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Opere pubblicate: 19994
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ISMENE(32)
Cleopatra, perché prima sciogliesti l'Egize vele all'aura, allor che d'Azio n'ingombravano il mar le navi amiche? E allor che il Mondo, alla gran lite intento, pendea per darsi al vincitore in preda, chi mai t'indusse a cosí incauta fuga? CLEOPATRA Amor non è, che m'avvelena i giorni; mossemi ognor l'ambizion d'impero. Tutte tentai, e niuna in van, le vie, che all'alto fin trar mi dovean gloriosa: ogni passione in me soggiacque a quella, ed alla mia passion le altrui serviro. Cesare il primo, il crin mi cinse altero del gran diadema: e non al solo Egitto leggi dettai, che quanta Terra oppressa avea già Roma, e il vincitor di lei, vidi talora ai cenni miei soggetta. Era il mio cor d'alta corona il prezzo, né l'ebbe alcun, fuorché reggesse il Mondo. Un trono, a cui da sí gran tempo avea la virtude, l'onor, la fè, donata, non lo volli affidare al dubbio evento, e alla sorte inegual dell'armi infide... serbar lo volli: e lo perdei fuggendo;... vacilla il piè su questo inerme soglio; e a disarmare il vincitor nemico, altro piú non mi resta che il mio pianto... tardi m'affliggo, e non cancella il pianto un tanto error, anzi lo fa piú vile. ISMENE Regina, il tuo dolor desta pietade in ogni cor, ma la pietade è vana. Rientra in te, riasciuga il pianto, e mira con piú intrepido ciglio ogni sventura; né soggiacer: ch'alma regale è forza si mostri ognor de' mali suoi maggiore. I mezzi adopra che parran piú pronti alla salute, od al riparo almeno del tuo regno. CLEOPATRA Mezzi non vedo, ignoto(33) della gran pugna essendo ancor l'evento: né error novello, ai già commessi errori aggiunger sò, finché mi sia palese. D'Azzio lasciai l'instabil mar coperto, di navi, e d'armi, e d'aguerrita gente, sí che l'onda in quel dí vermiglia, e tinta di sangue fu, di Roma a danno ed onta. Era lo stuol piú numeroso, e forte, quel ch'Antonio reggea, e le sue navi, ergendo in mar i minaccievol rostri, parean schernir coll'ampia mole i legni piccioli, e frali del nemico altero; sí, questo è ver; ma avea la Sorte, e i Numi da gran tempo per lui Augusto amici; e chi amici non gli ha, gli sfida invano. Or che d'Antonio la fortuna è stanca, or che d'Augusto mal conosco i sensi, or che, tremante, inutil voti io formo, né sò per chi, della futura sorte fra i dubbi orror, solo smaniando e in preda a un mortal dolor, che piú sperare mi lice omai? tutto nel cuor mi addita, che vinta son, che non si scampa a morte, e a morte infame. ISMENE Non è tempo ancora di disperare appien del tuo destino. Chi può saper, s'alle nemiche turbe non avrà volto la fortuna il tergo; ovver se Augusto vincitor pietoso a te non renderà quanto ti diero un dí, Cesare, e Antonio. CLEOPATRA Il cor nutrirmi potrò di speme, allor che ben distinti ravviserò dal vincitore il vinto; ma in fin che ondeggia infra i rivai la sorte trapasserò miei dí mesti e penosi, in vano pianto; e di dolor non solo io piangerò, ma ancor di sdegno, e d'onta. Ma Diomede s'appressa..., il cuor mi palpita. SCENA SECONDA Diomede, Cleopatra, Ismene CLEOPATRA Fedel Diomede, apportator di vita, o di morte mi sei?... Che rintracciasti? Si compí il mio destin?... parla - DIOMEDE Regina, i cenni tuoi ad adempir n'andava, quando scendendo alla marina in riva vidi affollar l'insana plebe al porto, confuse grida udii, s'eran di pianto, di gioia, o di stupor, nulla indagando, v'andai io stesso, e la cagion funesta di tal romor, purtroppo a me fu nota. Poche sdruscite, e fuggitive navi, miseri avanzi dell'audaci squadre, eran l'oggetto de' perversi gridi del basso volgo, che schernisce ognora quei, che non teme. CLEOPATRA E in esse eravi Antonio? DIOMEDE Canidio, Duce alla fuggiasca gente credea trovarlo, cc. ec. E su questo andare proseguiva tutta intera, piuttosto lunghetta, essendo di versi 1641. Numero al quale poi non sono quasi mai piú arrivato nelle susseguenti tragedie che ho scritte sino in venti, allorché forse mi trovava poi aver qualcosa piú da dire. Tanto vagliono per l'esser breve i mezzi del poter dire in un modo piuttosto che in un altro. APPENDICE OTTAVA (cap. XV) Lettera del Conte Agostino Tana Aristarco all'autore. Voi m'avete scelto per lo vostro Aristarco, io contraccambio l'onore che m'avete fatto, col non ricusarlo. Preparatevi dunque alla piú severa inesorabil censura; e quale pochi hanno il coraggio di farla, pochissimi di soffrirla. Io sarò fra i pochi, e voi fra i pochissimi annoverato. La Plebe letteraria, lusinghiera, mendace, e tracotante, non è avvezza certamente a comportarsi in simil guisa: presenti, si lodano senza ritegno; lontani, si biasimano, e si tradiscono senza rossore. Tal cosa non potrà accadere giammai fra l'amico Censore, e l'autore di questa Tragedia. APPENDICE NONA (cap XV) I POETI Commedia in un