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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
Toppa era morto di vecchiaia. Lo trovarono una mattina di febbraio, sotto il carro; nell'aia. Il gelo lo aveva attaccato mezzo ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo a un olivo, suonò come un tamburo; e fece, perciò, ridere.
Era stato, dopo la castratura, piuttosto cattivo: quando non voleva esser toccato, prima si allontanava; e poi, se non smettevano, si avventava digrignando i denti. Era bastardo e alto un mezzo metro. Aveva quel pelo bianco che vicino alla pelle è giallo, con una macchia nera sopra un orecchio; e perciò gli trovarono quel nome. Da piccolo, a pena slattato, Domenico lo legò al ferro del pozzo; e, quando guaiva, gli assalariati avevano l'ordine di pigliarlo a calci. Poi gli comprò un collare con i chiodi d'ottone; un collare che non gli levavano mai altro che mentre lo tosavano. Egli udiva la sonagliera del cavallo di Domenico quando ancora era al borgo fuor di Porta Camollia. Allora, esciva nella strada; e cominciava ad abbaiare. Quando il cavallo appariva ad una svolta poco distante dal cancello del podere, si metteva a correre da un punto all'altro della strada. Le persone si tiravano da parte; ma Toppa aveva buttato giù parecchi ragazzi, che non erano stati in tempo. Quando aveva mangiato, andava invece a correre per i campi, e ci lasciava i segni da per tutto; specie dov'era il grano alto ci restava un solco che si vedeva anche di lontano. Quando seminavano, dovevano prenderlo a sassate perché dove passava saltando bisognava rifare il lavoro. Gli piaceva l'uva matura e i fichi anche di più. Obbediva soltanto a Domenico e a Giacco; degli altri aveva soltanto timore, quando non gli veniva voglia di mordere; come fece una volta a Ghìsola che gli era salita a cavallo. Non c'era nessun altro cane che la potesse con lui; e ne fece morire più d'uno per averli azzannati su la spina dorsale. Due li sbranò perché erano andati a mangiargli la zuppa nel catino. Tollerava invece i gatti, purché non gli andassero vicino. Ma quando stava al sole, non ce li voleva in nessun modo: teneva, allora, un occhio chiuso e un altro aperto: ne apriva uno e ne chiudeva un altro. All'improvviso, faceva un balzo con un abbaio che stordiva. Non ebbe voglia di ruzzare né meno da cucciolo. E si comportava a seconda di chi lo avvicinasse: non sbagliava. Non avrebbe obbedito a Pietro, né mai gli fece una carezza. Quando lo sotterrarono, dopo aver avvertito il Rosi, che ricordò di averlo pagato due lire soltanto, dando l'ordine di serbare il collare, Giacco pianse. Anch'egli si sentiva vecchio; e, guardando il cadavere della bestia, disse agli altri: - Noi faremo la stessa fine. Enrico rispose: - Di più ormai non poteva campare. Che ci fanno i vecchi al mondo? E dette un'occhiata a Carlo, che rideva. Ma Giacco buttò via la zappa, e gridò: - Io camperò più di te: mettitelo bene in mente. Vedi questa povera bestia? Aveva il cuore più buono del tuo! - Io non ho voluto alludere a te. - E a chi, dunque? Il cervello l'ho debole ora, ma la ragione l'ho sempre... Carlo, allora, cominciò a bestemmiare e a pigliarsela con il cane: - Non poteva campare? La fatica per la buca non ci sarebbe stata; e né meno questa questione. Bada se per una carogna ci si deve offendere! Egli fingeva d'essere arrabbiato; ma invece, aveva piacere che, senza compromettersi lui, Giacco facesse il viso bianco a quel modo. E Giacco guardava il cane, stando attento che gli altri non lo pestassero per sbadataggine e per dispetto. Masa, venuta a vederlo mettere sotterra, si fermò un poco distante dalla buca; senza smettere di mangiare, sebbene si sentisse agitata. Quand'ebbero finito, si picchiò il ventre con un pugno, e disse: - Se mangio dell'altro, le budella mi fanno gomìcciolo in corpo. Giacco alzò la testa e la guardò: - Vorrei ridere, allora! Piuttosto va' alle tue faccende. Creperesti prima di smettere! Lo capisci che mi fai rabbia? Masa mise il pane in tasca, e rispose: - Sei un gran brontolone! Il Signore lo sa! Sospirò; e, seguitando a camminare innanzi agli