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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
Agostino, figliolo di un cavallaio che aveva due poderi a confine con Poggio a' Meli, non voleva che Pietro parlasse troppo a Ghìsola; per quell'amor proprio che nell'adolescenza somiglia alla gelosia. E capì che doveva odiare il rispetto ingenuo di Pietro; e compatirlo come una debolezza.
Ghìsola, infatti, dava al suo padroncino un senso di disagio e d'impaccio; ma egli voleva essere forte e cercava di convincersi che preferiva l'amicizia di Agostino; e con lui doventava remissivo ed obbediente; procurando d'indovinare le cose che pensava e non diceva a posta. Talvolta gli raccattava una pietra com'egli comandava soltanto guardandola; per tirarla a pena visto un uccello sopra un ramo accanto alla strada. E come il vento gonfiava la camicia d'Agostino, tutta sbottonata! Perché non aveva i polsi eguali a lui, le ciglia, gli orecchi, la camicia? E perché quando si provava a fare come lui, con la stessa aria di noncuranza, si trovava perso d'animo, senza fiato, con la paura di provocare la sua collera che lo faceva tremare? Perché non poteva sostenere il suo sguardo crucciato, impenetrabile e lucido, quando si provava a non rispondere alle sue domande e quando non aveva indovinato? Quello sguardo lo impauriva così come quando, senza essercene avvisti prima ci si trova proprio ai piedi una fonte piena d'acqua. Agostino aveva il naso piccolo e corto, di bambino, tutto lentigginoso; ma il suo collo era come quello di una bella donna; le mani fatte bene. I suoi colloqui con Ghìsola, che consistevano in parole senza senso, convenzionali, che capivano loro due soltanto, suscitavano in Pietro sentimenti inaspettati; ai quali da solo non avrebbe mai sognato. E il diletto d'ascoltarli era tanto! Anche gli pareva d'imparare chi sa che. Ghìsola aveva un sorriso piacevole dicendo certe cose, che a lei sola potevano venire in mente; e Pietro si struggeva dalla voglia d'impararle come i suoi stornelli. Ma non riusciva né meno a cantare; e ne aveva vergogna. Talvolta non volendo che ridesse, le faceva qualche dispetto a posta. Sotto il largo cappello di paglia, che le calava sempre sopra un orecchio, guarnito con un nastro di raso liso e con due rosette buttate via da Anna, il volto di Ghìsola era tranquillamente insignificante e sciatto. Sembrava, con la sottana rimendata male, troppo semplice e quasi stupida. Vi sono esseri che non chiedono nulla a nessuno e rinunziano a tutto; e, non essendo rispettati come gli altri, pare che di loro se ne possa fare quel che si vuole. Perciò quel che riguarda gli altri lo trovano antipatico. Se qualcuno li ama, non vogliono cambiarsi; chiedendo che cosa questo bene esiga. E allora lo evitano. Quando Masa batteva le nocche su la fronte di Ghìsola dicendole: «che ci hai qui?» ella rispondeva quasi con esasperazione: - Che ne sapete voi? Che ve ne importa? Talvolta credeva, con piacere e con stizza, che il suo viso offendesse. Quando gli altri parlavano si metteva silenziosa; credendoli diffidenti. Non la interessava niente; obbediva a Masa e ai padroni, perché da se stessa non avrebbe pensato né meno alla calza; e sentiva malvolentieri che tutto ciò che esiste non era soltanto in lei. Talvolta pareva piuttosto che parlasse con lo scalone di casa; quando, secondo il suo solito, ci stava seduta. Non si sarebbe arrischiata ad avere qualche idea perché ne aveva troppe che non le si addicevano; come non si arrischiava, quando era andata alla trattoria, a chiedere le ghiottonerie che vedeva; e invece le avvampavano il viso, e la stordivano quanto le stanze calde a cui non era abituata. Ma c'era in lei il presentimento e il senso di una vita, che le montava la testa come la ricchezza e il lusso degli altri. Pietro, con gratitudine, sentiva vicino a Ghìsola le sue prime emozioni delicate. Ammirò un fiore quando gli venne voglia di coglierlo per lei; e, non arrischiandosi, lo buttava via; quando era ancora per non crederci, provando una diminuzione di se stesso. E come tutta la natura gli apparve a un tratto misteriosa, con violenza! Qualche cosa da disperarsene! Era stato bocconi in terra, chiudendo tra le braccia un pulcino per tenerlo con sé! Aveva aiutato le formiche, togliendo dal loro cammino un bastone che dovevano valicare esitando e poi disperate: tremolando con un chicco troppo grosso, che le faceva cadere capovolte! Teneva con tenerezza un indovinello in mano, e lo rimproverava quando volava via! Cercava di superare le sue malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto. Talvolta ne era distaccato di soprassalto; e allora gli veniva uno stato mentale confuso