atto recitata nel Teatro stesso, dopo la Cleopatra SCENA PRIMA Zeusippo, solo ZEUSIPPO: Ah misero Zeusippo! e a che ti serve di esserti nell'accademia degli stupidi alteramente denominato, il Sofocléo, mentre si avvicina l'ora in cui ti sarà barbaramente discinto il coturno? io sudo e gelo nel pensare all'esito della mia povera tragedia. Ma che diavolo di capriccio fu questo, di voler balzar d'un salto in cima al Parnasso, e scrivere il poema il piú difficile a ben eseguirsi, prima quasi d'aver finito d'imparare gli elementi grammaticali della toscana favella? ardir veramente Poetico. - Ma queste riflessioni bisognava farle avanti; ora son tarde, e ridicole. - Eppure non mi posso far animo, e tremo come se io avessi fatto una bricconeria: ma è meglio assai di farla, che di scrivere una cattiva tragedia. Non tutti i bricconi tremano; è vero poi, che né anche tutti i cattivi poeti. Zeusippo, segui tracotante le orme dei poetastri, e se spiacerà la tragedia, concludi ad esempio loro, che il Publico non ha gusto, non ha discernimento; che giudica per invidia; e che tu sei un eccellente poeta. - Muse, castissime, benché da tanti profanate; biondo Apollo, la di cui cetra è assai miglior della mia; orgoglioso Pegaso, che sí sovente inciampi quando sei carico dal soverchio peso d'un cattivo cavalcatore; tu che sí raramente spieghi per noi le tue ale per innalzarti a volo: tutti, tutti v'imploro in queste penosissime circostanze. Affascinate gli occhi e gli orecchi de' spettatori, sí che l'infelice Cleopatra appaia lor degna almeno di compassione. - Ma voi, barbare Deità, sorde vi mostrate: io vi abbandono, non fo piú versi; siete troppo ingrate: dirò del male di voi, farò un madrigale; disonorerò tutta la vostra famiglia: tremate. Apollo al par di me tristo, e meschino dal cielo in bando, esule, e ramingo ti festi pastorello, poverino, in Tessaglia d'Admeto; e ognor solingo non ne sapesti pur servare il gregge; te l'involò Mercurio... te l'involò Mercurio;... Te l'involò Mercurio... diavolo, la rima in egge m'è mancata, e la non vuol venire. Va, che sei felice, Apollo; che se la rima veniva... SCENA SECONDA Orfeo, Zeusippo ORFEO: Amatissimo Zeusippo, che fai? mi par che tu sii turbato. Sempre nuovi pensieri, eh? componi componi... ZEUSIPPO: Signore Orfeo straccione, la non mi corbelli. Io già ho rinunziato alla poesia; e stavo facendo qualche rime per vendicarmi d'Apollo; e poi finisco; non ne vo piú sapere... ORFEO: Farete male, male assai. E qual disgrazia v 'obbliga a rotolar dal Parnasso? La vostra tragedia credo avrà un ottimo successo. Ho visto moltissima gente affollarsi all'entrata: questo è buon segno. Io ci sarei andato pure, se mi aveste regalato il viglietto; ma ve ne siete scordato. Eppure vi avrei potuto giovar molto, col battere delle mani a proposito, coll'esclamare con entusiasmo: Oh che bella parlata! Che scena! Che sentimenti! Siccome ho ancor io (non fo per dire) un qualche grido nella letteraria repubblica, quei pochi sciocchi che mi avrebbero circondato avrebbero anch'essi caldamente applaudito; e forse, forse... ZEUSIPPO: No, caro Orfeo; questi son mezzi troppo vili; e, dovendovi regalare, amico, non vi darei un viglietto d'ingresso; non avete bisogno di pascervi lo spirito; sono altre necessità piú essenziali a noi poeti; e se fossi ricco, ricompenserei in altro modo la vostra sviscerata amicizia. Ma, credete', che pur troppo l'ingegno non fá fortuna; e nel vederci accoppiati, chiunque ci prenderebbe per la Discordia e l'Invidia, quali si dipingono dai poeti e pittori. Ah duro mestiere in vero è quello, che noi pratichiamo. Come fate voi, Orfeo, per avere una faccia cosí allegra e gioiosa? Credo che né il Tasso, né il Petrarca, né alcun altro fra i piú celebri poeti d'Italia, avessero mai un viso, un portamento cosí altero, e cosí contento di sé medesimo. Io all'incontro poi, pallido, smunto, macilento, ed egro, porto scritti in fronte tutti i piú funesti attributi della poesia infelice. ORFEO: Questo a voi stà benissimo. Cosí dev'essere il poeta tragico; sempre pensieroso, guardar bieco, trattar la fame eroicamente; lodar poco, o di nascosto: domandar mercede nelle dedicatorie; scegliere i piú alti signori per indirizzarli i suoi componimenti, sí perché meno degl'altri gli intendono, sí perché piú d'ogni altro si mostrano generosi. Io all'incontro, devo aver faccia di Lirico, e questa dev'essere gioviale, allegra, ridente, sardonica, ma non pingue, perché non sarebbe poetica. Io con un sonetto mi rendo amico un innamorato sciapito che vuoi lodar la sua Diva, ma che disgraziatamente non ha imparato nei suoi primi anni a leggere. Io con un epitalamio m'invito destramente ad un convito di nozze, e colà poeticamente mi sfamo per parecchi giorni. Io con un madrigaletto, con un epigramma, che sò io, con altre simili bagatelle, mi vò procurando giorni felici, riputazion