altri, aggiunse tra sé: - Pazienza, pazienza! Ella non sapeva quel che avevano detto al marito. Ghìsola era stata mandata via da Poggio a' Meli, con astuta precauzione, da Domenico; che, vedendo il contegno poco sicuro di lei, non volle trovarsi in impicci. Ella era andata a Poggio a' Meli a dodici anni ed era tornata a Radda a diciassette. Conosceva quasi soltanto di nome gli altri parenti e non aveva più veduto le due sorelle, che non le erano affezionate, perché non vivevano insieme; ma andarono a prenderla alla diligenza, mettendosi le scarpe nuove e gli scialletti delle feste. Ella portò loro due anelli d'oro falso, per regalo. La baciarono e poi si trovarono tutte e due impacciate. Non sapevano se la tenevano nel mezzo; e, camminando, cambiavano sempre di posto. La minore, anzi, si mise dietro; e, quando Ghìsola la chiamò con sé, invece andò lungo la proda sul margine erboso della strada; riabbassando la testa tutte le volte che Ghìsola si voltava a lei, perché non voleva far vedere che la guardava. Anche la sorella più grande parlò poco, anzi non disse niente. Quando giunsero a casa, dove l'aspettavano i genitori, Ghìsola si mise a piangere. Ma, poi, fecero un bel pranzo, mangiando un coniglio fritto e due galline in padella; due galline che avrebbero dovuto campare, perché avevano le ovaie grasse e piene. Il pane era stato sfornato la mattina stessa. Borio di Sandro, un vedovo amico della famiglia che aiutava anche con il denaro, aveva portato un fiasco del suo buon vino. E, il primo giorno, quella mezza sbornia mise tutti d'accordo. Ma Ghìsola non se la sentiva di faticare come le sorelle, che la chiamavano tra sé la «signorina delicata». Non voleva saperne di starci insieme; e, quando le era possibile, andava nel campo sola. Non le volevano male, ma lei trovava sempre modo di smetter subito qualunque discorso che volessero incominciare. Anche alla messa andava sola; e ripensava a Poggio a' Meli. Già tornare a Radda era stato un dispiacere; e Borio soltanto lo capiva. Ella gli diceva sempre che non ci sarebbe rimasta a costo di farsi ammazzare! Un anno dopo, la sera di una solenne festa religiosa, egli l'aveva accompagnata alla processione su dentro il paese. Era stata una processione con i contadini dei dintorni dietro ad una piccola croce, a coppie, con i loro cappelli in mano. Le ragazze, tutte insieme dopo, cantavano leggendo in un libro tenuto aperto con ambedue le mani, sempre a testa bassa, come quando si va incontro a un vento impetuoso. Poi un'altra croce, grande e nera, polverosa, con una corona di spine e con i flagelli di corda pendenti. Poi il prete. Il vedovo ricondusse a casa Ghìsola che non aveva mai voluto dare retta a nessun giovinotto, perché si teneva molto da più di tutti. Scesero per una strada ripida, sempre più buia, che porta fuori del paese; accanto alle file dei cipressi folti, entrando poi nei campi. Percorsero un sentiero scosceso, a metà di un grande poggio nano e coperto di querci alte. Ghìsola, a cui Borio piaceva molto, camminava un passo innanzi, un poco triste come succedeva sovente dopo l'allegria insolita e quasi involontaria di una festa. «Perché ella non mi guarda più?» Gettò via il sigaro che ora gli faceva male e gli aumentava la confusione. Erano soli! Tutta l'altra gente non si sa dove fosse scomparsa! È vero che qualche volta egli udiva, prima di lei, rumore di passi; ma poi il calpisticcio si allontanava. Pareva che Ghìsola volesse farsi sempre più piccola, camminando quasi senza vedere; e se non ci fossero stato Borio, a cui stava vicino ascoltandolo respirare, sarebbe andata a battere in qualche proda. Di quando in quando, inciampava; le sue gambe parevano intirizzite e così lunghe che ad ogni passo la facevano rintronare tutta. E allora pensò di fermarsi. Credeva d'aver bevuto troppo; e si sentiva portar via la testa; senza avvedersene, sospirava sollevando lungamente lo stomaco. L'oscurità, con la luna palpitante sotto un velo di nuvole, empiva ogni parte di ombre fievoli e trasparenti. Allora egli la prese per mano, ed ella lasciò fare: gli pareva che Ghìsola fosse doventata un