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28 APRILE 2023

 

 



 

 

 

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Info sull'Opera
Autore:
Federigo Tozzi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Con gli occhi chiusi - 7

di Federigo Tozzi

-Il canterano è peso, e lei potrebbe farsi male. Il padrone incolperebbe me.
Quand'ella parlava di lui, a Pietro pareva di doversi infilare in qualche punta.
- Non mi faccia inquietare!
- Aiutatemi, invece!
Sarebbero stati pronti a bisticciare; ma ella tolse, adagio, ad uno per volta, tutti i ninnoli: un vaso di porcellana sbocconcellato, dentro il quale c'erano stati ritti chi sa quanti fiori; un'imagine di cera, di Santa Caterina, sotto una campana di vetro; un pezzo di specchio verdognolo e guasto.
- Abbia pazienza.
Egli trasse a sé il canterano tarlato; e allora la fotografia, rimasta tra quello e il muro, cadde. La raccolse; e, senza smettere di guardarla, andò verso la finestra, con la stessa paura di quando un fulmine è caduto vicino.
- Vede com'è fatta bella? Ora le piacerebbe da vero!
Pietro comprese, istantaneamente, quel che volesse dir bella. Il cuore gli si mise a battere in fretta, con una felicità dolce. Non rispose, sentendosi le labbra tremolare.
Masa non distolse mai gli occhi da lui, incerta di quel che gli avrebbe fatto e di quel che provava: le sue palpebre sbattevano. Cozzatolo in un braccio, gli chiese: - Ed ora che cosa se ne fa?
Temeva che la volesse prendere; ma Pietro non avrebbe osato perché Ghìsola, forse, non sarebbe stata contenta. Rispose, con voce alterata: - Tenetela qui, nella sua cornice. Voglio io: non la fate cadere più.
Masa, soddisfatta, assentì; e tolse con un cencio i ragnateli attaccati al muro. Pietro mise da sé la fotografia a posto, e riaccostò il canterano.
- Conservate anche la lettera.
- Veramente, se si fosse comportata meglio con noi... le vorrei più bene.
A una mossa brusca di Pietro, come prima non gli aveva veduto fare mai, ella riprese: - Ma glielo voglio lo stesso.
- Che vi ha fatto di male? Lo vorrei sapere che male può avervi fatto! Inventate!
- Non lo posso dire: riguarda me; e basta.
S'era offesa di aver dovuto rimandar via la nipote! Si morsicchiò il labbro di sotto, in fretta e molte volte.
- Stia zitto. Non dica a nessuno, né meno a Rebecca, che gliel'ho fatta vedere. Vada via di casa, e guai se lo fa anche sospettare!
Egli uscì. E, tutto a un tratto, si accorse che era innamorato di Ghìsola; e non ci trovò niente di strano né di spiacevole. Anzi, se ne fosse stato più sicuro, l'avrebbe detto subito a Masa. Facendole capire che, sopra a tutto, si trattava di una riparazione sociale, per il cui cómpito offriva se stesso volentieri. Perché anche lei non doveva esser ricca?
Tre giorni dopo, tornò a Poggio a' Meli.
Su la capanna soleggiata batteva l'ombra lieve di un pero; ed era immobile. E pure quelle righe d'ombra gli parevano come segni di febbre, e pulsanti come le sue vene; come acqua bollente.
Sul tetto della parata, tutto visibile per la sua inclinatura fin quasi a un metro da terra, era cresciuto, largo due metri, il sopravvivo, l'una pianta quasi ficcata dentro l'altra, con le foglie spinose, con un fiore che il gambo non aveva forza di reggere; vi erano una veste di fiasco e due falci arrugginite. E Carlo vi teneva, perché pigliasse il sole, tra due pietre, una boccetta piena di olio con uno scorpione dentro, servendosene per medicarsi i tagli.
Pietro si accorse che, nella parte più alta del tetto, era rimasto uno straccio ormai scolorito dal sole, attaccato lì dalle pioggie: mezza sottana di Ghìsola.
Andò da Masa, e le disse: - Fatemi rivedere la fotografia.
La guardò in fretta, al muro, perché la vecchia non s'offendesse e magari non lo scrivesse alla nipote.
Il Monte Amiata, di un aspetto liquido, sembrava per appianarsi.

Pietro, gracile e sovente malato, aveva sempre fatto a Domenico un senso d'avversione: ora lo considerava, magro e pallido, inutile agli interessi; come un idiota qualunque!
Toccava il suo collo esile, con un dito sopra le venature troppo visibili e lisce; e Pietro abbassava gli occhi, credendo di dovergliene chiedere perdono come di una colpa. Ma questa docilità, che sfuggiva alla sua violenza, irritava di più Domenico. E gli veniva voglia di canzonarlo.