mediocre; e dal mio basso inalzo ridendo gli sguardi temerari sino alle piú alte piume del cimiero de' tragici, e non li invidio. ZEUSIPPO: Ah, non insultare cosí il coturno. Io, non volendo abbandonar la poesia, preferirei di gran lunga il morir di fame in compagnia de' miei attori al quint'atto di una mia mediocre tragedia, all'arricchirmi componendo madrigali e sonetti. - Ma qualcuno si appressa: io tremo di bel nuovo. Oh cielo! vien l'emulo Leone; egli ha un'aria soddisfatta; la Cleopatra non è piaciuta; io son perduto. SCENA TERZA Leone, Zeusippo, Orfeo LEONE: Amici, oh che felice incontro! Zeusippo, vi ho ascoltato con molto piacere: dovete trovarvi anche voi al teatro, avreste fatto sobissar la platea dagli applausi. ZEUSIPPO: Via, signor Leone, voi mi dite troppo; non vi credo; e non ho ancora il viso bastantemente sciacquato da Ippocrene, per presentarmi al pubblico senza arrossire: credo sarei morto d'affanno, se io mi trovava alla rappresentazione. LEONE: Eh, che rossore? questo non è color poetico; scacciate coteste fanciullesche imaginazioni. Componete, rappresentate voi stesso, seguite gl'impulsi del genio Febeo, e non arrossite mai. ZEUSIPPO: Seguirò il consiglio, che voi mi predicate ancor piú efficacemente con l'esempio, che colle vostre lusinghiere parole. Ma, alle corte; noi due ci corbelliamo l'un l'altro; siamo entrambi, poeti, tragici entrambi, entrambi forse cattivi: noi non ci possiamo amare, potressimo però giovarci vicendevolmente, se volessimo francamente parlare l'uno dei componimenti dell'altro; e ciò, con quella pietosa fratellevole discrezione, che sogliono aver fra di loro gli autori ec. E basta: perché non ce n'entra piú; e perché troppo ce n'è entrato fin qui. APPENDICE DECIMA CAPITOLO PRIMO Cetra, che a mormorar soltanto avvezza, indagasti finor spietatamente i vizi, e n'hai dimostra la laidezza: tu che in mano ad un vate impertinente che le publiche risa nulla apprezza, benché stolta, credesti esser sapiente, e di che canterai, e con qual fronte? infra uno stuol sí venerando e augusto? tu che neppur vedesti il sacro fonte. O temeraria cetra, e vuoi dar gusto cicalando di cose a te mal conte sacre al gelido Scita e al Libio adusto? Chi condottier ti fòra all'alta impresa? Nelle Muse non spera, a te già sorde s'armerebbero invan per tua difesa. Rompi, stritola, o abbrucia le tue corde se da fuoco divin non vieni accesa; deluderai cosí le Parche ingorde. Quanti Numi in inferno, o in cielo, o in onda i favolosi Greci un dí crearo, tutti fòrano vani, ognun si asconda. Tu, chi invocar non sai; io te l'imparo: inalza il vol dalla terrena sponda, scorgi un Nume maggior, e a noi piú caro. In supremo Fattor dell'orbe intero rimira, e poi impallidisci, e trema, e se tant'osi, a lui richiedi il vero. Per lui fia in te già l'gnoranza scema, egli ti additi il murator primiero, del grand'Ordine infin l'origo estrema. E se pur ti svelasse un tanto arcano, avresti tu sí nobili concetti e ad inalzare il vol bastante mano? Ah scusatela sí, fratei diletti, non ragiona l'insana, oppur delira quando canta di voi con versi inetti. Cetra, di già tu m'hai destato all'ira. Taci, rispetta, credi, e umil t'inchina, tanto e non piú concede or chi t'inspira. Tu cantar de' misteri, tu meschina? che la semplice Loggia, e quanto acchiude, mal descriver sapresti, ahi poverina! Di quel raggio d'angelica virtude, che in viso al Venerabile sfavilla, come cantar con le tue voci crude? Come, quella di noi dolce pupilla, il Primo Vigilante, in cui s'arresta quando emana dal trono ogni scintilla? Come il Secondo, che la Loggia assesta colla fida presenza, ed implorato di avvicinarsi al Trono, a ciò s'appresta? Come di quei che al gran Maestro a lato siedono maestosi Consiglieri, che il tempo infra i Misteri han consumato? Come, di quei ch'armato il braccio, e fieri ai Profani vietando ognor l'ingresso, giustamente sen van di tanto altieri? Come, di quel che all'opra sí indefesso, necessario Censor, vi molce e accheta, e sí nobile esempio dà lui stesso? Come, di quel che nella steril meta di vane Cerimonie a cui presiede n'adempisce il dover con faccia lieta? Come, di quel, cui l'instancabil piede, (a noi non Servo, ma Fratel diletto) la lautissima mensa oggi provvede? Come di quel che con sí dolce affetto serve e v'illustra con la penna arguta secretaro gentile, a tutti accetto? Cetra, ti veggo già stupida e muta, se intraprendi parlar del Sacro Quadro che i Profani in Fratelli ci commuta, che diresti tu poi di quel leggiadro baldacchin del Maestro, il quale al cielo di coprirlo divieta, invido ladro? Fora inutile, e stolto anche il tuo zelo, se t'accingessi a dir dell'alma Stella, cui piú lucido il Mastro oggi dà velo. L'emblematica ancor Trina Facella, e le Sante Colonne, e il Tempio antico, richiederian piú nobile favella. Dunque taci, balorda, io tel ridico e tel dicono pure a