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Info sull'Opera
Autore:
Federigo Tozzi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Con gli occhi chiusi - 5

di Federigo Tozzi

- Né meno tu.
- Io farò quello che voglio.
E fingendosi risentito, si riaccostò con la saliva bianca che gli usciva di bocca. Anche quando non parlava gli si vedevano tutti i denti di sopra, sani, ma storti: sembrava che li avesse piantati nel labbro. E aveva il naso piegato da una parte.
Pietro, cercando di persuaderlo con la bontà, gli disse: - Ed io mi adirerò con te.
- E che m'importa? Fai quello che vuoi. Io sono amico di tuo padre, e verrò quando mi pare. Anzi tuo padre, qui al podere, mi ci porta più volentieri che te.
Pietro si sentì combattuto senza riparo: era proprio vero quel che aveva detto!
E seguitarono a camminare accanto. Ma, dopo un poco, Antonio lo fermò per guardarlo in faccia; trattenendolo per un braccio. Poi fece una sghignazzata: - Stai zitto?
Poi sputò sull'erba, asciugandosi la bocca con il dorso della mano.
Pietro disse: - Io torno indietro.
- Io no: voglio parlarci. Vattene.
- Torna indietro anche tu.
Voleva evitare che Antonio la vedesse. Ma quegli proseguiva; e, allora, Pietro dovette fare altrettanto.
Quando giunsero davanti all'aia, Ghìsola usciva di casa proprio in quel mentre; e s'avviava nel campo a chiamare il nonno, passando accanto alla bella pianta di ciliegio da capo a un filare di viti.
Antonio, per fare il più bravo, le mosse incontro in fretta. Ma Ghìsola rise di più a Pietro; e dette a capire che si fermava lì per lui.
Allora Antonio si mosse per cogliersi una piccia di ciliegie, lasciandoli discosti; e Pietro le domandò: - È vero che vuoi bene soltanto a me? Dimmelo. Se non fosse vero...
Gli rispose con dolcezza: - Soltanto a lei... Però, Antonio non vorrebbe.
Allora non si sentì sicuro, e guardò il dorso dell'amico.
Ghìsola, accortasene, aggiunse: - Non ci crede?
E scosse la testa. Ella parlava, questa volta, con una tranquillità così profonda, ch'egli fu subito rassicurato.
- Ma non se ne faccia accorgere da lui. Perché ce lo porta?
Gli sembrò che lo rimproverasse di non stare a solo con lei e credette che ne soffrisse.
Ma la sua bellezza lo distrasse e gli fece dimenticare quel che Antonio aveva detto.
Antonio, intanto, si riavvicinò; certo dopo aver progettato qualche cosa, sputando lontano i noccioli delle ciliegie mangiate tutte insieme; aiutandosi con un dito per cacciarseli di bocca. Pietro, mentre un brivido lo scuoteva, gliene strappò una piccia infilata alle dita. Antonio esclamò: - Perché me le levi? Dàlle a Ghìsola, piuttosto.
Pietro non seppe che rispondere; perché avrebbe voluto che quella cosa non gli fosse stata suggerita; e restò con le ciliegie in mano. Ma Ghìsola lo cavò d'impaccio: - Io le prendo da me.
Quanto gli parve buona e intelligente!
Ma Antonio non si perse d'animo: - Se non ci arrivi, ti abbasso il ramo io.
Allora, Pietro notò come a lui non sfuggiva mai nulla per ingraziarsela; ma Ghìsola, aspettandosi anche questo, sorrise e disse: - Non importa.
Ma con una insolenza, che Pietro sussultò sorpreso. E pensò: «Perché non è venuto a me di dirglielo prima? Ora non c'è più tempo! E quanto piacere ella avrebbe avuto se glielo avessi detto io!».
Si guardarono tutti e tre in silenzio, stando in cerchio; ma si sentirono per un istante amici e senza ostilità. E sentirono anche il bisogno di dirsi più di quello che s'erano detto fino ad allora.
Ghìsola sembrava più lieta, si mandava in dietro i capelli; toccava il laccio del grembiule, come per invitare a farselo sciogliere. Ma Pietro credeva che se ne volesse andare, perché non riesciva a dirle niente.
Il ciliegio aveva il pedano nero e rossiccio, aperto da profonde screpolature come spacchi, ripieni di resina dura e lucente; una fila di formiche saliva, ed un'altra, accanto, scendeva, brulicanti; pareva di sentirsele camminare addosso. Vicino, su l'erba acciaccata, c'era rimasta una pozzanghera di solfato di rame incalcinato. Sopra un fragolaio pendeva un fico, senza né meno una foglia, tutto liscio, con i rami quasi arruffati insieme; e la sua buccia era di un bianco roseo. Qualche rospo s'udiva dai fondi dei borri, tra i salci potati e rossi. Pareva che non ci fosse nessun'ombra; ma le nebbioline, che restavano basse come le piante, salivano dalle terre vangate.
Antonio, vedendo Pietro assorto, lo urtò. Quegli per non cadere fece un passo innanzi, presso Ghìsola; ma non fiatò perché Antonio non volesse picchiarlo proprio lì: gli parve che ella odorasse molto, di un odore strano; che lo eccitò. Gli parve anche che facesse l'atto di aprirgli le braccia; e ne fu tutto sconvolto: «Se l'avesse aperte da vero?».