Quei libri! Li avrebbe schiacciati con il calcagno! Vedendoglieli in mano, talvolta non poteva trattenersi e glieli sbatteva in faccia.
Chi scriveva un libro era un truffatore, a cui non avrebbe dato da mangiare a credito.
E intanto Pietro gli aveva fatto spendere le tasse tre anni di seguito per la scuola tecnica!
Dopo averlo guardato, a lungo, su un orecchio o su la nuca debole e vuota, faceva gesti belluini, mordendosi il labbro di sotto, piantando all'improvviso un coltello su la tavola e smettendo di mangiare.
Pietro stava zitto e dimesso; ma non gli obbediva. Si tratteneva meno che gli fosse possibile in casa; e, quando per la scuola aveva bisogno di soldi, aspettava che ci fosse qualche avventore di quelli più ragguardevoli; dinanzi al quale Domenico non diceva di no. Aveva trovato modo di resistere, subendo tutto senza mai fiatare. E la scuola allora gli parve più che altro un pretesto, per star lontano dalla trattoria.
Trovando negli occhi del padre un'ostilità ironica, non si provava né meno a chiedergli un poco d'affetto.
Ma come avrebbe potuto sottrarsi a lui? Bastava uno sguardo meno impaurito, perché gli mettesse un pugno su la faccia, un pugno capace d'alzare un barile. E siccome alcune volte Pietro sorrideva tremando e diceva: - Ma io sarò forte quanto te! - Domenico gli gridava con una voce, che nessun altro aveva: - Tu?
Pietro, piegando la testa, allontanava pian piano quel pugno, con ribrezzo ed ammirazione.
Da ragazzo quella voce lo spaventava, gli faceva male; e allora si rincantucciava, senza piangere, per essere lasciato solo. Ora ne provava una scontentezza esasperante. E, convinto che non avrebbe dovuto soffrire a quel modo, si esaltò sempre più nelle parole di riscatto e di giustizia; come trovava scritto in certi opuscoli di propaganda prestatigli dal suo barbiere.
Entrò nel partito socialista, e fondò perfino un circolo giovanile. Prima di nascosto, e poi vantandosene con tutti quelli che capitavano nella trattoria. La sua ambizione doventò, allora, quella di scrivere articoli in una <I>Lotta di classe</I>, che usciva tutte le settimane. E se la polizia lo avesse fatto arrestare, sarebbe stato contento. Sognava processi, martirii, conferenze ed anche la rivoluzione. Quando un altro lo chiamava «compagno», si sarebbe fatto a pezzi per lui; senza né meno pensarci.
Domenico, invece, era preso sempre di più dal lavoro e dal podere; e non c'era nessuno che l'aiutasse!
Nelle ore di caldo asfissiante, quando la trattoria restava vuota, lo sguattero e il cuoco dormivano con il capo appoggiato sopra il ceppo, coprendosi con i loro grembiuli per via delle mosche che volavano su gli strofinacci untuosi; si fermavano, tutte accosto, intorno ad una goccia di brodo rimasta sopra la tavola; camminavano in su e in giù sopra i pezzi della carne, striscindovisi sopra. La marmittona di rame seguitava a bollire; un gatto, sotto la tavola, rosicchiava. Una cannella d'ottone, mal chiusa, sgocciolava con un sibilo incessante. Le due zangole battevano, sopra una parete, i riflessi trasparenti della loro acqua; che, di quando in quando, erano attraversati dall'ombra di una mosca.
Se giungeva un cliente, il cameriere pigliava il primo piatto della pila, poi chiamava il cuoco.
- Non dormire più.
Allora il sudore adunato sotto la camicia si raffreddava ad un tratto; e il cuoco si sdrusciava un orecchio indolenzito, perché gli era rimasto ripiegato tra il braccio e la testa.
La trattoria riprendeva il suo movimento.
Pietro passava quest'ore di vacanza, leggendo quasi senza avvedersi del tempo. Domenico, rientrando in punta di piedi, riesciva a sorprenderlo.
- Perché non sei attento a quello che fanno le persone di servizio?
E il rimprovero ricominciava.
Una volta gli gridò, proprio dentro a un orecchio: - Vieni a pesare la paglia.
- Io?
- Tu.
E lo alzò da sedere, prendendolo per il colletto. Ma poi, avendo fretta, si avviò dove erano i pagliaioli. Pietro non si mosse, restando con la testa contro uno spigolo del muro; e provando una grande repugnanza del pianto che lo invadeva.
- Ecco un altro barroccio di paglia, padrone!
Disse l'uno dei due uomini che avevano scaricato quella portata prima.
- È un pagliaio!
Urlò quegli che con la fune aiutava a trarre innanzi il barroccio.
- Dieci quintali!
Aggiunse Palloccola che reggeva le stanghe.