essere debole, quasi buffa. Ma capì. La baciò; ed ella si discostò, trasalendo. La baciò ancora, guardando dopo fissamente la sua nuca e il suo dorso solcato tra le spalle. Ma, forse, non sarebbe riuscito a baciarla un'altra volta! E siccome non si voltava a dietro, le cinse la vita con il braccio. Stava zitta! Ella aveva paura di parlare, quanto dell'ombre di quei cipressi: le quali, all'improvviso, subito fuori del paese, attraversavano la strada, risalendo come se fossero vive, con la cima su per il muro della parte opposta. Ad un tratto si sedette a metà del viottolo sopra una pietra, nascondendo la faccia con lo scialletto caduto giù dai capelli; e, sopra, le mani: mani che parevano di ferro, come le punte del forcone. Egli, volendole parlare, pur non sapendo come, dovette abbassarsi tutto. Non gli pareva di essere accanto a quella Ghìsola che conosceva da tanto tempo e che era con lui anche poco fa. Ella strinse le gambe l'una contro l'altra, così insieme che somigliavano ad un aratro voltato in sù. Allora Borio, dopo una lotta silenziosa, con le mani, poté dire, sentendo già il rimorso, senza nessuna voluttà: - Ti dico di sì... ti dico di sì... Le loro dita, sudate, si sguisciavano; egli aveva voglia di storcergliele: si guardavano come quando si sta per leticare, perché ormai era impossibile smettere. Ella allontanò le gambe. Poi pianse. Borio, più anziano, le incuteva anche una certa obbedienza. Aveva la testa grossa e con un birignoccolo, il viso tutto rasato; e i capelli, a spazzola, che gli coprivano fin giù le tempie: le sopracciglia come lunghe setole nere e attaccate insieme sul naso. Ella stessa l'indomani andò a ritrovarlo; e ne divenne gelosa. Adesso i suoi occhi parevano sempre molli; e i capelli più morbidi; con la fronte troppo piccola. Borio ci si era perso, e l'avrebbe sposata. Ma anche il suo fattore la possedette; e ambedue, per gelosia, ne sparlavano con tutti: allora molti di quei giovinotti, da lei respinti, non la lasciarono più in pace. Andavano a cercarla nel campo, sotto i fichi e i peschi; l'appostavano, quando tornava, attraverso i ginepri. Si doveva difendere a morsi e con le unghie, piangendo e rifugiandosi a casa di corsa. E allora le veniva da ridere; e aspettava che passassero sotto la sua finestra. Qualcuno cercava d'arrampicarsi anche su per il muro. Poi facevano le sassaiuole alla porta. Il fattore voleva tirare qualche fucilata, come alle lepri. Ma ella, per non buscarne tutti i giorni dai suoi, e per essere più indipendente, trovò servizio da una signora della Castellina, un altro paese distante da Radda pochi chilometri. La strada da Siena, dopo essere discesa fin giù ad un torrente dov'è un mulino, sale in mezzo a linee contorte e raggomitolate di colli che s'assomigliano e della stessa dolcezza, con i filari delle viti tra i muriccioli a secco, di sassi, con le fattorie dietro i cipressi, con qualche campanile così lontano che dopo una voltata non si vede più. E di mano in mano che la strada s'aggira, quasi tormentandosi della sua lunghezza, impaziente, si fa sempre più silenziosa; e le campagne più aride e solitarie. Vi sono poggi con cime piane, lastricate di pietre, sterpigne: qualche croce, fatta con i pali delle viti, talvolta abbattuta, in proda a una scorciatoia per i contadini e per le bestie. Boschi di querci, ma radi; e, tra il fogliame, si vedono prominenze e insenature di altre colline, scoscendimenti ripidi e a un tratto pianeggianti, con tre o quattro facce che si attaccano a ondulazioni di prati, a ripiani di terra rossastra, a balze. Dopo Fonterutoli, un villaggio come un angolo di case, con quattro botteghe, la strada si fa ripidissima; e riesce ad esser più alta che altrove. Talvolta tutto un pezzo di bosco appare quanto è largo, e un uccello vi passa sopra; da un doccio, il solo che è per quella strada, vecchio e sbocconcellato, scroscia l'acqua dentro un abbeveratoio massiccio. Il silenzio di quei boschi, le lunghe ore di seguito! È uguale a quello delle pietre aggavignate dalle radici degli alberi. Ma quando il vento soffia da dove gli altri monti doventano quasi diafani, gli