Ma Antonio disse a Ghìsola: - È possibile che tu pensi a lui? Non vedi com'è brutto?
La contadina, specie per rispetto, rispose che non era vero; ma in modo che Antonio non se la prendesse troppo. Poi seguitò a difenderlo: - Che gliene importa?
Allora Pietro fu quasi sicuro di non essere solo; ma non ebbe la forza d'alzare gli occhi, benché Antonio non sapesse più quel che dire. Poi Pietro la guardò; ed ella gli sorrise con uno di quei sorrisi involontariamente dolcissimi.
Perciò Antonio, non trovando da proporre di meglio, perché quei due non stessero troppo insieme, disse con tutta la sua cattiveria: - Io me ne torno a Siena.
Ghìsola suggerì sottovoce a Pietro, sapendo che Antonio avrebbe udito lo stesso: - Lo lasci andare.
E allora Antonio, senza aspettarlo, s'avviò; ma, volgendosi con collera, chiese: - E tu non vieni?
Ghìsola non parlava più: e il suo silenzio non lasciava trapelar nulla. Si capiva bene però che voleva mettere alla prova Pietro, che le disse con la voce strozzata: - Bisogna che vada. Mio padre...
Tutta la faccia di lei s'indurì; ed ella si mise a guardare Antonio già discosto parecchi passi.
Pietro si raccomandò: - Non dirgli niente!
Ella abbassò la testa, rispondendo: - Allora vada via!
Ma Pietro credette d'essere amato. E raggiunse Antonio, prendendolo a braccetto. Cominciarono allora a ridacchiare.
Poi, Antonio disse sinceramente, e anche perché Pietro non pensasse più a Ghìsola: - Perché siamo venuti a Poggio a' Meli? Non ci siamo divertiti.
Una cicala cantò da un olivo. La saggina ondeggiava prima lenta e poi in fretta; talvolta qualche stelo pareva scosso da un brivido, aprendo a tratti i suoi fiori chiari.
Antonio cavò di tasca un coltellino con il manico d'osso a coda di pesce, spingendolo sotto la buccia secca di una canna, che aveva raccolta; tagliando anche i cerchietti dei nodi, a colpi che assomigliavano al suo riso.
Pietro non si volse indietro a vedere dove fosse Ghìsola perché non facesse altrettanto Antonio, giacché ora fingeva d'essere attento al suo lavoro di pulitura. Antonio infatti lo spiava; ma era sicuro che non ce ne fosse bisogno.
Giunti alla Porta Camollia, si spolverarono con il fazzoletto le scarpe, si asciugarono il sudore e si ravversarono il cappello aiutandosi a rifarci la piega nel mezzo.
Prima d'entrare nella trattoria, si promisero di non parlare più nessuno dei due a Ghìsola.

Ghìsola aveva ripreso la sua strada verso il campo, con un'ebrezza che empiva di gioia tutto il suo essere. Il movimento delle gambe assecondava questa ebrezza; e le sottane erano così lievi che non le sentiva né meno.
Ella non si fidava d'Antonio che era capace di ridire tutto al padrone; non faceva nessun conto di Pietro; ed Agostino le piaceva più di tutti e tre.
In quel mentre questi, correndo attraverso i filari delle viti, e saltando le passate del grano nuovo, le andò incontro come quando con un palo in mano sfondava le zucche. Era in maniche di camicia, con i polsi tondi e forti e le vene strette dalla carne soda. Non portava il cappello; e gli occhi verdognoli, di una lucentezza di diaccio, sembravano senza palpebre.
Le saltò addosso e la gettò a terra; facendola piangere. Allora le chiese, per celia: - Hai sentito male?
- Niente! Niente!
E lesta, alzandosi, lo afferrò a mezza vita; per fare altrettanto a lui. Ma Agostino le tirò giù le braccia. Ella sorrise, con il viso bagnato di lacrime; volle svignarsela; e puntò i piedi serrandoli insieme. Sicuro della sua forza, il giovine le gridava dentro gli orecchi.
- Ti faccio quello che voglio io! Non ruzzo. Tu lo sai!
Ella, allora, gli azzannò un braccio. Agostino, spingendo il braccio, le piegò la testa indietro, costringendola ad aprire i denti. Poi, piuttosto in collera, le domandò: - Ed ora che cosa fai?
Ghìsola rispose, dopo aver sputato: - Son la più debole. Te ne vanti? Com'è salata la tua pelle!
Egli la guardò negli occhi, per impaurirla.
- Quant'è che non vedi Pietro?
Ella cavò fuori la punta della lingua.
- Non viene più!
Egli che, da casa, lo aveva riconosciuto al vestito, ed era venuto per vederlo, le rifece la voce: - Da vero?
- È quanto mi pare!
- Credevo che volessi venire a mangiare le ciliegie con lui?
E le andò addosso un'altra volta, per pestarle la punta delle scarpe tutte rotte lungo le ricuciture.
- Perché non mi hai detto la verità? Con gli altri devi esser bugiarda; con me no.
E seguitava a farla indietreggiare. Ma ambedue caddero; battendo la fronte insieme. Allora egli ebbe il desiderio di litigare da vero: ma udì la sonagliera della sua mula: - È il mio fratello che torna!