Il trattore sorrise delle loro esagerazioni. Andò al nuovo fastello di paglia, lo toccò e lo annusò. Poi, senza rispondere, guardò in faccia i due uomini.
Nella piccola piazzola, dove rispondeva la porta della cucina, erano altri due uomini sudati per la fatica; perché avevano scaricato i loro fastelli di paglia, alzandoli fino all'imboccatura della capanna. Ora, essi si riposavano; stando a coccoloni con le spalle appoggiate al muro. Il sudore della fronte sgocciolava su la punta delle scarpe polverose; il cui cuoio era gonfio di piegature.
- Quanto volete?
Disse il trattore, mettendosi i pollici nelle tasche del panciotto. Aveva il dorso d'una mano sgraffiato; e perciò, spesso, vi si succhiava il sangue.
- Quanto ci dà? Vogliamo mangiare anche noi.
Dispose Ceccaccio. E Palloccola: - Questi contadinacci non ci regalano più niente. Facciamo per strapazzarci.
Essi erano andati da un podere all'altro, capitando nelle ore della trebbiatura; in modo che ogni contadino, per levarseli di torno, aveva regalato una forcatella di paglia. I contadini non rifiutavano mai, temendo ch'essi per vendetta ne rubassero molta di più.
Infatti, vivevano più di furti che di lavoro; e non avevano mai un mestiere fisso.
Domenico faceva, sotto prezzo, grandi provviste di paglia, che poi bastava fino all'anno dopo per la stalla addetta alla trattoria.
- Volete fare a peso o a occhio?
Domenico chiese, togliendosi le mani dal panciotto.
- Come vuole. Siamo contenti in tutte le maniere.
Pipi e Nosse, già contrattato, interruppero: - Intanto mandi via noi. Ci paghi.
Erano due giovini. Pipi con una testa enorme, gonfia, con la fronte ampia. E gli occhi ceruli erano dolci, di una dolcezza infantile. Nosse aveva i baffi neri, e i piccoli occhi vivacissimi sembrava potessero mordere.
- Prima aiuterete ad alzare anche questa paglia.
- Se ci dà bevere!
Disse, ridendo, Pipi; che, poi, sputò nel muro.
- Ho la gola piena di polvere!
Disse Nosse. E si alzò, appoggiandosi un'altra volta al muro.
Domenico sorrise, promettendo.
Passava già la cinquantina. Le mani gli erano doventate pallide: si vedevano le loro vene di un rosso violaceo; con le unghie lunghe e strette, accartocciate.
Si faceva ancora più di rado la barba, di un biondo quasi bianco. Gli occhi gli lustravano come i gusci delle ostriche; ma le estremità delle palpebre erano gonfie, con due fili purpurei. I capelli gli erano divenuti radi, per quanto se li bagnasse con un'acqua di sua invenzione, fatta con le coccole di ginepro; i baffi, attaccati alle guance, si arruffavano intorno alla bocca; che aveva un senso di bontà.
S'era fatto alquanto curvo, con le spalle ingrossate; ma se ne teneva d'esser forte come prima e di pesare più di un quintale. Gli pareva che i suoi polsi e il suo collo fossero quasi indomabili; qualche cosa che egli doveva conservare, per servirsene al bisogno.
Domandò Ceccaccio: - Dunque a peso?
Disse il trattore: - Non sarà cento chili.
Urlò Ceccaccio: - Che cosa dice? Un quintale e mezzo.
Aggiunse Palloccola: - Siamo onesti noi!
E bestemmiò. Ma corsero a sciogliere le funi, per scendere la paglia dal barroccio. Domenico s'avanzò, la prese per la legatura e la sollevò; aiutandosi con i ginocchi.
- Vi dò quattro lire. È anche troppo.
- L'abbiamo rubata, è vero, Ceccaccio?
Tutti risero. Poi bestemmiarono e gridarono, confusamente.
- Dunque, paghi noi; ce ne andremo.
- O non volevate bere?
Domandò lo stalliere annoiato, dall'apertura della capanna.
- No, no. Siamo stanchi. Non possiamo aiutare a tirarla su.
- Guarda che muscoli!
Disse Pipi, prendendo un braccio di Domenico; la cui camicia era rimboccata fino ai gomiti.
Esclamò Nosse: - Con quelle braccia!
Disse Ceccaccio: - Fate lesti, figlioli.
Dalla porta mezza aperta si vedeva la strada. E passò una giovine. Ceccaccio la chiamò, con un fischio.
Disse Pipi: - Bada se viene qua.
- Che cosa si fa qui? - domandò il trattore. - Si chiacchiera soltanto?
- O che cosa vuol fare?
E il compagno di Ceccaccio si sedé su la paglia, mettendosi le mani sopra i ginocchi.
- Non avevate furia, dianzi?
- È vero. Ci paghi.
- Eccovi sei lire. Levatevi di qui!