scontorcimenti delle fronde impauriscono, strepitando e sibilando: ogni fronda, ristrettasi accostando insieme le foglie, quando si riapre per tutto il bosco è un tremolio che s'attenua, accompagnato da qualche suono, che sbalza da un punto all'altro, flebile e melodioso. I ramicelli si schiantano, le foglie sbattono su le pietraie; gli uccelli volano qua e là come portati dal vento. Nel temporale tutte le querci si piegano insieme, con sforzo, per abbassarsi. Le nuvole si fermano sopra, quasi si mettessero a guardare; e par che né meno il vento riesca a smuoverle. Talvolta sono immobili le querci, e allora le nuvole passano. La strada, dopo il villaggio, si volge a gomito, in salita, come una fetta bianca tra due spianatine di verde; poi, all'improvviso e dritta, precipita per più di un chilometro, tagliata tra i macigni; e allora si vede giù tutta la Castellina. E in quel punto, a destra, seguitano altre colline poco più alte. Mentre, a sinistra, sono sempre più basse fino alle pianure della Val d'Elsa; con i paesi che sembrano piccole macie; poi cominciano la Montagnola e Montemaggio; e dietro a loro si stendono altre file di monti, che a vederli di lassù sono uguali alle nuvole lontane. Ci si imbatte, quasi sempre, in un branco di pecore, che attraversano lo spazio dove non sono piante e si rimboscano dall'altra parte, trotterellando. Oppure scendono giù per una viottola, l'una dopo l'altra; come si buttassero con il capo in avanti; e il peso della prima le traesse dietro tutte. Quanti carri verniciati di rosso, con i bovi; e sopra, per lo più, i contadini a coccoloni per stare più comodi! Qualche automobile, proprio delle prime, faceva affacciare alla finestra e agli usci quelli che erano in tempo, meravigliati che passasse tra loro come se non ci fossero né meno stati; poi si scambiavano il solito sguardo e tornavano alle faccende. Che fretta! Le donne, che avevano i bambini a raspare la terra, quasi in mezzo alla strada, gridavano imprecando. Qualcuno di quei vecchi fattori arricchiti, strettosi al muro più di quanto ce ne fosse bisogno, andava a sfogarsi con gli amici, seduto sopra uno sgabello, con il bastone di legno sbucciato tra le gambe, appoggiando la schiena torta su le segolette, le fruste, le funi attaccate alla bottega che vendeva anche lo zolfo, le spazzole e le bullette per le scarpe. Se ne stava lì magari due ore, sputando sempre dalla stessa parte; facendosi comprare il sigaro da qualche ragazzo, per non muoversi. - Andrebbero messi in prigione, non è vero? Ai nostri tempi, queste stupidaggini non c'erano. E rideva spalancando tanto la bocca che si vedeva tutto il solco della lingua a punta; una lingua aguzzata con il coltello. A mezzogiorno, quando il sole troppo caldo aumentava il silenzio, egli, con l'orologio in mano, aspettava che le campane suonassero: - Tu che ora hai? Le campane si muovevano; tutti si alzavano come sorpresi: quasi avessero dovuto cambiar di posto anche le muraglie. Le botteghe erano chiuse ad un tratto. E coloro che abitavano fuori del paese si avviavano a mangiare; indugiandosi, però, al sole; come i cani che scodinzolavano a tutti. La metà superiore della torre era dentro alla luce, e pareva dovesse consumarsi come una fiamma. Quando le campane tacevano, se ne udiva una lontana sperduta tra le boscaglie; che continuava a cantare per conto proprio, mescolando il suono con i campani dei greggi. Una ragazza, venuta da un altro paese vicino e conosciuto, si porta sempre con sé tutti i pregiudizi con le simpatie e le ostilità che quello ha. Ora, a Ghìsola, s'erano aggiunte molte dicerie; che facevano ridere. Il prete, avvertito certo da quell'altro di Radda, rimproverò la signora che l'aveva presa al servizio. La giovine sentì in lui un persecutore fanatico: lo vedeva bene dalla sua fisonomia alterata e biancastrona quand'egli la guardava torcendo la bocca tutta da una parte; con gli occhi noccioluti e miopi. Ed ella allora camminò più rimpettita, più lasciva, come un'anatra che tiene alto il becco. Come odiava Radda, ora! No, Borio non avrebbe fatto così con un'altra; con una delle sue sorelle, per