Si drizzò in ginocchio, per ascoltare meglio. Poi finì d'alzarsi e se ne andò vociando: - Se l'ha strapazzata troppo!... Se l'ha strapazzata troppo! Non la sa guidare.
Il ciuffo a punta de' suoi capelli sudati gli sbatteva su le ciglia; e, con quegli orecchi stretti, tutta la testa, rotonda di dietro, sembrava una palla.
Ghìsola era rimasta lì, pentita di trovarsi stesa in terra a quel modo. Si alzò in fretta, pulendosi e guardandosi i polpacci delle mani chiuse a pugno; come quando era a tagliare l'erba e si riposava.
Quando era a tagliare l'erba ficcava la punta del falcino nel tronco di un albero, assettandosi un poco le vesti addosso, specie la camicetta che si sbottonava sempre; stringendo tra i denti le forcelle che una per volta ripigliava per mettersele nei capelli unti d'olio. Dopo aver toccato la punta del falcino, umida del legno lacerato, come di una saliva, cominciava a cantare; interrompendosi, e stando dritta in piedi. Poi, si sputava nelle mani e si rimetteva giù.
Talvolta, le veniva voglia di nascondere tutto il viso; e di restare così; di non essere veduta che dall'aria; di non mangiare più, di morire senza accorgersene.
Le veniva anche voglia di gridare; e aveva paura.

Quel poco tempo che Anna stava al podere, quando non aveva più da lavorare in casa, si faceva empire le brocche da Ghìsola; e poi, con un annaffiatoio, bagnava le piante dei limoni. La sera Giacco toglieva, con una zappa, l'erba nata attorno alla casa; buttandola ai conigli o alle galline.
Anna scendeva fin giù agli orti, e qualcuna delle donne le pigliava l'insalata e i cavoli.
Ella avrebbe voluto tenere i fiori, anche perché vicino a Poggio a' Meli c'era un giardino; che andava sempre a vedere, per ambire di averne un altro eguale. Ma dovevano bastarle i geranii e i garofani; quando glieli regalavano da trapiantare. Non osava, però, tenerne molti, perché certo Domenico le avrebbe domandato se andava in campagna per curarsi oppure per starci in villeggiatura. Del resto ella stessa si contentava d'averne più di quando era ragazza.
Anche per comprare quei pochi ninnoli che teneva nel suo salotto di città, era bisognato che glieli avessero venduti quasi per forza. Infatti un ebreo robivendolo, tutte le volte che non aveva da pagare il conto alla trattoria, le portava a far vedere ogni specie di oggetti vecchi e glieli lasciava sul banco; benché lei non volesse in nessun modo. E quando, passata una settimana, egli tornava, Domenico ed Anna, dopo mezz'ora per mettersi d'accordo, e avergli detto che sarebbe stata l'ultima volta, si aggiustavano alla meglio. Il robivendolo giurava che da qui in avanti avrebbe pagato sempre con i soldi alla mano; e allora bevevano insieme un bicchiere di vino, perché erano doventati anche rochi a forza di vociare e di trattarsi male.
Ma Anna ne era contenta; e così i quadri, dipinti sul vetro, delle <I>Cinque parti del mondo</I>, i portafiori d'alabastro ingiallito, le anfore di vera porcellana entravano in casa sua.
Il salotto, ormai, non ne conteneva più. C'era poi addirittura una parete ricoperta con le fotografie di quasi tutti i conoscenti; e, sopra un mobile verniciato a noce, due ciociare di gesso che sorridevano. Nel tavolino di mezzo, un servito di cristallo celeste, ma incompleto; che aveva attorno cinque lucernine di ottone sempre infioccate su nel manico perché le mandavano, con un fiasco d'olio, a tenerle accese quando facevano i Sepolcri.
Ella dava, almeno una volta al mese, il cinabro agli impiantiti; e, allora, bisognava che si pulissero bene le scarpe prima d'entrare.
Quando, in campagna, le portavano qualche fiore, non voleva tenerlo in casa; e l'offriva alla Madonna del Convento di Poggio al Vento. Se fosse stato già tardi e avevano chiusa la chiesa, lo metteva in fresco, ma sopra il tavolo della stanza d'ingresso; e la mattina dopo era la prima faccenda.
Per pararsi il sole, che le faceva subito dolere la testa, aveva un ombrellino rosso con il manico d'avorio; un ombrellino di parecchi anni. Ella, quando vedeva le assalariate, se ne vergognava; e, chiudendolo, stava piuttosto sotto una pianta. Mentre invece, andando alla messa, lo portava volentieri; e magari se lo faceva reggere da Ghìsola.
In chiesa si metteva su una panca, un poco distante dalle contadine; che, del resto, per rispetto, a farle posto ci pensavano anche da sé.
S'era fatto un vestito nero con una guarnizione di seta gialla al collo; e con una trina che, attaccata alle spalle e alla cintura, stava fino a mezze maniche. Su la guarnizione teneva una catena d'oro. Invece, per la trattoria, aveva un vestito rosso a palline bianche e celesti.