Pipi e Nosse escirono, con il loro barroccio.
- Tocca a noi ora.
- Dunque quanto ci vuole dare?
- Pesiamola.
I due presero una stanga, e vi misero l'uncino della stadera; a cui attaccarono il laccio della fune.
- Pesi bene, padrone!
- E tu non appoggiarti con le ginocchia.
- Io? Guardi: c'è un braccio di distanza.
Ed avendo su la spalla la stanga, Palloccola alzò sopra il capo le mani; mentre il corpo gli tremava per lo sforzo.
La paglia era un quintale. Fecero il conto; e la legarono, per trarla su con la carrucola.
- Lavora anche lei, padrone?
- Più di te, perché le mie braccia sono più forti.
E tutti si afferrarono alla fune, che pendeva dalla carrucola alta. Domenico l'avvolse ad uno dei polsi. Come il fastello cominciò a salire, il legno della carrucola scricchiolò; mentre la polvere con le festuche ricadevano su gli uomini. Lo stalliere stava con la mano tesa, sporgendosi dall'apertura. Gli alzatori si piegavano con un solo respiro; e il fastello penzolava su le loro teste; poi, afferrato dallo stalliere, imboccò nella finestra e disparve nell'ombra.
- È fatta!
Disse Ceccaccio, spolverandosi intorno al collo, dove le festuche restavano attaccate. Ma le braccia gli dolevano, come se fossero state strappate.
Il trattore, venutogli sospetto, andò verso un mucchio di mattoni rotti e di ferracci. Disse: - Qui manca una serratura vecchia. Chi l'ha presa?
I due pagliaioli si guardarono, e continuarono ad avvolgere le loro funi.
- Giovinotti, chi ha preso una serratura?
Ridomandò Domenico, doventando bianco.
- Io no di certo.
Rispose Ceccaccio con calma.
- Non dico a te. Dico che è stata portata via.
- Che ne facciamo noi?
Chiese Palloccola con odio e risentimento.
- L'avrà presa Pipi! Lui ci mercanta!
Disse, ridendo, Ceccaccio.
- Io non lo so. Ma, se lo sapessi, me la farei rendere. Non sono cose da lodare.
I due uomini divennero inquieti, perché a vicenda l'uno temeva che l'altro fosse stato il ladro. Ma Palloccola gridò: - Ci fruchi!
- Io non fruco nessuno! Eccovi il denaro. Ma non ricomprerò mai più la paglia da voi!
- Noi non ne sappiamo niente!
Domenico si convinse ch'era impossibile trovare il colpevole; e li credette tutti e quattro d'accordo. E, fatto un gesto per invitarli ad andarsene, rientrò nella trattoria. Disse a Pietro, riprendendolo per il colletto: - Se tu stessi attento, com'io ti comando, non ti porterebbero via la roba.
Pietro alzò le spalle, pensando: hanno rubato perché sono poveri. E si allontanò con quello stato d'ansia, che lo invadeva tutte le volte che suo padre era per percuoterlo. Infatti, Domenico fece per slanciarsi; ma Rosaura lo trattenne.
La serratura era stata presa il giorno innanzi da un accattone forestiero.
La sera questi uomini, storditi dalla fatica, sfamatisi a qualche convento, si addormentavano briachi in una bettola, e Pipi con la moglie.

Quando il Rosi era doventato padrone del <I>Pesce Azzurro</I>, c'era un ingresso solo, quello da Via dei Rossi, con un'insegna di ferro, a banderuola, ferma al muro e con un pesce dipinto tanto dall'una parte che dall'altra. Sulla porta, una Madonna in bassorilievo; del quattrocento. Ci stava ancora il lume attaccato, ma la fune per tirarlo giù mancava.
Poi furono aperti anche due ingressi dalla Via Cavour. Ed ad uno di questi, dietro il cristallo della porta, una vetrina a due piani, foderata con la carta che cambiavano una volta tutte le settimane; piena di polli già pelati, di carni arrostite, e d'altre delizie.
Dopo l'ingresso da Via dei Rossi una gran porta, per entrare in una piazzola interna sempre ingombra di calessi e d'ogni specie di legni. Accanto a questa, la stalla; che poteva contenere fino a trenta bestie. Sopra la stalla, la capanna.
Tutti i sabati, Domenico faceva l'elemosina dei pezzi di pane avanzati agli avventori.
La stretta Via dei Rossi, al principio, dov'era l'uscio vecchio della trattoria, si empiva un'ora prima del tempo, di mendicanti; fra i quali era anche la moglie di Pipi, giovine, ma così smunta e gialla che la sua bocca era come un taglio senza labbra: andava come se non avesse potuto piegare la testa da nessuna parte. Molte volte, dalla veste male abbottonata e sudicia, si vedeva il petto vuoto e senza seni.