esempio! Rivedeva tutta la processione: anzi si divertiva riconoscendo a uno a uno quegli che cantavano senza badare a lei, dicendo mentalmente i loro nomi, dietro quel crocifisso nudo e tarlato; con le gocce di vernice rossa come sangue vero, che battesse in terra, spaccando gli zoccoli di tutta quella calca! Le pareva che la processione entrasse, vertiginosamente, dentro i suoi occhi! Il baldacchino un poco di sghembo, e la musica riecheggiata, come se suonasse anche la valle tortuosa, a nicchia: quella musica quasi che parlasse; e il suono delle campane così forte da farle staccare. Ghìsola aveva creduto di trovare alla Castellina gente che s'occupasse meno di lei; ma questa differenza non c'era. Tutti sapevano qualche cosa; e chi non la sapeva se l'inventava. Il sindaco ne era impensierito, perché doventava un vero scandalo; e diceva che certe donne stanno bene nella città e non nei paesi. E, poi, alla Castellina! Ma Ghìsola gli piaceva, e ci faceva invece anche il galante. Ella, benché ce ne fossero parecchi, non trovò né meno uno da farci amicizia; perché, appena si parlavano, c'era sempre la persona che li scopriva a andava a dirlo. Così non avevano più il modo di riavvicinarsi. Per i signorotti, poi, si trattava di un divertimento molto allegro; e ognuno se la spacciava per sua amante. La mezza dozzina di signorine, in fondo, la invidiavano che piacesse così e che gli uomini la guardassero benché parlandone male. Per Ghìsola doventava troppo; e bisognava venir via anche dalla Castellina: «Che ci faceva, là su, tra quel pettegolezzaio?». Dopo né meno un mese, per mezzo di alcune amicizie, d'accordo con una mezzana, fu presa da un commerciante di stoviglie separato dalla moglie; il quale appunto voleva conoscere una ragazza di quel genere. Egli, avendola trovata di suo piacimento e disposta, la mise in una sua casetta nei dintorni di Badia a Ripoli; dove da tutti era chiamato, alla buona, il signor Alberto. E Ghìsola, mandando il suo indirizzo ai parenti, scrisse d'aver trovato servizio. Ghìsola viveva più volentieri così, quando Pietro, venuto il tempo degli esami, andò a trovarla. Suonò al piccolo uscio, la cui vernice celeste s'era screpolata al sole. La piastra di porcellana, bianchissima, con i numeri della casa, luccicava alla luce; e i numeri, turchini, danzavano e s'aggrovigliavano. Udì un calpestìo; e poi una voce di donna gli rispose nel momento che la porta s'apriva. Egli salì in fretta, respirando forte, come se il troppo fiato durasse fatica a passargli per le narici, e fosse doventato liquido. - C'è Ghìsola? La donna, incuriosita e sorridendo del suo imbarazzo, gli rispose come avesse risposto tutta la stanza: - La chiamo subito. Egli s'accorse che la sua prima impressione non aveva corrisposto a quella aspettata: c'era una specie di ostilità. Non pensò a nulla; ma cercò di ricordare, con quel che ne aveva provato, la fotografia. La donna, strascicando le ciabatte, uscì. Pietro restò troppo solo nel silenzio improvviso; e non avrebbe voluto esserci: gli pareva che i suoi sentimenti non avessero avuto nessuna relazione né con quel luogo né con Ghìsola. Ci stava proprio lei? Un raggio di sole penetrava da uno strappo dello stoino della finestra fino al mezzo della stanza; e dal raggio si diffondeva una chiarità tranquilla. Ma quel silenzio sembrava un abisso e un agguato inspiegabili! Nondimeno, egli si sentiva lieto. Udì alcuni passi rapidi: era Ghìsola. Riconosciutolo, rise e arrossì; poi, rimase il sorriso soltanto. Ed egli credeva, guardandola, di non vedere il suo volto; e non fu capace di salutarla. Allora ella lo toccò sopra una mano, lo invitò a sedersi; e si appoggiò alla tavola, aspettando che parlasse. Lì per lì, un poco sconvolta, s'era sentita prendere dalla voglia di piangere; vincendosi perché la vedesse subito imbellita. La striscia della luce, essendo su la sottana, aumentava la chiarità. La sua buona Ghìsola! L'aveva ritrovata! S'alzò di scatto; e, allora, poté chiederle, guardando una parete: - Da quando sei qui? Ella glielo disse con una disinvoltura, che a Pietro dispiacque; e, tenendo le mani insieme