Ella diceva a Ghìsola che imparasse a scrivere, almeno un poco; ma siccome non poteva fidarsi che Pietro le insegnasse, perché si metteva subito a farle dispetti, lei stessa ci si dedicava qualche ora del giorno, quando stava meglio. E Ghìsola s'era fatto l'inchiostro con le more delle siepi. Ma non andò mai avanti oltre le prime aste.
Per dire la verità, invece, Ghìsola avrebbe imparato volentieri; e, a sapere che Pietro andava a scuola, le faceva un grande effetto. Ella avrebbe voluto almeno leggere, perché molte delle sue amiche dei poderi accanto avevano perfino il libro da messa, quello regalato dai cappuccini per la prima comunione; e poi perché, in Piazza del Campo, le domeniche mattine, le veniva voglia di comprare le canzonette stampate che vendevano a un soldo con il racconto di qualche fatto miracoloso, dove c'era sempre una Madonna con una gran corona dietro la testa. Le canzonette erano belle perché anch'esse, prima delle rime, ci avevano sempre qualche figurino. Ella si fermava, con gli altri contadini, a sentirle con la chitarra da Cicciosodo, quel cantastorie capace di smuovere il cappello a tuba contraendo la pelle della fronte, ritto sopra uno sgabello. C'erano anche le scimmie che sceglievano i numeri con la <I>Ruota della Fortuna</I>; c'era chi vendeva certe chicche di tutti i colori, involtate in cartocci ritagliati a frange con le forbici.
Quando tornava a Poggio a' Meli, aveva già imparato l'aria della canzonetta che le era piaciuta di più; ma non si ricordava di tutte le parole. Qualche volta, avendola comprata lo stesso e tenendola piegata in tasca perché Masa non gliela vedesse, se la faceva leggere quando nel campo trovava un'amica. C'erano da vero cose belle, che la commovevano o la facevano ridere.

Per non tenere Pietro proprio in ozio, Anna lo mise alle belle arti; perché aveva sempre avuto una certa tendenza al disegno, che a lei e a qualche avventore era sembrata da non trascurare.
Una mattina, in casa, ricopiando un brutto ritratto a stampa, Pietro si chiese perché provasse quell'indefinitezza per Ghìsola.
Allungava e piegava il collo per veder meglio gli effetti; ma il disegno, a malgrado de' suoi sforzi, era incerto e sbagliato,
Si stupiva di non riescirci; e arricciava in giù e in su le labbra, fino a toccarsi la punta del naso.
I libri di quando andava a scuola, sporchi e slegati, erano tra i suoi piedi. Urtandoli provò un lieve malessere, che lo distrasse. Anche il disegno lo irritò.
Una specie di struggimento a lui noto assalì il suo cervello come una polla diaccia, che non gli permetteva mai di fare qualche cosa. Anche gli sembrava strano d'esistere; perciò ebbe paura di se stesso, e cercò di dimenticarsi, fissando lungamente le palme delle mani finché riuscì a non scorgerle più.
Allora percepì un dolore dietro la scapola sinistra; al quale gli parve ridotto tutto il suo essere.
E dopo un pezzo, si avvide che il tavolino sul quale lavorava, essendo troppo basso, gli aveva aiutato quell'assopimento.
Si alzò. La matita cadde, spezzandosi. Raccattò i pezzettini con un vivo dispiacere quasi superstizioso: «Perché è caduta?».
Esaminò il ritratto e poi la copia; e si sentì tanto scoraggiato che ne provò quasi affanno, come il culmine dell'indecisione e del dubbio che mai lo lasciavano in pace.
E in tanto, un raggio di sole, un raggio pieno di sonno, aveva invaso tutto il foglio di carta. E Pietro pensò: «È finita. Non vado più avanti».
Rebecca, che aveva spazzato tutte le camere, passò accanto a lui e gli disse: - Perché stai costì senza far niente?
Le saltò addosso, dietro le spalle, allacciando le mani sopra il volto. Rebecca rise con la bocca chiusa, insalivandogli le dita. Egli la fece barcollare; poi, saltando, andò in un'altra stanza.

Quella stessa mattina, Ghìsola s'intestò di non alzarsi.
Masa le chiese, con ira: - Ti senti male, forse, dormigliona?
Ma quella non rispose; e la vecchia, borbottando, andò in cucina a mangiare. Dopo un poco, riaprì l'uscio; e affacciatasi, richiese: - Perché non mi rispondi? Vuoi fare i gestri, stamani?
Ghìsola sgorgugliò e si ravvoltolò sotto le coperte, con il viso dalla parte del muro.
Masa non era capace di avere una lunga collera; e, per giustificarsi, disse: - Ho visto che ridevi!
E continuò ad ingoiar la zuppa diaccia, tenendo la scodella in mano.
Ghìsola era molto stanca; aveva una di quelle stanchezze che, lì per lì, si sentono anche moralmente.
Ma Masa, con una persistenza uggiosa, le disse ancora: - Io non ho da sprecare più il fiato. E a star con te non compiccio niente.
- Smettete, dunque! Non posso dormire? Non voglio lavorare. Non devo tornare a Radda? Perché state così impalata?
Le pareva di non aver dormito; e si stupì che Masa continuasse: - E se il padrone non ti vuole più qui, doventi impertinente con me?