e torbido che pareva sempre per andarsene. E aveva l'illusione che il suo spirito assumesse così enormi proporzioni che i suoi pensieri vi si smarrivano dentro, insieme con i loro echi improvvisi, come in una stanza troppo grande. Quante volte non s'era considerato perduto, mentre le immagini esteriori lo invadevano senza tregua! Ora gli pareva di avere la propria anima; ora diminuiva; mentre questi movimenti gli davano un malessere come quello delle vertigini. Talvolta gli pareva di trovarsi a scuola dove tutto a un tratto entrava una grancassa; e allora si sentiva tanta voglia di ridere che si spaventava, soffocando il grido dell'incubo. Anna credeva che avesse male; e gli metteva una mano su la fronte, dicendogli: - Ti viene la febbre? Egli gridava, allora: - No! No! Lasciami stare! Era un anno dalla notte degli usignoli, un anno come tutti gli altri: la trattoria e gli avventori, Poggio a' Meli e gli assalariati. Alla nuova primavera, Domenico aveva voluto fare grandi preparativi per le raccolte che aspetteva migliori di prima. E andava di più al podere, quasi per compensarsi dello strapazzo alla trattoria. E siccome la stagione era buona, portava sempre con sé Pietro. Gli faceva bene, e forse non si sarebbe più riammalato! Voleva che andasse nel campo, per occuparsi anche lui delle viti da potare e di tutte le altre faccende. Ma era come se Pietro non vedesse e non udisse niente. Domenico, allora, lo faceva riaccompagnare fino all'aia da qualcuna delle donne, che saliva dal campo con un fascio d'erba fresca o con la gramigna tolta al vangato. Una volta Pietro s'era seduto ad attendere il padre su lo scalone di Giacco, dove stava sempre Ghìsola, perché senza avvedersene faceva come lei. Masa finiva di spazzare con una granata infilata a un vecchio manico d'ombrello; alzando una polvere così fitta che ne sentiva il sapore in bocca. Ella si raccomandò: - Si alzi. Ma egli non si mosse né meno. E la vecchia si fermò. Tra quegli stracci d'ogni colore, le matassine di capelli, le scatolette sfondate, c'era una bambola fatta d'un pezzo di stoffa bianca intorno a un mestolo. Pietro ebbe voglia di raccattarla, e s'alzò. Ma la vecchia, preso tempo, gettò la spazzatura fuori dell'uscio. E allora quella bambola, rimasta supina, parve a Pietro che fosse viva. E non la toccò. Ghìsola, sopraggiunta dal campo, vistala tra la spazzatura, stette zitta perché la nonna da tanto tempo le aveva detto di buttarla via, ma fece viso da piangere. Masa le gridò: - Pensi sempre a queste cose? Pietro, per burlarla, affondò la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore, con il cuore palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido. Ghìsola, guardandolo dall'uscio, borbottò: - Stupido! Pietro sentì rimorso, e tentò tutti i mezzi di riconciliarsi; ma lei gli volse le spalle, mangiando un pezzo di pane trovato nella madia. Allora egli aperse un temperino che aveva in tasca e le ferì una coscia. La giovinetta, impallidita, si sforzò di contenersi. Egli, credendo di non averle fatto male, con il temperino in mano, offeso e indispettito, fece l'atto di slanciarsi un'altra volta; ma ella, allora, gli tirò un calcio, e corse in camera buttando via il pane. La vecchia, al rumore delle sedie urtate, smise di spazzare e tornò in casa; andando a trovare Ghìsola che si sentiva frignare con quel frigno tutto unito e senza stacchi, che smette subito. Pietro, solo in cucina, ridendo sommessamente di spavento, s'avvicinò pian piano per vedere. Ma in quel mentre Masa uscì e gridò con collera: - Perché le ha fatto far sangue? Non deve esser così cattivo. Non voglio. Lo dirò al padrone. - Io non ci ho colpa. Masa, fuori di sé, mancò poco che non gli battesse qualche cosa su la testa. Pietro, convinto di quel che diceva, giurò perfino con certi giuramenti che gli avevano fatto un grande effetto a impararli; tutto contento di aver trovato l'occasione di ripeterli. Ma Domenico ed Anna lo picchiarono su le mani, in presenza di Masa e di Ghìsola; e gli fecero chiedere perdono. Allora Pietro, quantunque il castigo gli avesse fatto quasi piacere, si sentì lungo tempo mortificato, quasi che tutti i suoi scherzi lo portassero a qualche terrore. Gliene venne una superstizione tale che non giocò più, credendo anche che una volta o l'altra gli potesse succedere molto male. E ne aveva avuto la prova due anni prima: scaraventando un sasso, aveva ferito un altro ragazzo che si trovava, senza ch'egli lo sapesse, dietro una siepe. Perciò i suoi discorsi con Ghìsola presero un tono di gravità, quasi avessero dovuto nascondere un significato nuovo. Dopo qualche mese, trovatala per caso sola nel campo, prima s'allontanò e poi tornò