dinanzi, chiese: - È fidanzato? - No. Ma ebbe voglia, chi sa perché, di dirle una bugia. - So che è fidanzato, invece. Fece un gesto di furbizia; e riprese, come se avesse parlato di una cosa che la mettesse di buon umore: - Crede ch'io non sia informata di lei? Ma Pietro, per la contentezza, era incapace di parlare. Ella se n'avvide e le apparve, tra gli occhi e la bocca, un segno di dolcezza. Allora Pietro, credendo giunto il momento opportuno, disse senza guardarla: - Ho pensato sempre a te. Ghìsola si volse verso uno degli usci: parve che la striscia di luce, movendosi la sottana, volesse andarsene; e Pietro chiese, sottovoce: - Credi che ci oda quella donna? Infatti, Ghìsola aveva sospettato proprio così; ma s'era rallegrata, pensando alle risate che ne avrebbero fatte insieme, pigliandosi, per il troppo ridere, le braccia. Quasi si dimenticava di rispondergli; ma, vedendo il suo imbarazzo, disse: - Potrebbe ascoltare. Non importa! - Chi è? Perché sta con te? Ella non si trovò a corto di bugie; e, dopo aver cavato la lingua fuori per dire: «quante ne vuol sapere!» gli rispose: - È l'amica della mia padrona. - È sola la tua padrona? - Sola: tiene questa donna per compagnia, perché non fa entrare mai nessun uomo. - E ci stai volentieri? Come ti tiene? Hai da affaticarti troppo? - Oh, mi vuol bene! Egli pensò: «Si è affezionata ora a lei, come prima a Giacco e a Masa!». E disse, per timore e per riguardo di lei: - Penserebbe male di te la tua padrona se mi trovasse qui? Dov'è ora? - Tornerà più tardi del solito, oggi. Bisognerà ch'io le dica che ci è stato lei. - Diglielo; non ti rimprovererà. Non devi esser bugiarda. Egli, così, voleva alludere ai loro rapporti. E intanto si meravigliò del modo di fare di quella casa e di quella donna, di cui Ghìsola si preoccupava così poco. Ma anche rifletteva che ella doveva lavorare per vivere. Allora uno scrupolo lo prese: non doveva prometterle a un tratto il suo amore, per non offenderla: era stata la sua contadina, e avrebbe potuto non credergli. Ma, vinto dall'impazienza, domandò: - E tu hai mai pensato a me? Sentì che con queste parole s'era riallacciato al suo sentimento; e credette di chiudere dentro esso anche Ghìsola. Era necessario strapparla da quella gente, che la teneva con sé e che egli non conosceva! Divenne taciturno, ed ella fece una di quelle mosse che rivelano di scorcio tutte le abitudini di una esistenza. Pietro non comprese, ma però le domandò: - E nessuno ti ha mai voluto bene? Ella non rispose: egli ripeté la domanda. Non rispose lo stesso: credette di aver preteso di sapere troppo per la prima volta. Avrebbe dovuto, però, esser subito sincera! Allora si chiese se poteva parlare con la stessa confidenza di prima; e sentì una gran simpatia per quel silenzio improvviso d'agguato, perché per lui era una cosa insolita. Ella aspettò che rialzasse la testa, con una fisionomia tra bonaria e astuta; e gli chiese, quasi scherzando: - Le piaccio adesso? Egli non volle rispondere, provando una gran contentezza. All'infuori di loro e della stanza, non esisteva più niente! Ghìsola proseguì: - Mi amerebbe ancora? Allora rispose con sforzo, come se avesse parlato con la voce di un altro: - Se tu non hai amato mai! C'era un silenzio tale che ambedue credevano d'udire i movimenti delle loro congiunture; ed evitarono di guardarsi. Egli ebbe compassione che fosse serva e che la padrona, risapendo della sua visita, l'avrebbe forse umiliata rimproverandola. Andò verso la finestra, discostò lo stoino verde; e vide, in uno abbarbagliamento di sole, alcune aiuole fiorite con bambù nel mezzo. Ghìsola gli si avvicinò in fretta, con un passo solo; e lo trasse indietro: - Non si affacci! Egli s'intimorì come se stessero per staccarsi tutti i mattoni della finestra, per colpa sua. Ma quando Ghìsola lo toccò, si sentì impallidire. Come una volta! Ella, dopo essersi subito scostata, prima che egli si riavesse, disse ridendo: - Mi vuol bene ancora; è vero. Pietro rise per imitare Ghìsola; sentendosi girare la testa come dopo un pericolo. Ghìsola fece l'incredula, aggiungendo: - Ma non a me sola! Egli era