E fece l'atto di batterle il cucchiaio su la faccia, ma invece lo leccò di sopra e di sotto. In fondo la compativa, e le dispiaceva di separarsene. Tornò in cucina.
Ghìsola, messa di buon umore da quelle parole, si alzò. In camicia, fece una ghirlanda di fiori finti, con certi pezzetti di filo di ferro; ai quali, l'anno avanti, era stata attaccata l'uva. Poi, la nascose nel canterano insieme con i suoi ritagli di carta colorata, con le scatole da saponette, con un mucchio di nastri e di striscioline di stoffa; che, talvolta, si divertiva a sciorinare in fila sul davanzale della finestra; dove il piccione e la picciona volavano battendo il becco ai vetri per chiederle il granturco o le briciole secche di pane che ella si ritrovava sempre in fondo alla tasca del grembiule.
Si piccò anche di non mangiare, quantunque Masa le avesse tagliato un pezzo di pane.
- Di che cosa campi? Alle volte, invece, t'inghebbi.
La giovinetta alzò il coperchio della madia e v'introdusse il capo, fiutando l'odore acre del lievito che s'era aperto secondo la croce fattavi da Masa con la costola d'un coltello.
Poi se ne andò nel campo, cantando a voce alta; e pensando ai suoi nastri e alle sue scatole odorose.
Dove l'erba era folta, ci stava di più; dov'era rada e bassa, faceva presto, con un colpo di falcinello. Si asciugava, di quando in quando, le mani guazzose; sdrusciandosele alla sottana. Il granturchetto, gremito, le dava quasi gioia; e metteva le piante più belle sopra tutte le altre per darle da sé ai vitelli; che se le mangiavano come una ghiottoneria, leccandole, dopo, le mani e i polsi, scuotendo la testa e le catene legate alle corna.
Quel mastichìo nel silenzio della stalla! E poi bevevano così bene nelle conche colme! Una sorsata sola, che faceva abbassare subito l'acqua! E, da ultimo, certi loro succhii, smuovendo la lingua, respirando a lungo per i buchi del naso, con il collo allungato in su fino a dovere aprire la bocca; scostandosi dalle mangiatoie, a traverso.
Questa volta ella, ad un tratto, pianse; e sbatté, con tutta la sua forza, l'uscio; correndo dalla nonna.

Ghìsola non aveva più il buon contegno di prima. Ambiziosa e caparbia, voleva fare il comodo suo.
Tutte le domeniche, dopo pranzo, fuggiva da casa; e la rivedevano a buio. La nonna andava a cercarla per i poderi: era stata a zonzo per Siena, invece; e, per le strade, le facevano complimenti osceni e proposte di amorazzi. C'era qualcuno che la riconosceva e la seguiva per fermarla e parlarci. Ella sorrideva, un poco stordita e lusingata; perché non eran contadini ma giovini operai vestiti bene. Quando arrivava alla Porta Camollia, doveva far presto; perché le guardie daziarie se la mettevano in mezzo e le impedivano di passare.
E quando aveva un fiore, non doveva andare rasente il muro perché parecchi, ritti su l'uscio delle loro botteghe, allungavano le mani per levarglielo.
Tornata, per non udire brontolii, passava dalla finestra di camera, attaccandosi ai sostegni del pollaio; si spogliava ed entrava a letto senza cenare; arrabbiandosi con il rumore della zuppiera, dove Giacco e Masa mangiavano con i loro cucchiai d'ottone; e quando si sbattevano insieme, Giacco dava un'occhiata a Masa.
Alla fine, la nonna capiva che era in casa; e, pensando che si sarebbe ammalata, le portava di nascosto un pezzo di pane; ma, prima di darglielo, glielo batteva sul capo.
Ghìsola masticava, tenendo il capo volto dalla parte del muro; meravigliandosi che il pane fosse bagnato di lacrime, che non volevano smettere, avendo avuto, poco avanti, piuttosto voglia di ridere. Doveva esser quella la sua vita?
Ma, al rumore dei nonni quando entravano, chiudeva gli occhi; per far credere che dormisse e per il bisogno di non vederli.
L'ultimo giorno che stette a Poggio a' Meli, mentr'era per addormentarsi con una forcella in bocca, che aveva mangiucchiata con i denti, le parve di cadere da una grande altezza e battere sul tetto della casa a Radda: gemendo, si scosse tutta. Il nonno, dall'altro letto, le gridò: - Stai zitta! Credi che non mi dispiaccia?
Temette d'esser brontolata. Poi rifletté, e a lei parve a voce alta: «Non ci pensano più. Bisogna che non russi».
Ma le dava fastidio l'odore delle lenzuola poco pulite; e, per non sentirlo, se le avvoltolò al collo.
I suoi capelli, sciolti, finivano a punta; e, sopra il capezzale, assomigliavano a una falce.
Le parve d'entrare in casa: la mamma aveva un vestito nuovo, le due sorelle erano ingrassate. Una voce le chiese: - Che cosa ci fai qui?
Ed ella rispose: - Non lo so: non ci sono venuta da me. Ma il babbo dov'è nascosto?
- La colpa è tua.
Ripigliava la voce.