indietro, arrischiandosi a chiederle: - Ti feci male parecchio? I suoi piedi, che affondavano nella terra lavorata, gli davano un senso di sgomento. Ma ella lo guardò sorridendo: - Quando? - Quando ti ficcai, senza volere, il temperino nella carne. Già quel sorriso, contrariandolo, gli aveva fatto perdere il filo. - Ci pensa sempre? Egli si meravigliò di trovare in lei un sentimento che non somigliava né meno a quello supposto; e le chiese: - Te n'eri scordata, forse? - Subito dopo. Parve a lui che volesse dire: «queste son cose cattive e non ci si pensa». - Ma devi aver sofferto da vero. Se tu vuoi fare ora lo stesso a me... - Io? - Ti giuro... Tu sai che quando giuro io è la verità. Non feci male a te? E le spiegò che avrebbe dovuto, con quel temperino, fargli la stessa ferita; ed ella, per dargli a intendere che lo prendeva sul serio, rispose: - Quando vuole... Ma l'acconsentimento diminuì la sua voglia. - Bisognerebbe che nessuno lo risapesse. - Dirò che sono stato io. Egli le prese la mano, perché tenesse il temperino; ma ella si divincolò subito, e fece una smorfia d'incredulità. - Ho mai detto bugie io? Non sono Agostino! Ma gli parve così scontenta di quell'insistenza ch'egli se n'andò, battendo le mani su le spighe dell'avena alta; tutto confuso e deciso di non comparirle più dinanzi. E provò uno spiacere disgustoso a stare con lei. «Forse» pensava egli «ha ricusato per la nonna e per la zia.» Ghìsola, invece, si convinse che non parlasse sinceramente: e astiò il figlio del padrone, con quell'astio istintivo e cattivo, che hanno quelli costretti a ubbidire. Del resto, credette volentieri che non fosse sincero: era una ragione di più per volergli male! Quando lo vedeva da lontano, ed egli per timore non la guardava né meno, si metteva a cantare. A scuola Pietro motteggiava i più vicini di banco con la sua ilarità nervosa; li costringeva a dargli retta, li chiamava con soprannomi faceti, li offendeva se non gli davano retta. E anche quando tutti tacevano, né meno udiva la voce dell'insegnante; quantunque qualche risposta dei compagni gli arrivasse agli orecchi con un rammarico strano. Stava per prendere la licenza elementare, ed era il più grande e il meno bravo; e i seminaristi lo canzonavano. Qualche volta, dopo aver cercato di comprendere, si sforzava a badare a tutta la lezione rimanente; e sentiva quasi gusto ad aumentare la disistima di tutti, benché se ne compiangesse. Quando era stato attento, usciva con la mente quasi stravolta, con un peso dentro le tempie, incapace di mettersi a studiare; stanco sfinito; senza aver fatto nulla: lasciava un libro e ne prendeva un altro, lasciava anche questo e non leggeva; non s'accorgeva né meno più d'averli dinanzi. Allora, si divertiva al movimento e al vocìo della trattoria. Del resto avrebbe dovuto imparare le sue lezioni e scrivere dinanzi agli avventori meno ricchi che desinavano a una tavola lunga, sopra alla quale ciascuno di loro distendeva un piccolo tovagliolo: lungo i solchi delle piegature, si raccoglievano le briciole del pane, e Pietro le mangiava a pizzichi. Questi avventori, divenuti amici di Domenico e di Anna, lo facevano ridere con le loro burlette dicendogli: - Che vuoi affaticarti gli occhi? Vai a ruzzare. Ma Anna si alzava dalla sua poltrona posta nell'angolo più oscuro della stanza, dietro un paravento di legno con un'apertura rotonda da cui poteva sorvegliare i camerieri e la cantiniera per dire: - Lo lascino stare! Poi, rideva anche lei. D'estate, quando tirava un poco di vento, si vedeva uscire dalla finestra aperta tutto il fumo delle pipe e dei sigari; e allora gli avventori si toglievano la giubba; mentre, d'inverno, si passavano uno scaldino. Burlavano tra loro, portandosi via il pane e le frutta. Quando qualcuno bestemmiava troppo, Anna impallidiva e lo guardava in faccia. Egli rimaneva con la parola in bocca e tutti gli altri tacevano; e la conversazione era cambiata. - La bestemmia non sta bene. Avete tempo fuori di qui! Per la strada! Quegli arrossiva: - Ieri il rimprovero non toccò a me! Non è vero, padrona? Era una risata spontanea. Ed Anna pensava subito ad un'altra cosa. Allora qualcuno proponeva: - Venga a darci da bere. Ma non di quello annacquato. Non ci castighi! Chi aveva ancora un poco di vino, vuotava il bicchiere riposandolo con gli altri nel mezzo della tavola. Anna, fattosi portare un fiasco, domandava: - Quanto ne vuole lei? - Un soldo. - Io due soldi... Adamo metteva il bicchiere contro l'aria: - È piovuto in cantina anche oggi! Quando passava un avventore delle altre sale, si chetavano alla meglio e lo seguivano con lo sguardo. - È il tale.
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