incapace di qualunque riflessione; e le sue parole seguivano una continuità incosciente. - Perché mi rispondi così? Se te lo dico io... Gli parve che anche le sue mani parlassero. Ad un tratto percepì Ghìsola lontana, fuori d'ogni illusione, sentendo come un presentimento nemico che avrebbe dovuto combattere per chiamarla a sé. Il suo sogno d'amore era ancora remoto! Come profondamente aveva sognato! Che era bella non glielo doveva dire, per non farle un complimento che sembrasse magari equivoco; e poi perché la sua bellezza non sarebbe valsa a niente se non avesse avuto anche un istinto profondo di onestà, proprio come lui. Voleva che avesse la coscienza dell'onestà, e che ne fosse orgogliosa. Questo era necessario; per quei principii morali che in lui si fondevano con quelli di redenzione e di giustizia nella vita. Perciò egli, per primo, doveva dargliene l'esempio. E si propose di spiegarle tutto in seguito. Non trovava più che dirle e gli pareva che qualcuno gli imponesse d'andarsene. Si piantò in mezzo alla stanza, dette un'occhiata a Ghìsola, le stese la mano, e uscì lentamente; non sapendo come uscire, battendo una spalla nell'uscio. Ella fu contenta che la visita fosse finita così in fretta, perché avrebbe potuto giungere il suo amico. La scala era di mattonelle consumate, concave e sottili: guardandole, gli pareva che i suoi piedi le sfondassero. Un grande tremito lo scuoteva. Richiuso l'uscio con un tonfo che gli parve troppo forte, alzò gli occhi e vide Ghìsola affacciata ad una loggetta di ferro: lo salutava muovendo il capo. Ma egli non ebbe la forza di risponderle: si voltò due volte sempre con il desiderio che fosse lì, tutto intenerito per lei o pensando che aumentava sempre più l'impossibilità di poterla salutare. Ed entrò in città senza né meno avvedersene. Quantunque camminasse sul marciapiede rasente il muro dell'argine, non guardò l'Arno con poca acqua verdastra dove era qualche strisciatura turchina. Fermi sopra una specie di penisoletta fatta dal fondo del fiume, stavano alcuni barrocci già carichi di rena; e lì attorno l'acqua, più bassa che altrove, era tutta guizzi di scintillamenti. Talvolta, il rumore della città pareva più distante, spostarsi verso un altro punto, per tornare un momento dopo; e siccome Pietro camminava in fretta, di quando in quando doveva soffermarsi per aver sbagliato strada. Giunse al Lungarno degli Archibusieri: il Ponte Vecchio con i due piloni che sorreggono le case degli orefici come picce e insieme con le altre che stanno aggrappate sopra le mensole ad archi e sopra i puntelli di legno verniciato di rosso: le pareti sono fatte a brandelli dalle finestre troppo larghe e troppo fitte. Di là d'Arno, case strette strette, grigie, sporche, vecchie, quasi abbiano paura di essere rovesciate giù; case come strisce sottili, d'ogni colore, attaccate con quelle del ponte; rettangoli di case e rettangoli di acqua: tutti di seguito, diseguali. L'Arno rasentava gli archi delle mensole: il suo silenzio e quello delle case faceva udire i brusii lontani, intonati quasi sempre con qualche campana; e i cipressi di Torre al Gallo su nell'aria con una immobilità dolcissima. Di qua d'Arno le botteghe semichiuse, arse dal sole, con l'ombra troppo calda delle loro tende corte; con le strade che entravano, deserte, nella città. Mentre dalla chiesa di San Miniato, e dal Belvedere, gli alberi come una siepe alta, sparsa di ville bianche e scendenti dietro i tetti di Borgo San Iacopo. Il Poggio dell'Incontro aveva una chiarità celestrina. Sul Ponte Vecchio il vento sbatteva le tende scolorite degli orefici, portava la polvere delle strade sopra il fiume. Ed ecco le statue candide, con le ombre gialle, del Ponte Santa Trinità; che finisce tra l'abside della chiesa di San Iacopo, a sponda del fiume, e tra la chiesa di Cestello. Poi il campanile di Santo Spirito, dinanzi alle case più rade e più basse; fino alle ciminiere del Pignone. E, quasi solitario, il Ponte della Carraia: in fondo, i primi alberi delle Cascine; nella luce e lontani. Tornò a casa molto tardi; cambiò di posto ai libri portati da Siena, tolse dalla