C'era anche una vecchia, dal naso enorme e pavonazzo, con un cappello da contadina, del quale le trecce di paglia si disfacevano intorno; e ne rimaneva sempre un giro di meno. Questa pretendeva d'avere la prima elemosina, e non se ne andava finché tutti i pezzi di pane non fossero stati distribuiti. Talvolta gridava: - Quella vecchiaccia ne ha avuto più di me.
Ed apriva ancora i lembi del fazzoletto pieno di pane duro, sorreggendo sotto l'ascella il bastoncino.
C'era una mendicante, a cui Domenico faceva l'elemosina tre giorni della settimana; una donna grande, dal volto acceso ed uguale come una maschera sottile, che non si poteva togliere, una maschera di pelle rossa. Portava, d'estate e d'inverno, uno scialletto di lana nero annodato dietro il dorso. Teneva sempre incrociate le mani pallide sul petto. La sua figliola, alta e leggiadra, non la lasciava mai, tenendo una mano infilata sotto uno dei suoi bracci; era scema e sorrideva sempre; ma di un sorriso dolce ed appassionato.
Camminavano ambedue rasentando i muri; a passi lunghi, come se avessero voluto fuggire. Nell'attraversare la strada da una parte all'altra, si affrettavano anche di più.
Quando mangiavano la zuppa a qualche convento, la figliola voltava il dorso a tutti; e ritraendo il cucchiaio dalla bocca, faceva grandi risate silenziose.
Quando la madre morì, fu rinchiusa in un manicomio.
C'era un cieco, che imprecava contro il figlio; che aveva una mano secca con un dito di meno: - Sei un mascalzone, e non mi aiuti. Se tu stai costì appoggiato al muro, non troverai più pane per noi. Mascalzone! Mascalzone!
E tendeva un orecchio, accartocciandovi dietro una mano; per capire quanta elemosina ci fosse ancora; mentre la voce era la stessa di quando recitava le devozioni.
Tutti gli altri poveri erano andati incontro a Rosaura come un branco di polli verso il punto dov'è rimbalzato un chicco di granturco.
Il giovinetto del cieco ascoltava, scalcinando con le dita le commessure dei mattoni: preferiva esser l'ultimo perché, senza leticare, era sicuro che Rosaura avrebbe serbato qualche cosa per lui.
Tutte le mendicanti guardavano il pane avuto; e qualcuna ne riposava un pezzo troppo secco dentro una fenditura del muro, che era accanto all'uscio. Allora Rosaura, sporgendosi tutta fuori, esclamava: - Guardatela: viene a chiedere l'elemosina, e poi la scrafia!
Una donna rispondeva, tenendosi ambedue le mani strette sopra i fianchi: - Se l'avessi avuto io, l'avrei mangiato!
Qualcuna rideva, addentando il pane: dopo averlo un poco rigirato tra le mani sudicie. Ad un tratto, dal mormorio basso e incomprensibile, cominciava un alterco: - Viene a chiedere il pane, ed è ricca quanto vuole.
- Che importa a te? Sono ricca?... Non le dia retta.
Rosaura interrompeva: - State zitta, altrimenti non ve ne daremo più.
Un'altra donna, con il volto guasto da un ezzema, bendato con una pezzuola azzurra annodata dietro la testa, rispondeva:
- Ha ragione. Ma io non mi sono mai lamentata.
Si vedevano soltanto i suoi occhi infiammati, come piaghe, che non potevano stare aperti; ed era costretta, per guardare, a sollevare il capo di traverso; mentre, parlando, la benda seguiva i movimenti della bocca. E che bocca aveva!
Un vecchio, che sopravveniva quasi sempre a elemosina finita, cercava d'impietosire con quel tono che i mendicanti adoprano: - Per amor di Dio... anche a me.
- Non c'è più niente. Perché non venite prima?
- Le gambe non mi reggono più!
E batteva il suo bastone su lo scalino dell'uscio. Rosaura se ne andava senza dargli niente; dopo avergli risposto: - Ma per arrivare ora vi reggono!
Allora egli aspettava ancora per lungo tempo; con un'ostinazione rabbiosa: - Signora mia, non mi faccia soffrire più!
Aveva lavorato tutta la vita; e pensava, come a una magnificenza, che se si ammalasse avrebbe potuto entrare in un ospedale, dove sarebbe stato tutto il giorno steso sopra il letto. E a mangiare bene!
La moglie almeno gli era morta giovine, e non soffriva più! Ma egli finì con il credere un obbligo l'elemosina, come trovare uno scalone e mettercisi a sedere senza che lo mandassero via.

Domenico non riprese mai moglie, quantunque vi riflettesse sovente, grattandosi forte con le unghie il mento poco rasato, stringendo la pelle della gola e poi battendo le nocche su qualche cosa, ma senza farsi male. Lo annunciava con veemenza, di proposito, dopo ogni sua arrabbiatura. E credendo che Pietro si sarebbe dato agli interessi, per non trovarsi in casa una matrigna, gli diceva: - Ora toccherebbe a te! Ma tu, imbecille, fai il socialista! Non ti vergogni?
