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Opere pubblicate: 19994
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http://www.facebook.com/rivistaorizzonti Della naturale alterazione Lo spazio narrato nel saggio di Marco Testi “Altri piani, altre valli, altre montagne”. di Andrea Giuseppe Graziano È certamente stimolante accostarsi all’opera rigogliosamente ermeneutica di Marco Testi “Altri piani, altre valli, altre montagne”, Edizioni Pensa Multimedia, su la deformazione dello spazio narrato in “Con gli occhi chiusi” di Federigo Tozzi. La matrice del saggio risiede nell’analisi dello “spazio narrato”, il quale risulta uno dei più grandi contributi dell’autore toscano all’innovazione del romanzo novecentesco, ed anche nella verifica dell’influenza che per la costruzione letteraria hanno avuto i movimenti artistici, filosofici, persino la nuova consapevolezza scientifica del primo Novecento. Si individui subito qualche cammeo della bella fioritura critica del saggio vivo, appassionante. Uno dei pregi dell’opera è la qualità analogica, quella congruente follia che ha consentito propriamente di accostare la bellezza della scrittura di “Con gli occhi chiusi”, ad altra bellezza, pur scaturente dall’anima, che è ad intra quella del paesaggio del racconto, e ad extra quella dei dipinti delle avanguardie figurative coeve. La forza del libro del Prof. Testi consiste indubitabilmente nella capacità di penetrare il romanzo tozziano e di farlo semplicemente, senza quasi farsi accorgere della sua attività di profondo, attento indagatore, sì da restituirci in quel movimento naturale della sua scrittura critica il flusso delle intenzioni forse originarie ed intime al romanzo stesso. È come se lo studioso ci facesse ri-conoscere nel procedere della trattazione, la quale considera le due sfere, quella artistica e quella letteraria, che ora divide, ora annette ed ordina e chiarifica, la bellezza: è come se ci facesse scoprire nel fossile nascosto negli alti monti la stessa bellezza che è viva in fondo al mare. In questo senso troveranno giovamento sia gli studiosi di Letteratura e sia quelli di Arte, giacché l’Opera ha il pregio di illuminare e l’una e l’altra (proprio come e l’una e l’altra vennero reciprocamente ad influenzarsi, a volte consapevolmente, a volte inconsapevolmente, all’inizio del Novecento), ma anche i lettori che vogliano conoscere l’opera tozziana, ancora forse troppo adombrata dall’imponente diade Svevo-Pirandello. L’espressionismo figurativo europeo allora assume il carattere del presagio rispetto al fenomeno letterario italiano, forse perché già maturo antecedentemente agli sviluppi della letteratura novecentesca, tuttavia si ritrova nell’opera di Tozzi la stessa capacità di estendere le piaghe dell’anima nello sguardo sulla res extensa, non semplicemente attraverso quella estrinsecazione del nucleo dei significati, della quiditas emergente dalle associazioni sinestesiche delle immagini, evocate pure da certa poesia simbolista, come una “cosa altra” dalla qualità dell’oggetto medesimo. Non si ha, in altri termini, nel racconto dello spazio narrato dal senese, la percezione di una demarcazione tra forma e sostanza, tra ciò che si manifesta e ciò che “sta sotto” le immagini narrate: ecco, la grandezza dell’opera di Marco Testi consiste, tra l’altro, nell’aver individuato la proprietà espressionista tozziana che epifanizza l’essenza senza separarla dall’oggetto, che la evince comprendendola nella materia stessa, allorché essa si de-forma e si tras-forma -e quindi “prende forma”- divenendo, in forza della focalizzazione dell’autore che “guarda con gli occhi chiusi”, quello che deve manifestarsi. Protagonista del saggio è proprio la materia, l’oggetto in movimento, il paesaggio deformante e deformato, che ha vita non solamente perché chi lo guarda lo vede pendere, fugare nel suo catastrofismo, ma perché -facendo compiere il giro di boa proprio al fondamento dei positivisti idolatri della realtà oggettiva- “ciò che si vede è”, ma lo è anche per chi è dotato di una forza immaginifica visionaria. Accade di incontrare nel libro di Tozzi, pregevoli “bolle” solo apparentemente denotative, in cui il racconto che interpreta la realtà spaziale, nel fluire nel tempo e nello spazio della parola scritta, ridona al paesaggio la vivezza della sua più grande prerogativa, quella di alterarsi e dispiegarsi nella sua deformante e informante vita in fieri. È ciò che precede il cinema -arte in movimento e del movimento- l’espressionismo letterario e figurativo. Non c’è più allora divisione, steccato tra significante e significato, si annulla persino il contrasto tra forma e vita, o meglio è certamente superabile tale contrasto, quando nelle pieghe delle cose che sono agisce lo sguardo dello scrittore, del genio, uno sguardo che non ha solo valore ricettivo ed interpretativo, ma rivendica anche il valore plasmante, inferente, creatore. Affiorano quindi dalle pagine di Testi, evocazioni, riferimenti alla filosofia, al panorama storico, sociale, culturale ed artistico: è come se lo Spirito dell’Arte tout court, nelle pagine del Nostro danzasse ad anello con le discipline compagne, per poter parlare dell’inquietudine dell’uomo, dell’insecuritas tragica, con quella pietas che argina il dolore supremo della solitudine dell’intellettuale moderno. È come se per la prima volta si avesse chiara l’importanza dell’artista che dirime l’opposizione tragica e inconciliabile tra “la maschera e il volto” così evidentemente espressa da Rosso di San Secondo e dagli autori del grottesco, Luigi Antonelli e Luigi Chiarelli, oltre che dal primo Pirandello, e anticipa lo sguardo di Joyce nel “mare dell’oggettività”, quello sguardo capace di ritenere, accogliere e non solo distinguere, di vivificare per il suo potere straniante le cose, non come esse affiorano nella costruzione di fabbrica, gli oggetti, non come essi risultano usciti dal cellophane della distribuzione, ma profondamente coesi alla psiche, riflettente e reagente, benché ancora non caduti nell’indistinto flusso joyciano soggetto pensante-oggetto pensato. Infine il saggio si propone come uno strumento affascinante, in grado di lanciare il lettore verso ulteriori considerazioni; è il caso di accennare alle vivide immagini del precursore assoluto, il maestro Hugo, che in una splendida bolla analessica de “I Miserabili” ci immerge nei sotterranei della metropoli dove si scopre un “altro” paesaggio, altro perché alterato, naturalmente alterato, e compie quel che sarebbe divenuta in seguito particolarità dell’autore italiano: fare della scrittura dello spazio narrato un gioco dell’anima. Al seguente link è possibile trovare la distribuzione nazionale della rivista Orizzonti con il nuovo numero http://www.rivistaorizzonti.net/puntivendita.htm
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