un tempo istesso color che l'Architetto han per amico. Se d'arrossir ti fora ancor concesso, pensando solo alla scabrosa impresa, cetra, davver tu arrossiresti adesso. E qui finiva questa eterna invocazione alla cetra, la quale rispondeva da par sua. Strano è che fatti tanti versi inutili, non ve ne aggiungessi uno in fine necessario, per chiudere il capitolo con la rima secondo le regole. Ma niuna regola mi s'era ancor fitta in capo. APPENDICE UNDICESIMA (cap. XVII) Lettera della madre dell'autore Carissimo, ed amatissimo figlio, Li 8 corrente scrissi al Sig. Abate di Caluso acciò vi facesse una proposizione di matrimonio avvantaggioso, che vi si offre con una figlia di famiglia distintissima per padre e madre, ed erede della maggior parte del bene paterno; il qual padre, per essere stato molto amico del vostro, desidererebbe di dare a voi la sua figlia a preferenza di ogni altro, per il desiderio di far rivivere la casa Alfieri in questa città. Vi ho fatto fare questa proposizione per mezzo del vostro amico, sperando che egli forse avrebbe avuto il dono di persuadervi; ed anche, acciò con lui foste piú in libertà, senza timore di contristarmi, di dare il vostro sentimento perché Dio sa quanto vi amo, e se io potessi mai idearmi niente in questo mondo di mia maggior consolazione e conforto, che di rivedervi e ristabilito nel paese e nella stessa vostra città; ma pure non vorrei contribuire ad una vostra risoluzione che non fosse di vostro genio o di vostra convenienza, perché io ci son piú per poco in questo mondo; e però non vi è da aver riguardo a me per un tal vincolo. Però sto aspettando la vostra definitiva determinazione per dare la risposta a chi si interessa per la Damigella, e spero di averla o da voi medesimo, o per mezzo del Sig. Abate di Caluso, al quale vi prego di porgere i miei complimenti. Mio marito vi saluta caramente. Ed abbracciandovi con tutto l'affetto, sono Vostra affezionatissima Madre. Asti, 22 agosto 1787. Essendo io per natura poco curioso, non ho mai poi ricercato né saputo, né indovinato chi potesse essere questa mia destinata sposa: né credo che l'amico lo sapesse egli stesso, non glie lo domandai, né mostrò di saperlo. APPENDICE DODICESIMA (cap. XXI) Monsieur. Vous ne deviez poin douter que la Marque de Votre Souvenir, et de linteret que Vous avez la bonté de prendre a mon Sort, ne me soit sensible et reçu avec reconnoissance, d'autant plus que je ne puis Vous regarder comme l'auteur de mon Malheur puis qui je ne suis poin Malheureuse quoique la Sensibilité et la droiture de Votre Ame Vous le fasse craindre. Vous éte au contraire la cause de ma deliverance d'un Monde dans lequel je nettoit aucunnement formé pour exister et que je n'ai iamais seule Instant regretté. Je ne sais si en cela j'ai tort ou si un degré de fermeté ou de fierté blamable me fait Illiusion, mais Voila comme j'ai constanment vu ce qui m'est arrivé et je remercie la providence de m'avoir placé dans une situation plus heureuse peut etre que je n'ai mérité. Je jouis d'une santé parfaite que la Liberte et la tranquilite augmènte, je ne cherche que la Societé des personnes Simples et Honnetes qui ne pretendent ny a trop de génie ny a trop de connoissances acquises, qui embrouille quelquefois la Cause, et au deffaut des quelles je me suffit a moiméme par le moyen des Livres, du Dessin, de la musique etc., mais ce qui massure le plus le fond d'un bonheur et d'une Satisfaction réel, et L'amitie et L'affection inmuable d'un Frère que j'ai toujours aimé par desus tout le monde, et qui possede le meilleur des coeurs. C'est pour me confermer a Votre Volonté que je vous ai fait un detaille aussi long de ma Situation et permetté moi a mon tour de Vous assurer du plaisir sensible que me cause la connoissance du bonheur dont vous Jouissais et que je suis persuade que Vous avez toujours merité. J'ai souvent depuis deux ans entendu parler de Vous avec Plaisir, a Paris comme a Londre, ou l'on admire et estime Vos ecrits que je n'ai poin pu parvenir à Voir. Lon dit que Vous éte attaché a la Princesse avec laquelle Vous voyagé, qui par sa Phisionomie Ingenue et Sensé paroit bien faite pour faire le bonheur dune ame aussi Sensible et delicate que la Votre: l'on dit aussi quelle Vous craint, je vous reconnois bien la, sens le desirer ou peut etre vous en aperçevoir Vous avez Iresistablement cet assendant sur tous ceux qui Vous aime. Je vous desire du fond de mon Coeur la continuation des biens et des plaisir réel de ce monde, et si le hasard fait que nous nous recontrions encore j'aurai la plus grande satisfaction à lapprendre de Votre Main. Adieu. Penelope Douvres ce 26 aoust. APPENDICE TREDICESIMA (cap. XXVI) (traduzione dell'Alfieri) Al Dottissimo TOMMASO CALUSO questi preposteri trastulli di giovinetto quinquagenario VITTORIO ALFIERI il menomo de' discepoli agli elementi greci in un biennio per