| L’immagine della memoria.
La Shoah tra cinema e fotografia
di Cristina Jandelli
Onyx - 2007
190 pp., ill.
Questo libro dovrebbe avere una nuova edizione. Non perché l’attuale non sia più che buona – carta, cucitura, illustrazioni, tutto è appropriato – ma per la semplice ragione che un libro fotografico, dove il testo fosse affiancato da altrettante immagini (ampio corredo di fotogrammi e fotografie) sarebbe uno splendido libro in grado di richiedere agli occhi la stessa concentrazione assorta che il testo esige alla mente del lettore.
Si legge sulla quarta di copertina il motivo che ha spinto Maurizio G. De Bonis a scrivere L’immagine della memoria. La Shoah tra cinema e fotografia, volume appena uscito per l’editore romano Onyx: un ripensamento critico della materia si è reso necessario dal momento che in questi ultimi anni una proliferazione di film e mostre fotografiche legati alla Shoah ha aperto nuove domande sul modo in cui i media contemporanei affrontano il ricordo del genocidio ebraico commesso dal regime nazista. Ed è appunto un riordino, ma anche un necessario percorso teorico nella storia del cinema e della fotografia, che l’autore si prefigge a partire da uno dei temi più dibattuti all’interno di oltre un secolo di immagini in movimento: il rapporto fra immagine ed etica.
Allora, si chiede subito De Bonis, qual è il motivo per cui alcuni grandi registi come Spielberg e Polanski – ma anche il nostro grande “giullare”, Roberto Benigni – hanno realizzato negli ultimi anni film di grande fortuna commerciale che hanno riportato all’attenzione delle grandi platee globalizzate la tragedia delle tragedie del novecento? Secondo De Bonis c’è stato un processo di assestamento nel modo di affrontare la memoria e il dolore, una sedimentazione storica e sociale che può essere considerata la maggiore responsabile di questa nuova ondata divulgativa. La “museizzazione istituzionalizzata” della Shoah è infatti il contesto generale in cui si iscrive la fortuna del tema in ambito cinematografico (e direi anche editoriale: per quanto riguarda il solo cinema, questo è il secondo volume in due anni sull’argomento).
Perciò, a differenza de Il cinema e la Shoah di Claudio Gaetani, uscito nel 2006 per l’editore Le Mani, L’immagine della memoria non affronta il tema partendo dalla sua storicizzazione: De Bonis mette in campo i principali nodi teorici (si è detto etica, ma anche estetica e indagine identitaria) che servono appunto a comprendere meglio il modo in cui i singoli cineasti – a Polanski è dedicato un intero capitolo – si sono avvicinati allo sterminio in tempi recenti: fra i titoli selezionati dall’autore troviamo La rosa bianca di Marc Rothemund, Music Box e Amen di Costa-Gavras, Rosenstrasse di Margarethe von Trotta e My Father di Egidio Eronico a esemplificare alcune storie paradigmatiche che ben illustrano il rapporto fra la tragedia e la società civile. La stessa filmografia ragionata è suddivisa in aree tematiche come “La vita nei ghetti ebraici” o “La tragedia dei sopravvissuti”. Fanno eco, nella trattazione, i due capitoli centrali destinati al rapporto fra vittime e carnefici illustrato dal cinema e alle immagini dell’infanzia negata che si apre sul magistrale Arrivederci, ragazzi di Louis Malle.
Ma il tratto più originale del volume va ricercato nell’aver legato ad una stessa analisi il binomio – così evidente eppure abissalmente distante nella tradizione internazionale degli studi – cinema e fotografia: con un’abile mossa l’autore affianca un capitolo inevitabilmente dedicato al documentario cinematografico (la grande tradizione moderna si apre, come ben dimostra De Bonis, con Notte e nebbia di Resnais e di recente conta un titolo italiano di tutto rispetto, La strada di Levi di Davide Ferrario) a un capitolo sulla documentazione storica del fenomeno: ad essa appartengono sia i documentari girati dagli americani all’epoca della liberazione dei campi sia le fotografie scattate nel 1941 dal soldato tedesco Joy J. Heydecker nel ghetto di Varsavia: non avendo bisogno di alcun permesso per ritrarre i suoi soggetti, Heydecker fissa il reale in tutto il suo squallore, restituisce il degrado e l’umiliazione subita dai cittadini ebrei – gli stessi sentimenti (con quello dominante, la paura) indagati da film mainstream come Schindler’s List e Il pianista.
Così l’ultimo capitolo è dedicato a un tema affascinante e in larga parte sconosciuto come lo sguardo dei fotografi contemporanei sulla Shoah: per brevi paragrafi De Bonis ripercorre la poetica di diversi autori. I Polish Landscape dell’israeliano Simcha Shirman appaiono davvero inquietanti - frutto di un ossimoro, una sofferta oggettività: il luogo della memoria dove si annida il dolore è un paesaggio desolato in cui sembra di respirare il silenzio.
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