa Giuno di zuffe e del rumor di guerra, gli alipedi veloci al giogo adduce. Né Minerva s'indugia. Ella diffuso il suo peplo immortal sul pavimento delle sale paterne, effigïato peplo, stupendo di sua man lavoro, e vestita di Giove la corazza, di tutto punto al lagrimoso ballo armasi. Intorno agli omeri divini pon la ricca di fiocchi Egida orrenda, che il Terror d'ogn'intorno incoronava. Ivi era la Contesa, ivi la Forza, ivi l'atroce Inseguimento, e il diro Gorgonio capo, orribile prodigio dell'Egìoco signore. Indi alla fronte l'aurea celata impone irta di quattro eccelsi coni, a ricoprir bastante eserciti e città. Tale la Diva monta il fulgido cocchio, e l'asta impugna pesante, immensa, poderosa, ond'ella intere degli eroi le squadre atterra irata figlia di potente iddio. Giuno, al governo delle briglie, affretta col flagello i corsieri. Cigolando per sé stesse s'aprîr l'eteree porte custodite dall'Ore a cui commessa del gran cielo è la cura e dell'Olimpo, onde serrare e disserrar la densa nube che asconde degli Dei la sede. Per queste porte dirizzâr le Dive i docili cavalli, e ritrovaro scevro dagli altri Sempiterni e solo su l'alta vetta dell'Olimpo assiso di Saturno il gran figlio. Ivi i destrieri sostò la Diva dalle bianche braccia, e il supremo de' numi interrogando: Giove padre, gli disse, e non ti prende sdegno de' fatti di Gradivo atroci? Non vedi quanta e quale il furibondo strage non giusta degli Achei commette? Io ne son dolorosa: e queti intanto si letiziano Apollo e Citerea, essi che questo d'ogni legge schivo forsennato aizzâr. Padre, s'io scendo a rintuzzar l'audace, a discacciarlo dalla pugna, n'andrai tu meco in ira? Va, le rispose delle nubi il sire, spingi contra costui la predatrice Minerva, a farlo assai dolente usata. Di ciò lieta la Dea fe' su le groppe de' corsieri sonar la sferza; e quelli infra la terra e lo stellato cielo desïosi volaro; e quanto vede d'aereo spazio un uom che in alto assiso stende il guardo sul mar, tanto d'un salto ne varcâr delle Dive i tempestosi destrier. Là giunte dove l'onde amiche confondono davanti all'alta Troia Simoenta e Scamandro, ivi rattenne Giuno i cavalli, gli staccò dal cocchio, e di nebbia li cinse. Il Simoenta loro un pasco fornì d'ambrosie erbette. Tacite allora, e col leggiero incesso di timide colombe ambe le Dive appropinquârsi al campo acheo, bramose di dar soccorso a' combattenti. E quando arrivâr dove molti e valorosi, come stuol di cinghiali o di lïoni, si stavano ristretti intorno al forte figliuolo di Tidèo, presa la forma di Stèntore che voce avea di ferro, e pareggiava di cinquanta il grido, Giuno sclamò: Vituperati Argivi, mere apparenze di valor, vergogna! Finché mostrossi in campo la divina fronte d'Achille, non fur osi i Teucri scostarsi mai dalle dardanie porte; cotanto di sua lancia era il terrore. Or lungi dalle mura insino al mare vengono audaci a cimentar la pugna. Sì dicendo svegliò di ciascheduno e la forza e l'ardir. Sorgiunse in questa la cerula Minerva a Dïomede ch'appo il carro la piaga, onde l'offese di Pandaro lo stral, refrigerava; e colla stanca destra sollevando dello scudo la soga tutta molle di molesto sudor, tergea del negro sangue la tabe. Colla man posata sul giogo de' corsier la Dea sì disse: Tidèo per certo generossi un figlio che poco lo somiglia. Era Tidèo picciol di corpo, ma guerriero; e quando io gli vietava di pugnar, fremea. E quando senza compagnìa venuto ambasciatore a Tebe io co' Tebani ne' regii alberghi a banchettar l'astrinsi, non depose egli, no, la bellicosa alma di prima, ma sfidando il fiore de' giovani Cadmei, tutti li vinse agevolmente col mio nume al fianco. E al tuo fianco del pari io qui ne vegno, e ti guardo e t'esorto e ti comando di pugnar co' Troiani arditamente. Ma