sé stesso ammaestrato mandava l'anno 1797. Poiché, o carissimo, dominando presso che per tutto gli schiavi boia, sul capo a ciascun buono sempre sovrasta la scure, e ci ammonisce Pindaro, che L'età ingannevol pende sugli uomini, volgendo della vita il corso e la partita: ho risoluto di tutte l'opere mie sino al dí d'oggi, che sono il totale avere (se alcun saranno mai) veramente mio, almeno l'indice de' titoli deporre presso di te quasi in tempio, che il salvi. Sta sano. APPENDICE QATTORDICESIMA (cap. XXVI) Monsieur le Comte. Un Français ami des lettres, pénétré depuis long-temps d'admiration pour votre génie et vos talents, est assez heureux pour pouvoir remettre entre vos mains un dépót très précieux que le hasard a fait tomber dans les siennes. Il habite en ce moment une partie de l'Italie qui se glorifie de vous avoir vu naître, et une ville oú vous avez laissé des souvenirs, des admirateurs, et sans doute aussi des amis. Veuillez écrire à l'un de ces derniers, et le charger de venir conférer avec lui sur cet objet. Le premier signe de votre accession à la correspondance qu'il désire ouvrir avec vous, Monsieur le Comte, lui permettra de vous exprimer avec plus d'étendue et de liberté les sentiments dont il fait profession pour l'un des hommes qui, sans distinction de pays, honorent le plus aujourd'hui la république des lettres. Turin, le 25 Floréal an 6 de la République Française (4 Mai 1798. v. st.) Ambassadeur de la Rép. Franç. à la Cour de Sardaigne, Membre de l'Institut N. Ginguené de France. Sig. Ambasciatore Padron mio Stimatissimo, Le rendo quante so piú grazie per le gentilissime espressioni della di lei lettera, e per la manifesta intenzione ch'ella mi vi dimostra di volermi prestare un segnalato servigio, non conoscendomi. Per adattarmi dunque pienamente ai mezzi ch'ella mi propone, scrivo per questo stesso Corriere al Sig. Abate di Caluso, Segretario di codesta Accademia delle Scienze, pregandolo di conferire sul vertente affare col Sig. Ambasciatore qualora egli ne venga richiesto. Questi è persona degnissima, e certamente le sarà noto per fama: egli è mio specialissimo ed unico amico, e come ad un altro me stesso ella può sicuramente affidare qualunque cosa mi spetti. Non so qual possa essere codesto prezioso deposito ch'ella si compiace di accennarmi: so, che la piú cara mia cosa e la sola oramai preziosa ai miei occhi, ell'è la mia totale indipendenza privata, e questa anche a dispetto dei tempi, io la porto sempre con me in qualunque luogo o stato piaccia alla sorte di strascinarmi. Non è perciò di nulla minore la gratitudine ch'io le professo per la di lei spontanea e generosa sollecitudine dimostratami. E con tutta la stima passo a rassegnarmele Firenze dí 28 Maggio 1798. Suo Devotiss. Servo Vittorio Alfieri Monsieur le Comte. Turin le 16 Prairial an 6 de la Rép. Fraç. (4 juin 1798. v. st.) Vous ne pouviez choisir, pour recevoir la confídence que j'avois à vous faire; aucun intermédiaire qui me fût plus agréable que Mr. l'Abbé de Caluso, dont je connois et apprécie la science, les talens, et l'amabilité. Je lui ai fait ma confession et lui ai remis le précieux dépôt dont je m'étois chargé. Vous reverrez des enfans qui ont fait, qui font encore, et feront de plus en plus du bruit dans le monde. Vous les reverrez dans l'état oú ils étoient avant de sortir de la maison paternelle, avec leurs premiers défauts, et les traces intéressantes des triples soins qui les en ont corrigés. Je remets donc entre les mains de votre ami, ou plutôt dans les vôtres, Monsieur le Comte, toute votre illustre famille. Ne me parlez point, je vous prie, de reconnoissance. Je fais ce que tout autre homme de lettres eût sans doute fait à ma place, et nul certainement ne l'eût fait avec autant de plaisir, ni par conséquence avec moins de mérite. Mr. l'Abbé de Caluso vous dira la seule condition que je prenne la liberté de vous prescrire, et j'y compte comme si j'en avois reçu votre parole. Je joins ici, Monsieur le Comte, la liste de vos livres laissés à Paris; tels qu'ils se sont trouvés dans un des dépôts publics, et tels qu'on les y conserve, l'ignore comment ils y ont été placés sous le faux pretexte d'émigration. Tout cela s'est fait dans un tems dont il faut gémir, et oú j'étois plongé dans un de ces antres dont la tyrannie tiroit chaque jour ses victimes. Jété depuis dans les fonctions publiques qui ne sont pour moi qu'une autre captivité j'ai eu le bonheur de découvrir dans un des établissements dont j'avois la surveillance générale, vos livres, dont j'ai fait dresser la liste. Veuillez, Monsieur le Comte, reconnoitre si ce sont à peu près tous ceux que vous aviez laissés. S'il en manquoit d'importans, faites-en la note, autant que vous le pourrez, de mémoire, ou ce qui voudroit mieux, recherchez si vous n'en auriez point quelque part le catalogue. Je ne demande ensuite que