valigia tutta la biancheria. Durante la notte, si svegliò due o tre volte; e, prima di riaddormentarsi, si disse, sempre con gioia, a voce alta: - A domani c'è poco! Stette indeciso tutta la mattina, e la sera le scrisse; perché sentiva d'amarla da vero. Di Ghìsola non si ricordava come fosse il volto; ma piuttosto, senza vederli chiaramente, gli pareva che si ripetessero i suoi movimenti intorno a lui. Il colore del suo vestito era doventato una luce, che di quando in quando sopraggiungeva come un lampo. Ghìsola si fece leggere la lettera dal suo amico; a cui aveva già detto, a modo suo, della visita, non fidandosi della lingua di Beatrice, la donna di servizio veduta da Pietro. Il signor Alberto le domandò, ridendo: - Perché ti scrive? Sembra che ti ami da molto tempo. È una lettera curiosa. Fammela rileggere. Ad ogni frase, questa volta, si fermò per guardare Ghìsola che gli stava appoggiata ad una spalla. Riprovavano quei sentimenti che c'erano espressi, sapendo che non sarebbero stati possibili a loro. Finita la lettera, egli baciò l'amante: - Questo è suo. Ella strappò il foglio, e si mise, per farlo ridere di più, ma anche per l'allegrezza, a camminare con i tacchi e a girare su se stessa. Egli ci si divertì, ma chiese: - Come fai a volergli bene? - Così. E rifece un gerbo sentimentale, con tutta la persona. - Però tu non mi dici ogni cosa. La prese per un orecchio e le domandò sottovoce: - Anche a lui? Ella si rialzò tutta e impallidì, rispondendo più lesta che le fu possibile: - Te lo giuro. Ma se mi sposa, perché non vorresti? Egli, allora, si sarebbe perfino scusato! - Soltanto voglio esser certo, per il bene tuo, che ti ama da vero e che è ricco, come tante volte hai sognato di trovar qualcuno. Altrimenti, mi pare che potresti restare dove sei. - Se è ricco? Suo padre ha dieci poderi e una grande trattoria. - Ma il suo consenso? - Scommetto ce l'ha mandato lui. Il signor Alberto credette a Ghìsola, e ne fu contento. Mentre ella prendeva i piatti dalla dispensa per metterli su la tavola, pensò che avrebbe potuto, se gliene fosse venuta la voglia, restarle amico. Ma i suoi affari non andavano bene e bisognava allontanare da sé quella vita troppo pacifica e troppo oziosa. Ghìsola lo spiava quand'egli, senza accorgersene, abbassava la testa; aspettando la sua più intima risoluzione, quella forse che avrebbe nascosta. Temendo che stesse troppo a pensare, gli disse: - Che cosa c'è stasera? Sei tornato con i nervi? Egli sorrise e rispose: - Hai ragione; io sono troppo anziano per te; e ti sacrificherei. Sono io che voglio che tu ti faccia sposare. - Ma perché ne parli? Ce n'è bisogno? Mi fai rabbia. - Sei tu che ne parli, cara Ghìsola! Ma mi viene una buona idea! - Dimmela! - Devi comportarti in modo da potergli far credere dopo che t'ha fatto restare incinta lui! Non ti sarà difficile. Non ti piace? Ella si morse le labbra, in fretta, con le spalle volte al lume. Poi si mise a girare un dito intorno all'orlo del suo piatto. Egli le chiese: - Ebbene? - Non gli rispondo né meno. Se torna qui, gli butto un secchio d'acqua addosso. E suonò il campanello elettrico, per chiamare Beatrice che portasse la cena. Ma il signor Alberto, come se concludesse le sue riflessioni, esclamò: - Tu doventi più ricca di me. E aggiunse, con una certa serietà: - Basta però che tu non lo faccia venire in casa mia... Ella, sentendosi in fallo, volse la testa. - ...a fare il comodo vostro. Ella rise. Allora egli s'intristì: - E non voglio che tu ti faccia vedere insieme qui dalla gente di Badia. Mi conoscono. E mentalmente proseguì: «Perdo anche lei. Doveva essere così, mi pare». Procurò di sorridere, si lisciò i baffi, andò a guardarla negli occhi, le dette un pizzicotto che le fece male. - Hai inteso? Ella rise per non piangere. Egli non aveva voglia d'intenerirsi; e chiese con diffidenza comica: - Non ti riesce a farti baciare da lui? E aggiunse per burletta: - È più furbo di me; perché tu, con me, hai fatto quello che hai voluto. Scoppiarono in una risata; e siccome la donna entrava, si sederono a cenare.
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