La mamma e le sorelle ascoltavano e guardavano, con un silenzio così orribile ch'ella si slanciava addosso a loro; perché andassero nell'altra stanza. Ma le pareva di non poter muovere le braccia, e di urtare con il capo in una parete invisibile. Allora sentiva che il cuore cambiava di posto, il ventre faceva lo stesso, la gola si spellava; e i volti della mamma e delle sorelle doventavano spaventevoli. Ella disse: - Parlate!
Quelle si volsero ad un uscio; e il babbo, con due sacchi pieni su le spalle, con il viso grondante di sangue, tanto sangue che andava a empire la gora del mulino, salì le scale.
Ella, sentendo il peso dei sacchi addosso, urlò.

Pietro prediligeva i fiori di campo, i fiori sbiaditi dagli odori incerti e quasi rassomiglianti. Non aveva mai pensato a quelli di giardino senza arrossire e sentirsi molto confuso. Per abitudine, se ne empiva le tasche: margherite bianche e rosse, pisciacani gialli, veccie sbiancate e rosee, rosolacci, ginestre, violette, rose di macchia, biancospini, fiori di pisello selvatico. Poi li biasciava.
Ghìsola gli aveva insegnato a far l'inchiostro con le more e come si succhiano, per il loro sapore di miele sciapo, certi fiori rossicci simili a gigli selvatici; che si trovano tra gli steli del grano, più bassi delle spighe; e, quand'eran mature da mangiarsi, le bacche rosse delle siepi. Glielo aveva insegnato, perché smettesse di tirarle le zolle; quando s'era accorto ch'ella girava da una passata all'altra non certo per lavorare.
Un giorno, mentre egli faceva colazione, seppe che Ghìsola era tornata a Radda: Rebecca lo diceva ad Adamo. Alzò la testa per ascoltare meglio, e continuò a mangiare; ma stette quasi rincantucciato, fino alla sera, in fondo alla tavola, con la testa tra i pugni.
La pioggia cominciò ad ammollare i vetri della finestra chiusa, quasi avesse voluto allagare tutta la stanza. Era una di quelle piogge a vento che battono sopra un muro come per buttarlo giù; e, all'improvviso, cadono dritte, trasparenti e chiare; poi si vedono voltate alla parte opposta: e poi scompaiono; finché, di quando in quando, giunge al viso soltanto qualche gocciolina come la punta di un ago diaccio. E tutte le strade cambiano i loro colori; respirano; s'empiono di sole, che poi doventa ombra e ridoventa luce. Mentre dalla Montagnola, come da un riparo, le nuvole vengono dritte verso Siena, vanno sopra il Monte Amiata.
Strade che si dirigono in tutti i sensi, si rasentano tra sé, s'allontanano, si ritrovano due o tre volte, si fermano; come se non sapessero dove andare; con le piazze piccole e sbilenche, ripide, affondate, senza spazio, perché tutti i palazzi antichi stanno addosso a loro.
Cerchi e linee contorte di case, quasi mescolandosi come se ogni strada tentasse di andare per conto proprio; pezzi di campagne che appaiono dalla fessura di un vicolo visto in tralice, dalla scalinata d'una chiesa, da qualche loggia dimenticata e deserta.
Allora Pietro s'immaginò che Ghìsola, per cattiveria, l'obbligassero a camminar sola, tutta molle. E, pensando così, a lungo, gli venne sonno.

Aveva già perduto un anno di tempo, alle belle arti, senza che ancora fosse deciso sul suo conto; il che doveva dipendere dai diversi pareri dei più vecchi avventori, e da suo padre che se ne ricordava soltanto molto di rado e con rabbia. Anna insisteva con pazienza, anche dopo l'infelice prova del disegno, persuasa ch'egli fosse intelligente. Ma era destino che non potesse in alcun modo fargli del bene.
Una mattina decise di portarlo dal parroco, perché la consigliasse. Aveva già preparato il suo più bel vestito, e voleva far lesta perché il marito non lo risapesse: ci andava quasi di nascosto. All'improvviso, sentì chiudersi il cuore sempre più stretto; ma non poteva gridare. Non s'accorse né meno di cadere.
Fu trovata con la testa sul pavimento, verso l'armadio che aveva aperto; tutta stesa in avanti; come quegli animali che hanno avuto una calcagnata sul capo; con gli occhi mezzo schiusi e pieni ancora di vita, con il viso un poco contratto, quasi che le rincrescesse della sua morte soltanto per gli altri, chiedendo di non esserne rimproverata; con una preoccupazione indescrivibile e dolorosa.
Rebecca, ch'era andata a cercarla per ravviarle i capelli, fu la prima a vederla. Ella aprì subito le boccette che servivano quando si trattava delle convulsioni, ma Anna non respirava più.
- Signora padrona! Padrona!
Spaventata e tremando tutta, corse in cucina e s'affacciò a gridare dalla finestra che rispondeva dinanzi all'uscio della trattoria. La intese un cameriere:
- Il padrone! Che venga subito!
Il cameriere, credendo che fosse un attacco di convulsioni più forte del consueto, posò il cencio che aveva in mano e andò in cucina: - Dov'è il padrone?
- Non è ancora tornato: è restato a pagare il conto dal droghiere.
- Correte subito a cercarlo! La padrona si sente male!