te per certo o la fatica oppresse, o qualche tema agghiaccia, e tu non sei più, no, la prole del pugnace Enìde. Ti riconosco, o Dea (tosto rispose il valoroso eroe), ti riconosco, figlia di Giove, e di buon grado e netta mia ragione dirò. Né vil timore né ignavia mi rattien, ma il tuo comando. Non se' tu quella che pugnar poc'anzi mi vietasti co' numi? E se la figlia di Giove Citerea nel campo entrava, non mi dicesti di ferirla? Il feci. Ed or recedo, e agli altri Achivi imposi d'accogliersi qui tutti, ora che Marte, ben lo conosco, de' Troiani è il duce. E a lui la Diva dalle luci azzurre: Diletto Dïomede, alcuna tema di questo Marte non aver, né d'altro qualunque iddio, se tua difesa io sono. Sorgi, e drizza in costui gl'impetuosi tuoi corridori, e stringilo e il percuoti, né riguardo t'arresti né rispetto di questo insano ad ogni mal parato e ad ogni parteggiar, che a me pur dianzi e a Giuno promettea che contra i Teucri a pro de' Greci avrìa pugnato; ed ora immemore de' Greci i Teucri aiuta. Sì dicendo afferrò colla possente destra il figliuol di Capanèo, dal carro traendolo; né quegli a dar fu tardo un salto a terra; ed ella stessa ascese sovra il cocchio da canto a Dïomede infiammata di sdegno. Orrendamente l'asse al gran pondo cigolò, ché carco d'una gran Diva egli era e d'un gran prode. Al sonoro flagello ed alle briglie diè di piglio Minerva, e senza indugio contra Marte sospinse i generosi cornipedi. Lo giunse appunto in quella che atterrato l'enorme Perifante (un fortissimo Etòlo, egregio figlio d'Ochesio), il Dio crudel lordo di sangue lo trucidava. In arrivar si pose Minerva di Pluton l'elmo alla fronte, onde celarsi di quel fero al guardo. Come il nume omicida ebbe veduto l'illustre Dïomede, al suol disteso lasciò l'immenso Perifante, e dritto ad investir si spinse il cavaliero. E tosto giunti l'un dell'altro a fronte, Marte il primo scagliò l'asta di sopra al giogo de' corsier lungo le briglie, di rapirgli la vita desïoso: ma prese colla man l'asta volante la Dea Minerva e la stornò dal carro, e vano il colpo riuscì. Secondo spinse l'asta il Tidìde a tutta forza. La diresse Minerva, e al Dio l'infisse sotto il cinto nell'epa, e vulnerollo, e lacerata la divina cute l'asta ritrasse. Mugolò il ferito nume, e ruppe in un tuon pari di nove o dieci mila combattenti al grido quando appiccan la zuffa. I Troi l'udiro, l'udîr gli Achivi, e ne tremâr: sì forte fu di Marte il muggito. E quale pel grave vento che spira dalla calda terra si fa di nubi tenebroso il cielo; tal parve il ferreo Marte a Dïomede, mentre avvolto di nugoli alle sfere dolorando salìa. Giunto alla sede degli Dei su l'Olimpo, accanto a Giove mesto s'assise, discoperse il sangue immortal che scorrea dalla ferita, e in suono di lamento: O padre, ei disse, e non t'adiri a cotal vista, a fatti sì nequitosi? Esizïosa sempre a noi Divi tornò la mutua gara di gratuir l'umana stirpe; e intanto di nostre liti la cagion tu sei, tu che una figlia generasti insana, e di sterminii e di malvage imprese invaghita mai sempre. Obbedïenti hai quanti alberga Sempiterni il cielo; tutti inchiniamo a te. Sola costei né con fatti frenar né con parole tu sai per anco, connivente padre di pestifera furia. Ella pur dianzi stimolò di Tidèo l'audace figlio a pazzamente guerreggiar co' numi; ella a ferir Ciprigna; ella a scagliarsi contra me stesso, e pareggiarsi a un Dio. E se più tardo il piè fuggìa, sarei steso rimasto fra quei tanti uccisi in lunghe pene, né morir potendo m'avrìa de' colpi infranto la tempesta. Bieco il guatò l'adunator de' nembi Giove, e rispose: Querimonie e lai non mi far qui seduto al fianco mio, fazïoso incostante, e a me fra tutti i Celesti odïoso. E risse e zuffe e discordie e battaglie, ecco le care tue