votre permission pour réclamer le tout en mon propre nom et sans que vous soyez pour rien dans cette affaire. Je conçois tous les motifs qui peuvent vous faire dèsirer que cela se traite ainsi, et je les respecte. Je vous préviens, Monsieur le Comte, que parmi vos livres imprimés, il s'en trouvera un de moins: ce sont vos oeuvres. Dans l'étude assidue que je fais de votre belle langue, la lecture de vos tragédies est une de celles oú je trouve le plus de fruit et de plaisir. Je n'avois que votre première édition: je me suis emparé de la seconde (celle de Didot). L'exemplaire que j'ai a pourtant deux défauts pour moi, celui d'être trop richement reliè, trop magnifique, et celui de ne m'être pas donné par vous. Si vous avez à votre disposition un exemplaire broché, de la méme édition, ou d'une édition postérieure faite en Italie, je le recevrai de vous avec un plaisir bien vif, comme un témoignage de quelque part dans votre estime, et je remettrai à Mr. l'Abbé de Caluso l'exemplaire trop riche, mais unique, qui reste chez moi, et qui n'y reste pas oisif. Le sort a voulu que de tous les Français envoyés presque en méme temps dans les diverses résidences d'Italie, celui qui aime le plus ce beau pays, sa langue, ses arts, qui eût mis le plus de prix à le parcourir et en eût peut-être d'après ses études antérieures rétiré le plus de fruit littéraire, a été fixé dans le péristyle du temple, sans savoir s'il sera permis d'y entrer. J'ai maintenant une raison de plus pour désirer bien ardemment d'aller au moins iusquà Florence. Je m'estimerois infiniment heureux, Monsieur le Comte, de pouvoir m'y rendre auprés de vous, et de faire personnellement connoissance avec un homme qui honore sa nation et son siècle, par son génie, et par l'élèvation des sentimens qui respirent dans ses ouvrages. Agréez, je vous prie, l'assurance de ma profonde estime, de mon admiration et de mon entier dévouement. Ginguené Membre de l'Institut N. de France, Ambassadeur de la Rèp. Française près SM le roi de Sardaigne. Padrone mio stimatiss. 11 Giugno 1798. Poich'ella ha letto e legge qualche volta alcune delle mie opere, certamente è convinta, che il mio carattere non è dissimulare. Le asserisco dunque candidamente, che quanto mi è costato di dover pure rispondere alla prima sua lettera, altrettanto con ridondanza di cuore io replico a questa seconda; poiché in una certa maniera senza essere né impudente né indiscreto, separando il Sig. Ginguené letterato dall'Ambasciator di Francia, io posso rispondere al figlio d'Apollo soltanto. Le grazie ch'io le rendo per il servigio segnalatissimo da lei prestatomi, saran molto brevi; appunto perché il beneficio è tale da non ammettere parole. Le dico dunque soltanto che il di lei procedere a mio riguardo è stato per l'appunto quello che io in simili circostanze avrei voluto praticare verso lei, non poco pregiandomi di poterlo pur fare. Circa poi al segreto su di ciò, che per via del degnissimo Abate di Caluso mi viene inculcato, e che a lei fu promesso in mio nome dall'amico, io lo prometto di bel nuovo per ora, e lo debbo osservare: ma non glie lo prometto certamente per dopo noi, e mutati i tempi. L'esser vinto in generosità non mi piace. Onde se mai le mie tragedie avran vita, non è giusto che chi generosamente salvava la loro deformità primitiva dall'essere forse appalesata e derisa, non ne riporti quel testimonio solenne di lealtà meritato. Intanto a quell'esemplare di esse, ch'ella mi dice di aver presso sé, coi due soli difetti di essere troppo pomposamente legate, e non donatele da me stesso, già gli vien tolto il secondo difetto da questo punto, in cui mi fò un vero pregio di tributargliele; ed ella mi mortificherebbe veramente se non si degnasse accettarle; correggerò poi il primo difetto, con ispedirgliene altra copia ed aggiungervi alcune altre mie operette, che tutte piú umilmente legate, avranno cosí un abito piú conforme alla loro persona. Quanto poi a quella nota de' miei libri ch'ella si è compiaciuta di trasmettermi; offrendomi con delicatezza degna di lei d'intromettersi per la restituzione di essi, senza ch'io ci apparisca in nessuna maniera; le dirò pure sinceramente, che non lo gradirei, ed eccogliene le ragioni. I libri da me lasciati in Parigi erano assai piú di 1500 volumi, fra' quali erano tutti i principali Classici Greci, Latini e Italiani. La lista mandatami non contiene che circa 150 volumi e tutti quanti libri di nessun conto. Onde vedo chiaramente che il totale de' miei libri è stato o disperso, o tolto via, o riposto in diversi luoghi. Il rintracciarlo dunque riuscirebbe cosa od impossibile, o difficilissima, penosissima, e fors'anche pericolosa; o almeno di gran disturbo per lei, quando io avessi la docilità indiscreta di acconsentire alle sue esibizioni. È chiaro che non si può riaver cosa tolta, senza ritorglierla a qualch'altro; e le