Lo sguattero, che aveva risposto, posò il coltello con il quale puliva il pesce ammonticchiato dentro l'acquaio e tolto allora allora dalla sporta, si asciugò le mani, ravvolse il grembiule su al legacciolo; ed uscì. Ma non poté trovare subito Domenico, che era andato a fare altre spese.
Quando lo vide, tornarono ambedue quasi correndo. Per le scale, Domenico sbatté contro il medico, suo amico e avventore, che scendeva ad aspettarlo:
- Caro Domenico... Ascoltate un momento!
Il trattore lo prese per le spalle. Il medico gli allontanò le mani, fermandogli i polsi.
- Domenico, questa volta... Quella povera donna!
Egli gridò: - Mi lasci! È una convulsione.
Ma si sentì gelare tutto, con un gelo che gli veniva a ondate, dalla cima delle dita e si fermava nel mezzo del capo. Credette, lì per lì, che si trattasse di un turbamento della sua intelligenza; ma il respiro affannoso, a lui che respirava così bene, gli ricordò che la cosa quasi presentita era ormai venuta. Come affrontarla? Come vedere Anna morta? Doveva proprio andarci lui?
E quando entrò nella camera, i muri e le porte traballavano e si spalancavano da sé, credette di non vedere niente. Poi toccò il volto già freddo e un po' rigido; e allora chiuse gli occhi, si buttò sopra la moglie e cominciò a piangere.
I suoi gridi stessi lo facevano tremare.
A poco a poco sentì il suo dolore. Tutta la sua enorme violenza, ora, gli pareva cambiata in paura; gli pareva che Poggio a' Meli fosse trascinato via lontano ed egli non aveva il tempo di far qualche cosa; gli pareva che gli usci della sua trattoria si chiudessero da sé e non volessero esser riaperti; e che Anna avesse tanto sofferto per non poter parlare; e tutto crollava in lui.
Il suo dolore era così pieno che tutti avrebbero dovuto consolarlo! Ora si pentiva di non averle voluto bene abbastanza!
Anna s'era raffreddata a poco a poco; e, avendole qualcuno stese le palpebre, parve insolitamente estranea per la prima volta a tutta la gente che le era attorno.
Qualcuno la prese sotto il mento, e la compianse: - Chi sa che avrebbe voluto dire! Che passione! Povera donna! Così buona!
Pietro la vide già portata sul letto, senza sapere quel che ne dovesse pensare. Domenico gli parlò soltanto quando qualcuno glielo rammentò. Ma senza nessun affetto; quasi con il bisogno di sfuggirlo. E proprio in quel momento, sperò ancora di più di tenerlo con sé per la trattoria. Continuava intanto a gridare che l'udivano anche dalla strada.
- Sembra che stia per scendere da letto! Disse Rebecca.
A un tratto Domenico le si accostò un'altra volta, la toccò su i capelli, fece un gesto di disperazione; ed urlò più forte. Pietro, senza provar niente, all'infuori di una vaga inquietudine, si appoggiò ai guanciali e cercò di piangere: dentro di sé chiedevasi se anche gli altri sentissero così poco e provò una consolazione indefinibile quando il padre fu allontanato in modo ch'egli non vide e non udì il suo dolore; che gli era antipatico come le sue collere.
Rebecca gli disse: - Povera mamma, voleva tanto bene a te!
A lui gliene importava poco, anzi s'ebbe a male di queste parole; e si allontanò per distrarsi, vergognandosi.
La mattina dell'esequie s'era dimenticato di tutto, quando intravide dall'uscio mezzo aperto il padre che gli si avvicinava. Ebbe, senza spiegarsi il perché, paura d'esser percosso a sangue.
Domenico gli disse: - Vestiti; tra poco porteranno via la tua povera mamma.
Pietro si sforzò d'obbedire. Piuttosto, era ora spaventato di qualche sciagura che dovesse capitare a lui!
Discese dal letto; e, fingendo a se stesso, si vestì cercando d'imitare i gesti di dolore che aveva veduti.
In tal modo finì con il sentire una ilarità muta, mista a terrore.
Ma, quando gli fecero baciare la mamma, prima che la mettessero dentro la cassa, pensò: «Perché non c'entro anch'io? Metteteci me».
Poi l'assalì uno sgomento inaudito. «Credete che sia morta? Fingete tutti. Anche questa è una finzione. Lo sapevo che m'avreste dato qualche dispiacere violento; e non lo merito.»
Singhiozzò, invaso da una cupa disperazione. Perché non gli avevano detto prima ch'era morta?
Restò tra le persone che mettevano il cadavere dentro la cassa; ma non avrebbe toccato né meno il lembo della veste. E si meravigliò che gli altri facessero tutto come se si trattasse di una faccenda qualsiasi, con le lacrime e con quei segni di affetto che non sembravano mai finiti: raddrizzare la testa sopra il cuscino scelto con le cifre ricamate, accostare i piedi insieme, accomodare sui capelli un fiore scivolato tra una spalla e la cassa.
Egli avrebbe voluto che nessuno fosse stato lì; e gli facevano male tutte quelle mani, che si muovevano in fretta. Quelle mani, quelle mani!
Voleva gridare: «Portatela via presto! Perché non l'avete portata via? Non ce la voglio più in casa». E si meravigliò del padre, che non s'impazientiva, un poco calmato da tutte quelle attenzioni.