delizie. Trasfuso in te conosco di tua madre Giunon l'intollerando inflessibile spirto, a cui mal posso pur colle dolci riparar; né certo d'altronde io penso che il tuo danno or scenda, che dal suo torto consigliar. Non io vo' per questo patir che tu sostegna più lungo duolo: mi sei figlio, e caro la Dea tua madre a me ti partorìa. Se malvagio, qual sei, d'altro qualunque nume nascevi, da gran tempo avresti sorte incorsa peggior degli Uranìdi. Così detto, a Peon comando ei fece di risanarlo. La ferita ei sparse di lenitivo medicame, e tolto ogni dolore, il tornò sano al tutto, ché mortale ei non era. E come il latte per lo gaglio sbattuto si rappiglia, e perde il suo fluir sotto la mano del presto mescitor; presta del pari la peonia virtù Marte guarìa. Ebe poscia lavollo, e di leggiadre vesti l'avvolse; ed egli accanto a Giove dell'alto onor superbo si ripose. Repressa del crudel Marte la strage, tornâr contente alla magion del padre Giuno Argiva e Minerva Alalcomènia. LIBRO SESTO Soli senz'alcun Dio Teucri ed Achei così restaro a battagliar. Più volte tra il Simoenta e il Xanto impetuosi si assaliro; più volte or da quel lato ed or da questo con incerte penne la Vittoria volò. Ruppe di Troi primo una squadra il Telamonio Aiace, presidio degli Achivi, e il primo raggio portò di speme a' suoi, ferendo un Trace fortissimo guerriero e di gran mole, Acamante d'Eussòro. Il colse in fronte nel cono dell'elmetto irto d'equine chiome, e nell'osso gli piantò la punta sì che i lumi gli chiuse il buio eterno. Tolse la vita al Teutranìde Assilo il marzio Dïomede. Era d'Arisbe bella contrada Assilo abitatore, uom di molta ricchezza, a tutti amico, ché tutti in sua magion, posta lunghesso la via frequente, ricevea cortese. Ma degli ospiti ahi! niuno accorse allora, niun da morte il campò. Solo il suo fido servo Calesio, che reggeagli il cocchio, morto ei pur dal Tidìde, al fianco cadde del suo signore, e con lui scese a Pluto. Eurìalo abbatte Ofelzio e Dreso; e poscia Esepo assalta e Pedaso gemelli, che al buon Bucolïone un dì produsse la Naiade gentile Abarbarèa. Bucolïon del re Laomedonte primogenito figlio, ma di nozze furtive acquisto, conducea la greggia quando alla ninfa in amoroso amplesso mischiossi, e di costor madre la feo. Ma quivi tolse ad ambedue la vita e la bella persona e l'armi il figlio di Mecistèo. Fur morti a un tempo istesso Astïalo dal forte Polipete; il percosso Pidìte dall'acuta asta d'Ulisse; Aretaon da Teucro. D'Antiloco la lancia Ablero atterra, Èlato quella del maggiore Atride, Èlato che sua stanza avea nell'alta Pedaso in riva dell'ameno fiume Satnioente. Euripilo prostese Melanzio; e l'asta dell'eroe Leìto il fuggitivo Fìlaco trafisse. Ma l'Atride minor, strenuo guerriero, vivo Adrasto pigliò. Repente ombrando li costui corridori, e via pel campo paventosi fuggendo in un tenace cespo implicârsi di mirica, e quivi al piede del timon spezzato il carro volâr con altri spaventati in fuga verso le mura. Prono nella polve sdrucciolò dalla biga appo la ruota quell'infelice. Colla lunga lancia Menelao gli fu sopra; e Adrasto a lui abbracciando i ginocchi e supplicando: Pigliami vivo, Atride; e largo prezzo del mio riscatto avrai. Figlio son io di ricco padre, e gran conserva ei tiene d'auro, di rame e di foggiato ferro. Di questi largiratti il padre mio molti doni, se vivo egli mi sappia nelle argoliche navi. - A questo prego già dell'Atride il cor si raddolcìa, già fidavalo al servo, onde alle navi l'adducesse; quand'ecco Agamennòne che a lui ne corre minaccioso e grida: Debole Menelao! e qual ti prende de' Troiani pietà? Certo per loro la tua casa è felice! Or su; nessuno de' perfidi risparmi il nostro ferro, né pur l'infante nel materno seno: perano tutti in un con Ilio, tutti