restituzioni volontarie son rare; le sforzate sono odiose, e non senza pericoli. Aggiunga poi che gran parte di quei libri stessi io gli ho poi successivamente ricomprati in questi sei anni dopo la mia partenza di Parigi; tutte queste considerazioni m'inducono a ringraziarla senza prevalermi dell'offerta: oltre che poi meglio d'ogni altra cosa si confà col mio animo il non chieder mai nulla né direttamente né indirettamente, da chi che sia. Desidero di potere, quando che sia, in qualche maniera testimoniarle la mia gratitudine, e la stima con la quale me le professo. Suo Devotiss. Servo Vittorio Alfieri APPENDICE QUINDICESIMA (cap. XXVII) QVIESCIT. HIC. TANDEM VICTORIVS. ALFERIVS, ASTENSIS MVSARVM. ARDENTISSIMVS. CVLTOR VERITATI. TANTVMMODO. OBNOXIVS DOMINANTIBVS . IDCIRCO . VIRIS PERIEQVE . AC . INSERVIENTIBVS . OMNIBVS INVISVS . MERITO MVLTITVDINI EO. QVOD . NVLLA . VNQVAM . GESSERIT PVBLICA . NEGOTIA IGNOTVS OPTIMIS . PERPAUCIS . ACCEPTVS NEMINI NISI . FORTASSE . SIBIMET . IPSI DESPECTVS VLXIT . ANNOS ... MENSES ... DIES ... OBIIT ... DIE MENSIS ... ANNO . DOMINI . MDCCC ... HIC. SITA. EST ALOYSIA . E . STOLBERGIS ALBANIAE . COMITISSA GENERE . FORMA . MORIBVS INCOMPARABILI. ANIMI . CANDORE PRAECLARISSIMA A . VICTORIO . ALFERIO IUXTA . QVEM. SARCOPHAGO . VNO [1] TVMVLATA . EST ANNORVM ... SPATIO VLTRA . RES . OMNES . DILECTA ET. QVASI . MORTALE . NVMEN AB . IPSO . CONSTANTER . HABITA ET . OBSERVATA ... DIES ... IN . HANNONIA . MONTIBVS . NATA OBIIT ... DIE ... MFNSIS ... ANNO . DOMINI . MDCCC ... [1] Sic inscribendum, me, ut Opinor et opto, praemoriente: sed, aliter iubente Deo, aliter inscribendum. QVI . IUXTA . EAM . SARCOPHAGO . VNO / CONDITVS . ERIT . QVAM . PRIMVM [N.d.A.] APPENDICE SEDICESIMA (cap. XXVIII) Veneratissimo Sig. Zio. Sul punto di abbandonare l'Italia, per forse tornarvi mai piú, mi permetta, Sig. Zio veneratiss., ch'io le parli del sommo rincrescimento che provo nel dovere rinunciare alla speranza che da tempo nudrivo di conoscerla una volta personalmente. Questa mia determinazione, che a me pare dettata da delicatezza, dai molti è nommata eccesso d'amor proprio, e dai piú pregiudizio ridicolo. Forse han ragione; ma non posso far forza alla mia natura che cosí mi dice; e quando mi fosse stato possibile, le minaccie di esiglio perpetuo, di confisca de' miei beni, mi fa in questo punto il Governo Piemontese se non rientro subito; queste sole minaccie basterebbero a riffrancarmi nella già presa determinazione. - Pugnai contro i Francesi quando erano vittoriosi; comminciai a pugnar per essi quando furon vinti, e non posso assolutamente determinarmi a lasciarli perdenti. Credo che non anderà guari ch'io sarò cambiato. Non so quando le numerose ferite ultimamente rilevate mi permetteranno di ritrattar l'armi, certo se guerreggerò non sarà mai in Italia. - Desidero la pace (non la credo prossima), affine di chiamare a me l'amata mia Consorte, virtuosissima Nipote di lei, e l'unico mio Figlio; infinito duolo provo in separarmene; oh, quanto desidererei che lei la conoscesse! Donna piú dolce, piú tenera, di anima piú alta, piú nobile, di sensi piú sublimi, non seppi mai neppure immaginarla. Parto domani alla volta di Gratz, e provo una vera consolazione nell'avere aperto il mio cuore a Lei, non già ch'io creda che la mia condotta possa venir approvata, ma forse qualcuno fra i Piemontesi capitati a Firenze, mi avrà dipinto a lei come un fanatico, o un uomo di smisurata ambizione; non sono né l'uno né l'altro, ero forse nato per viver in un altro secolo, fra altri uomini; sono veramente ridicolo in questo secolo, mi trovavo tale fra i Piemontesi, mi vedo tale fra i Francesi. Spero da lei, veneratissimo Sig. Zio, compatimento se erro, e spero pure vorrà accettare l'assicuranza dei sentimenti di verace stima, e d'ossequioso attaccamento co' quali mi pregio essere Di V.S. Veneratiss. Treviso li 2 Novembre 1799 Devmo ed Obbmo Serv. ed Affmo Nipote, Luigi Colli Firenze dí 16 Novembre 1799. Nipote mio. Ad un uomo di alto e di forte animo, quale vi reputo e siete, o queste poche mie veracissime e cordiali parole basteranno, o nessune. Già l'onor vostro avete leso voi stesso e non poco, dal punto in cui voi, per somma vostra fortuna non nato Francese, spontaneamente pure indossaste la livrea della Francese Tirannide. Risarcirlo potete forse ancora voi stesso, volendo; ma egli sarà pur troppo in tutto perduto, e per sempre, se voi persistete in una cosí obbrobriosa servitú. Né io già vi dico di cedere alle minaccie di confisca, o d'esiglio, fattevi dal Governo Piemontese; ma di cedere bensí alle ben altre incessanti minaccie che vi fanno senza dubbio la propria vostra coscienza, e l'onore, e l'inevitabile Tribunale terribile di chi dopo noi ci accorda, o ci toglie con imparziale giudizio la fama. La vostra era stata finora, non che intatta, gloriosa; non uno dei Piemontesí che ho