Comprava un cappello all'anno, portandolo tutti i giorni; finché la tesa, che si adagiava su gli orecchi, rovesciandoli più giù, non fosse untuosa. Gli piaceva di tenere la camicia almeno per due settimane; e bestemmiava quando doveva decidersi a rifarsele nuove. L'istinto di conservarsi nella condizione guadagnata lo costringeva anche ad inutili economie; che, del resto, faceva notare agli altri; anzi, volendo che fossero apprezzate, diceva, ed era vero: - Io sono un galantuomo: ho fatto i denari con il mio sudore; e me li voglio mantenere.
In una ciotola di legno, teneva, insieme con le monete di rame, per superstizione, una medaglietta trovata mentre gli assalariati vangavano. Per guardarla meglio, il che gli succedeva tutte le volte che gli veniva in mano, mettevasi gli occhiali.
La medaglietta gli piaceva, perché con le unghie riusciva a grattare il metallo; che, allora, pareva nuovo. Quando gli avevano portato gli occhiali, dopo averglieli cercati da per tutto, sedeva, li puliva con il fazzoletto rosso, puzzolente di lezzo: - Non la vedo bene!
E usciva fuori, per farla esaminare prima al droghiere, poi al mercante e al barbiere; che erano i suoi amici più vicini.
Ma né meno loro, naturalmente, sapevano che medaglietta fosse.
Talvolta si appoggiava, senza cappello, all'uscio della bottega; salutando anche chi conosceva a pena.
D'estate, vi si faceva portare una sedia; sonnecchiando, finché qualcuno, che passava, non lo destasse con un colpo sopra la coscia. Allora si risentiva, dicendo: - Mi ero addormentato un poco.
E, per levarsi il sonno, andava a dare qualche ordine.
Durante la giornata, inghiottiva tutte le frutta trapassate; e diceva al cuoco, i cui capelli neri toccavano quasi le ciglia: - Portami un tegame!
Assaggiava e rimandava via il cuoco, spingendolo sul braccio: - Ci hai messo poco pepe. Quando imparerai a fare da te?
Il rimproverato restava male ed alzava a poco a poco una spalla.
- Portami quell'altro tegame, ora.
Quegli obbediva, restando poi dritto a guardarlo; con una mano sopra la tavola.
Domenico non aspettava di aver ingoiato il boccone, per gridargli: - Hai fatto bruciare l'aglio.
Si puliva i baffi, sdrusciandoseli con il tovagliolo; e concludeva: - Bisognerà che in cucina non ti lasci più solo o ti mandi via. Degli uomini non ne nascono più.
Ogni mattina mangiava di quel che c'era rimasto il giorno innanzi in fondo ai recipienti della dispensa.
Ma del vino ne beveva quasi un fiasco; e ruttava sopra il fazzoletto, volgendosi verso il muro. I sapori lo esaltavano, lo facevano loquace; e fuori della cucina gli pareva di perder tempo, a meno che non fosse a Poggio a' Meli.

Pietro era riuscito a iscriversi all'istituto tecnico di Firenze, dopo aver fatto privatamente, quasi da sé, il primo corso a Siena. Ma fu la completa sparizione d'ogni legame tra padre e figliolo. Sempre di più si trattarono come due estranei costretti a vivere insieme; e Domenico aveva smesso addirittura di voler su di lui qualunque autorità; credendo che, comportandosi a quel modo, gli facesse rimorso. Ma, ormai, non l'avrebbe perdonato mai più. Durante magari un mese, Domenico era stato capace di prendere tutto in scherzo; e ambedue si dicevano facezie, che qualche volta doventavano litigi.
Pietro era sempre socialista, ma andava meno con gli operai. Si vergognava d'aver già vent'anni, e d'essere così a dietro degli studii: questa cosa l'avviliva.
Presa a Firenze una camera in Via Cimabue, mangiava a una trattoria, lì vicino.
Stava lunghe ore con la testa tra le mani, imaginandosi di studiare; con un'ansia attraversata e tagliata in tutti i sensi da malumore e da malinconia, come da linee tirate con una squadra.
Si sforzava d'essere soddisfatto e di affezionarsi alla scuola; ma gli pareva che i giorni fossero così staccati e separati l'uno dall'altro che sentiva prendersi dallo scoraggiamento. Il giorno dopo non era capace più a ricordarsi e a raccapezzarsi del giorno avanti; e provava difficoltà a pensare ai giorni successivi.
E non riuscendo quanto avrebbe voluto, né meno ora che ci metteva tutto il suo impegno, studiava sempre meno!