Volle seguire il trasporto al cimitero in carrozza chiusa, tirando giù nervosamente le vecchie tendine di seta turchina per non esser visto da nessuno; mentre Domenico anche per risparmio avrebbe voluto andare a piedi. Ma Pietro si preoccupava della gente ferma a guardare nella strada e perfino dinanzi all'uscio di casa. Notò che si alzavano in piedi ed allungavano il collo per veder meglio.
La morte di Anna era stato un vero danno per Domenico. I sottoposti non lavoravano più quanto prima; ed egli, preso da uno sconforto che lo rendeva furioso, doventava più irascibile; e non era infrequente che se la pigliasse con qualcuno senza nessuna ragione. Si fece anche più economo, e dovette rinunciare a molti progetti per la trattoria e per il podere. Doveva lavorare di più, e non poteva sopportare la stanchezza. E fu addirittura incapace di pensare per il figliolo come avrebbe dovuto. Lo lasciò quasi libero; ma non di rado, quando se ne pentiva, lo trattava senza riguardi e con una violenza così sproporzionata che anche Rebecca lo difendeva. E, allora, smetteva; ma, alla prima occasione, faceva peggio come se avesse dovuto vendicarsi.
Anna era morta la seconda settimana di gennaio; e, tutte le domeniche, prima di giorno, il trattore andava con due mazzi di fiori alla sua tomba. Avrebbe voluto portarne uno lui e darne uno a Pietro; ma Pietro non l'ubbidiva. Piegando i ginocchi dalle percosse, mortificato, diceva: - Ma perché? Non mi devi dare i calci.
E se lo avessero riconosciuto?
Nel cielo cominciavano quegli immensi chiarori, che vengono dall'alba ancora lontana; le strade erano tetre ed umide.
Di solito, soltanto poche persone passavano, camminando in fretta; e si udiva bene quel che dicevano: le voci risuonavano come le scarpe con i chiodi su le pietre. E qualcuno, per lo più facchini che si recavano all'arrivo dei treni, accendeva la pipa, coprendo con ambedue le mani il fiammifero.
Domenico, quasi a metà della strada, entrava in un bar dov'era una ragazza con una veste così scollacciata che Pietro aveva paura si aprisse tutta.
Ella rideva agli avventori; e allora le sue gote incipriate, sode e rotonde, si gonfiavano fino a farle socchiudere gli occhi. Dava quel sorriso come le tazzine di porcellana filettate d'oro.
Pietro non voleva entrare. Domenico tornava fuori, strascinandocelo.
La ragazza faceva la sguaiata con Domenico: ma Pietro se ne stava a capo chino, impacciato di lei, del suo vezzo, e degli specchi grandi come le pareti; non sapendo né meno come prendere il caffè. E si bruciava le dita e la bocca.
Esciva prima che il padre avesse avuto il tempo di bevere; e, dai vetri velati di vapore, che si scioglieva in sgocciolature lunghe e torte, lo vedeva ridere con la ragazza.
Su la Torre del Palazzo Pubblico, a sereno, batteva una luce più limpida, e il cielo era pieno di rondoni, che stridevano con stridi lunghi come i loro voli. La Piazza del Campo era tutta rosea, con alcune strisciate verdi di erba e con i colonnini di pietra bianca.
«Quest'altra domenica, io entrerò senza che egli mi ci sforzi.»
Ma pareva che quella specie di timidezza crescesse da una settimana all'altra; divenisse come una malattia; e, sovvenendosene, sentiva la fronte coperta di sudore diaccio. Dopo, le mani gli si irrigidivano in tasca, con la fodera presa tra le dita; e i piedi si rifiutavano di muoversi.
Anche Domenico, del resto, camminava lentamente; e quando era infreddato, per cavare il fazzoletto e soffiarsi il naso, si fermava.
Salendo la Via di Città e poi quella di Stalloreggi, Pietro era sempre più triste.
Giunti al cimitero, Domenico chiacchierava con Braciola, il becchino del colore della sua terra, grasso come fosse stato pieno di vermi, con i baffi bianchicci; e, infilati i mazzi dentro due lunghi vasi di porcellana, dov'era restata un poco d'acqua quasi nera, sempre la stessa, guardandosi attorno esclamava:
- Come si allarga in fretta! Quando morì la tua mamma, le tombe arrivavano soltanto qui.
Restava fermo, e poi chiedeva: - La vedova non è venuta stamani?
- Prima di noi, forse. Andiamocene, è inutile aspettarla.
- È presto. Perché non la vuoi aspettare? Tutte le mattine porta i fiori.
Pensava male del figliolo, che non si curava punto di lei, la sola persona che a quell'ora si trovasse sempre come loro dentro il cimitero!
Ma la vedova aveva sentito diminuire l'importanza della sua fedeltà devota. Perché proprio il Rosi doveva pigliare quella stessa abitudine quando era noto per tutta la città che non aveva adorato la moglie, come ora voleva far credere?
Gli dava un'occhiata diffidente, rispondendo imbarazzata al suo saluto. E quale effetto le faceva quel ragazzo che non guardava né meno le tombe, con le mani in tasca, e un'aria assonnata o impertinente!
Pietro esclamava: - Io vado via.
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