senza onor di sepolcro e senza nome. Cangiò di Menelao la mente il fiero ma non torto parlar, sì ch'ei respinse da sé con mano il supplicante, e lui ferì tosto nel fianco Agamennòne, e supino lo stese. Indi col piede calcato il petto ne ritrasse il telo. Nestore intanto in altra parte accende l'acheo valor, gridando: Amici eroi, Dànai di Marte alunni, alcun non sia ch'ora badi alle spoglie, e per tornarne carco alle navi si rimanga indietro. Non badiam che ad uccidere, e gli uccisi poi nel campo a bell'agio ispoglieremo. Fatti animosi a questo dir gli Achei piombâr su i Teucri, che scorati e domi di nuovo in Ilio si sarìan racchiusi, se il prestante indovino Eleno, figlio del re troiano, non volgea per tempo ad Ettore e ad Enea queste parole: Poiché tutta si folce in voi la speme de' Troiani e de' Licii, e che voi siete i miglior nella pugna e nel consiglio, voi, Ettore ed Enea, qui state, e i nostri alle porte fuggenti rattenete, pria che, con riso del nemico, in braccio si salvin delle mogli. E come tutte ben rincorate le falangi avrete, noi di piè fermo, benché lassi e in dura necessitade, qui farem coll'armi buon ripicco agli Achei. Ciò fatto, a Troia tu, Ettore, ten vola, ed alla madre di' che salga la rocca, e del delubro a Minerva sacrato apra le porte, e vi raccolga le matrone, e il peplo il più grande, il più bello, e a lei più caro di quanti in serbo ne' regali alberghi ella ne tien, deponga umilemente su le ginocchia della Diva, e dodici giovenche le prometta ancor non dome, se la nostra città commiserando e le consorti e i figli, ella dal sacro Ilio allontana il fiero Dïomede combattente crudele, e vïolento artefice di fuga, e per mio senno il più gagliardo degli Achei. Né certo noi tremammo giammai tanto il Pelìde, benché figlio a una Dea, quanto costui che fuor di modo inferocisce, e nullo vien di forze con esso a paragone. Disse: e al cenno fraterno obbedïente Ettore armato si lanciò dal carro con due dardi alla mano; e via scorrendo per lo campo e animando ogni guerriero, rinfrescò la battaglia: e tosto i Teucri voltâr la faccia, e coraggiosi incontro fersi al nemico. S'arretrâr gli Achivi, e la strage cessò; ch'essi mirando sì audaci i Teucri convertir le fronti, stimâr disceso in lor soccorso un Dio. E tuttavia le sue genti Ettorre confortando, gridava ad alta voce: Magnanimi Troiani, e voi di Troia generosi alleati, ah siate, amici, siatemi prodi, e fuor mettete intera la vostra gagliardìa, mentr'io per poco men volo in Ilio ad intimar de' padri e delle mogli i preghi e le votive ecatombi agli Dei. - Parte, ciò detto. Ondeggiano all'eroe, mentre cammina, l'alte creste dell'elmo; e il negro cuoio, che gli orli attorna dell'immenso scudo, la cervice gli batte ed il tallone. Di duellar bramosi allor nel mezzo dell'un campo e dell'altro appresentârsi Glauco, prole d'Ippoloco, e il Tidìde. Come al tratto dell'armi ambo fur giunti, primo il Tidìde favellò: Guerriero, chi se' tu? Non ti vidi unqua ne' campi della gloria finor. Ma tu d'ardire ogni altro avanzi se aspettar non temi la mia lancia. È figliuol d'un infelice chi fassi incontro al mio valor. Se poi tu se' qualche Immortal, non io per certo co' numi pugnerò; ché lunghi giorni né pur non visse di Drïante il forte figlio Licurgo che agli Dei fe' guerra. Su pel sacro Nisseio egli di Bacco le nudrici inseguìa. Dal rio percosse con pungolo crudel gittaro i tirsi tutte insieme, e fuggîr: fuggì lo stesso Bacco, e nel mar s'ascose, ove del fero minacciar di Licurgo paventoso Teti l'accolse. Ma sdegnârsi i numi con quel superbo. Della luce il caro raggio gli tolse di Saturno il figlio, e detestato dagli Eterni tutti breve vita egli visse. All'armi io dunque non verrò con gli Dei. Ma se terreno cibo ti nutre, accòstati; e