Sotto la sua finestra di camera c'era la cinta di un convento di suore; nel cui giardino, quasi subito dopo mezzogiorno, andavano a cantare e a ruzzare un centinaio di bambine. Quanta tristezza quel baccano! E poi egli odiava le suore!
Quando le bambine arrivavano all'angolo più vicino, sorrideva amaramente, sperando che lo avrebbero scorto. Ma non se ne accorgevano né meno; e, allora, s'infastidiva anche di loro.
Della città, invece, non sentiva né meno il rumore; perché la cinta, perpendicolare al muro della casa, era lunga e andava a finire a un fabbricato così grande che gli tappava quasi tutta la Piazza Beccaria; e, di qua e di là, altre case, quantunque più basse, quasi in semicerchio, chiudevano ogni cosa.
Si trovava sempre a disagio: ed era come una cosa che non riesciva a spiegarsi. Non si affidava agli amici, e ne sentiva la mancanza. Si annoiava di tutto; e la cupola di Santa Maria del Fiore, velata quasi sempre di nebbia in fondo a Via dei Servi, che egli vedeva prima di rientrare a scuola, quando andava a prendere cinque minuti di sole in Piazza dell'Annunziata, gli dava uno scoraggiamento languido, che ingrandiva se qualche campana suonava.
E tra tutti i rumori, verso il tramonto, flebili e lontani, gli veniva voglia di fuggire; come se l'aria ascoltasse; quell'aria trasparente, della quale aveva quasi timidezza e paura.
Quando andava a cenare, cominciava a farsi buio; e, sotto gli alberi della Piazza Beccaria, le baracche di un circo equestre abbagliavano con i loro lumi ad acetilene, mentre un carosello non smetteva più di girare con la musica del suo organo.
Egli vedeva la Via Ghibellina e la Via dell'Agnolo così strette che le loro case si chiudono insieme; mentre le altre, dalla parte della Barriera Aretina, terminano dritte dinanzi agli alberi e alla campagna.
Entrando in casa, trovava la padrona a cucire insieme con altre donne; alle quali non parlava mai.
Ma, intanto, cominciarono ad affittirsi i giorni, in cui sentiva stanchezza della scuola; una stanchezza che gli faceva lo stesso effetto di una colpa inspiegabile.
Pensava anche che non tutti avevano i mezzi per studiare!
Tra i compagni, si sentiva un giovane che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava.
Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi.
Si avvide di aver tentato invano di affezionarsi ai compagni: le indifferenze con alcuni si mutarono in ostilità e inimicizie; per gli altri provava avversione, specie per quelli più ricchi, che lo stimavano da poco perché era socialista. I più lo credevano pazzo; ma gli volevano quasi tutti bene.
Finalmente, convinto che doveva cedere alla sua stanchezza, non andò più a scuola; e ai compagni, che ne ridevano, disse che suo padre non aveva più denaro per tenerlo a Firenze.
Gli ultimi giorni si era sentito, con angoscia, ma anche con piacere, sempre più differente a tutti; e non seppe spiegarsi come gli altri studiassero senza essere costretti a fare come lui. Ed ebbe più fretta d'allontanarsene.
Dopo quattro mesi soli di scuola, invece di pagare alla padrona di casa la nuova mesata anticipata con il denaro ricevuto dal padre, tornò a Siena senza né meno avvertirlo.
Fu ricevuto come se avesse messo giudizio, sebbene un poco tardi. Ed egli non osava dire che voleva studiare da sé per fare gli esami lo stesso. Ma saputo, per caso, da una lettera ricevuta da Rebecca, che Ghìsola era a Firenze da molto tempo, e non più a Radda, prese senz'altro la decisione.
Domenico, che invece aveva subito sperato troppo, avendo apprezzato il suo ritorno spontaneo a Siena, spiegandolo come un ravvedimento mandato da Dio, cercava d'avere piuttosto buone maniere; e gli chiedeva: - Perché preferisci stare lontano da me, che sono tuo padre? Dio ti deve toccare il cuore. Non te ne accorgi?
Ma, visto che né meno ora poteva farsi obbedire, lo lasciò di più; sicuro che il tempo l'avrebbe aiutato.
E Pietro, per scrupolo di coscienza e per sentirsi in diritto di fare il contrario di quello che il padre voleva, si dette a studiare con una soddisfazione prima a lui ignota.
Al seminario si erano sovrapposti i tre anni della scuola tecnica, cambiando tutto; si sentiva proprio un altro, e sul punto di cambiare ancora.
Il suo socialismo doventava, come diceva lui, e com'era di moda, intellettuale. Egli non aveva più la fede con la quale una volta voleva convertire gli altri; ma adoprava la moralità socialista per i suoi sentimenti.
Ora quei tre anni gli parevano rapidi come un giorno solo, perdevano ogni consistenza, anche mentale; come se appena gli avessero dato tempo di respirare.
Gli esami, anche contro la volontà che voleva avere, doventavano sempre più un pretesto; e non gli pareva né lecito né leale. Ma la sua impazienza di rivedere Ghìsola aumentava; perché metteva in Ghìsola tutta la fiducia della sua vita.
Stava a giornate intere, solo, in casa; guardando, con la faccia su i vetri, il sottile rettangolo di azzurro tra i tetti. Quell'azzurro sciocco, così lontano, gli metteva quasi collera; ma non ne distaccava gli occhi. Le rondini, che di lì parevano nere, passavano come attraventate. Soltanto là su, all'ultime finestre, qualcuno affacciato che non conosceva né meno! E allora sentiva il vuoto di quella solitudine rinchiusa in uno dei più antichi palazzi di Siena, tutto disabitato, con la torre mozza sopra il tetro Arco dei Rossi; in mezzo alle case oscure e deserte, l'una stretta all'altra; con stemmi scolpiti che nessuno conosce più, di famiglie scomparse; case a muri con due metri di spessore, a voltoni, le stanze quasi senz'aria. I ragnateli larghi come stracci e la polvere su le finestre sempre chiuse e i davanzali sporgenti dalle facciate.
Talvolta, all'improvviso, pensava a Firenze e a Ghìsola che forse, aspettandolo, gli avrebbe fatto un rimprovero che lo esaltava; all'Arno scrociante; a tutte le colline sempre belle; a quelle nebbie che lasciano i muri bagnati, annerendo le pietre delle strade che sembrano rappezzature.
Il padre, parlando, gli produceva una malinconia invidiosa: e si allontanava per non udirlo, per non vederlo; con un brivido. Perché nessuna parola era proprio per lui? Perché lo trattavano come se lo tollerassero, anche ora? Perché tentare invano di essere come gli altri? Come erano fatti gli altri?
Ripensava ai compagni di Firenze, ad uno per volta. E perché loro, forse, non lo ricordavano né meno?
Da quanto tempo era morta la mamma? Gli parevano cento anni. E tutte le cose s'erano svolte senza bisogno di lui; a sua insaputa.
I suoi occhi, che avevano una mansuetudine mistica, contrastavano con le linee magre e sfuggenti del volto; sì che subito se ne notava la differenza.
Aveva quelle indefinitezze profonde e persistenti, senza nome e senza mèta; che lasciano una traccia anche quando sono passate, come si vede se è passata l'acqua su la rena.
Credutosi inferiore ai suoi amici di Siena, ora conosceva lo sbaglio acre; che poteva aver conseguenze anche nell'avvenire simile ad un'espiazione arida.
Ma perché aveva sperato di poter doventare un pittore? Che significava quel tentativo inutile, dinanzi al suo amor proprio? Poteva non tenerne conto, per credere ancora a se stesso?
Si confortava, sognando un'esistenza nuova e insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva; ed egli non riesciva né meno a capire come l'avesse sognata.
Per quanto di una sincerità fanatica, nessuno avrebbe potuto rendersene conto. Sentiva di non essere più come una volta per quelli ch'erano stati suoi amici prima che fosse andato a Firenze. Avrebbe voluto farsi perdonare di non avere più amicizia per loro; ma si vergognava e si pentiva di essere stato troppo sincero ed espansivo tanto facilmente. Rivedeva quelle sue sottomissioni morali, di cui gli altri s'erano approfittati. A Siena aveva voluto essere amico anche dei più cretini e dei più farabutti, credendoli degni di se stesso; come un dovere, fino a stimarsi cattivo ad andare a spasso solo, senza qualcuno di loro. Ma, tornato da Firenze, era riuscito a non parlare più a nessuno, con una smania amara di non vederli più!
Egli era il giovine che, sebbene debole, porta impeti di energie; anche se sbaglia.
Molte volte, in sogno, provava come avrebbero dovuto svolgersi i suoi sentimenti; svegliandosi quasi soddisfatto, come se un'esistenza superiore e indefinibile gli avesse dato ragione.
E con quale gioia stravolta aspettava il giorno dell'incontro con quella, che già metteva sottosopra tutto il suo essere!
Non sapeva le parole che le avrebbe detto, quantunque se le imaginasse luminose di bontà; accorgendosi talvolta di aver pensato parole senza significato, che gli portavano via la bocca e l'anima! Parole avventate che non si ritolgono più, come coltelli infilati troppo forte, con rabbia. Parole che vuotano l'essere con piacere frenetico: alle quali succedono paure folli, giorni temporaleschi, piogge calde e asciutte più della stessa aridità che dovrebbero bagnare.
Talvolta, aveva voglia di farsi uccidere; forse da Ghìsola, che già sentiva sua; tornata come una tentazione deliziosa dal tempo scorso.
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