più presto qui della morte toccherai le mete. E d'Ippoloco a lui l'inclito figlio: Magnanimo Tidìde, a che dimandi il mio lignaggio? Quale delle foglie, tale è la stirpe degli umani. Il vento brumal le sparge a terra, e le ricrea la germogliante selva a primavera. Così l'uom nasce, così muor. Ma s'oltre brami saper di mia prosapia, a molti ben manifesta, ti farò contento. Siede nel fondo del paese argivo Efira, una città, natìa contrada di Sisifo che ognun vincea nel senno. Dall'Eolide Sisifo fu nato Glauco; da Glauco il buon Bellerofonte, cui largiro gli Dei somma beltade, e quel dolce valor che i cuori acquista. Ma Preto macchinò la sua ruina, e potente signor d'Argo che Giove sottomessa gli avea, d'Argo l'espulse per cagione d'Antèa sposa al tiranno. Furïosa costei ne desïava segretamente l'amoroso amplesso; ma non valse a crollar del saggio e casto Bellerofonte la virtù. Sdegnosa del magnanimo niego l'impudica volse l'ingegno alla calunnia, e disse al marito così: Bellerofonte meco in amor tentò meschiarsi a forza: muori dunque, o l'uccidi. Arse di sdegno Preto a questo parlar, ma non l'uccise, di sacro orror compreso. In quella vece spedillo in Licia apportator di chiuse funeste cifre al re suocero, ond'egli perir lo fêsse. Dagli Dei scortato partì Bellerofonte, al Xanto giunse, al re de' Licii appresentossi, e lieta n'ebbe accoglienza ed ospital banchetto. Nove giorni fumò su l'are amiche di nove tauri il sangue. E quando apparve della decima aurora il roseo lume interrogollo il sire, e a lui la tèssera del genero chiedea. Viste le crude note di Preto, comandògli in prima di dar morte all'indomita Chimera. Era il mostro d'origine divina lïon la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco. E nondimeno col favor degli Dei l'eroe la spense. Pugnò poscia co' Sòlimi, e fu questa, per lo stesso suo dir, la più feroce di sue pugne. Domò per terza impresa le Amazzoni virili. Al suo ritorno il re gli tese un altro inganno, e scelti della Licia i più forti, in fosco agguato li collocò; ma non redinne un solo: tutti gli uccise l'innocente. Allora chiaro veggendo che d'un qualche iddio illustre seme egli era, a sé lo tenne, e diegli a sposa la sua figlia, e mezza la regal potestade. Ad esso inoltre costituiro i Licii un separato ed ameno tenér, di tutti il meglio, d'alme viti fecondo e d'auree messi, ond'egli a suo piacer lo si coltivi. Partorì poi la moglie al virtuoso Bellerofonte tre figliuoli, Isandro e Ippoloco, ed alfin Laodamìa che al gran Giove soggiacque, e padre il fece del bellicoso Sarpedon. Ma quando venne in odio agli Dei Bellerofonte, solo e consunto da tristezza errava pel campo Aleio l'infelice, e l'orme de' viventi fuggìa. Da Marte ucciso cadde Isandro co' Sòlimi pugnando; Laodamìa perì sotto gli strali dell'irata Diana; e a me la vita Ippoloco donò, di cui m'è dolce dirmi disceso. Il padre alle troiane mura spedimmi, e generosi sproni m'aggiunse di lanciarmi innanzi a tutti nelle vie del valore, onde de' miei padri la stirpe non macchiar, che fûro d'Efira e delle licie ampie contrade i più famosi. Ecco la schiatta e il sangue di che nato mi vanto, o Dïomede. Allegrossi di Glauco alle parole il marzïal Tidìde, e l'asta in terra conficcando, all'eroe dolce rispose: Un antico paterno ospite mio, Glauco, in te riconosco. Enèo, già tempo, ne' suoi palagi accolse il valoroso Bellerofonte, e lui ben venti interi giorni ritenne, e di bei doni entrambi si presentaro. Una purpurea cinta Enèo donò, Bellerofonte un nappo di doppio seno e d'ôr, che in serbo io posi nel mio partir: ma di Tidèo non posso farmi ricordo, ché bambino io m'era quando ei lasciommi per seguire a Tebe gli Achei che rotti vi periro. Io dunque sarott
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