visti mi ha parlato di voi, che non stimasse e ammirasse i vostri militari talenti. Riassumetela dunque, col confessare sí ai Francesi medesimi, che ai vostri, che voi avete errato servendo gli oppressori e i Tiranni della nostra Italia. Ed ove pure vi possa premere la stima di una gente niente stimabile, sappiate che gli stessi Francesi vi stimeranno assai piú se li abbandonate, di quello che vi stimeranno anche valorosamente servendoli. Del resto, quand'anche codesti vostri schiavi parlanti di libertà trionfassero, e venissero a soggiogare tutta l'Europa; o quand'anche voi perveniste fra essi all'apice dei massimi loro vergognosissimi onori, non già per questo mai rimarreste voi pago di voi medesimo, né con sicura e libera fronte ardireste voi inalzare nei miei occhi i vostri occhi, incontrandomi. La mendicità dunque, e la piú oscura vita nella vostra patria (il che pur non vi può toccar mai) vi farebbero e meno oppresso, e men vile, e meno schiavo d'assai, che non il sedervi su l'uno dei cinque troni direttoriali in Parigi. Piú oltre non potreste ascender voi mai; né maggiormente contaminarvi. Ed in ultimo vi fo riflettere, che voi non potete la degnissima vostra Consorte ad un tempo stesso amare come mi dite e stimare, e macchiarla. Finisco, sperando, che una qualche impressione vi avran fatta nell'animo questi miei duri ma sincerissimi ed affettuosi sentimenti, ai quali se voi non non prestate fede per ora, son certo che il giorno verrà in cui pienissima la presterete poi loro; ma invano. Son tutto Vostro Vittorio Alfieri Riveritiss. Sig. Zio. Ebbi l'onore richiamarmi alla di lei ricordanza nel partire d'Italia; non so se la mia lettera le sarà giunta. Vi ritorno, e la prima mia premura si è di ripetere quest'atto cbe mi vien commandato dalla stima, e (mi permetta di dirlo) dal rispettoso attaccamento che le professo. Ritorno in Italia coll'obbligo stretto di convincere il Governo Francese (o per dir meglio i miei amici Moreau, Desolles, Bonaparte, Grouchi, Grénier) della mia riconoscenza per le non dubbie, reiterate, ostinate prove di vivo interessamento a mio favore dimostrate. - Combatterò dunque ancora; l'amicizia, la gratitudine mi faran combattere... Chi sa, forse l'ambizione si maschera cosí. Non starò piú in Piemonte, se il re di Sardegna vi rientra non devo decentemente starvi. Se il Piemonte si democratizza vi sono troppo amato dai Contadini per potere starvi senza correre il rischio d'ingelosire i debolissimi Governanti della nascente Repubblica. Non so ancora dove mi fisserò. Forse in Francia, ma non mi vi decido ancora. Vado a Milano, dovrò starvi circa 15 giorni; se l'armistizio durerà, anderò poi a Parigi; ma prima, se me lo permette, avrò l'onore di personalmente assicurarla degli ossequiosi sentimenti co' quali mi pregio essere. Di V.S. Reveritiss. Bologna li 31 Ottobre 1800. Devmo ed Obbmo Serv. ed Affmo Nipote Colli APPENDICE DICIASSETTESIMA (cap. XXIX) Firenze li 6 Marzo 1801. Amico carissimo. Ho ricevuto per mezzo di D'Albarey le due vostre, di cui l'ultima de' 25 Febbraio mi ha molto angustiato per la notizia che mi vi date di esser io stato nominato non so da chi per essere aggregato a codesta adunanza letteraria. Veramente io mi lusingava che la vostra amicizia per me, e la pienissima conoscenza che avete del mio carattere indipendente, ritroso, orgoglioso, ed intero, vi avrebbero impegnato a distornare da me codesta nomina; il che era facilissimo prima, se voi aveste pregato i Nominanti di sospenderla finché me ne aveste prevenuto; ovvero se con quella schiettezza e libertà che si può sempre adoprare quando si parla per altri, voi aveste addotto il mio modo invariabile di sentire e pensare come un ostacolo assoluto ad una tale aggregazione del mio individuo. Comunque sia, già che non lo avete fatto prima, vi prego caldissimamente di farlo dopo, e di liberarmene ad ogni costo; e voi lo potete far meglio di me, stante la dolcezza del vostro aureo carattere. Sicché, restiamo cosí: che io non avendo finora ricevuto lettera nessuna di avviso, caso mai la ricevessi, la dissimulerò come non ricevuta, finché voi abbiate risposto a questa mia, ed annunziatomi il disimpegno accettato. E questo vi sarà facile, perché io consento volentieri, che i Nominanti e i Proponenti per conservare il loro decoro si ritrattino dell'avermi aggregato, e mi disnominino per cosí dire con la stessa plenipotenza con cui mi hanno creato; e dicano o che fu sbaglio, o che a pensier maturato non me ne reputan degno. Io non ci metto vanità nessuna nel rifiuto, ma metto importanza rnoltissima nel non v'essere in nessuna maniera inscritto, e se già lo sono stato ad esserne assolutamente cassato. Io non cerco come ben sapete gli onori, né veri, né falsi: ma io per certo non mi lascierò addossare mai vergogna nessuna. E questa per me sarebbe massima, non già per il ritrovarmi io in compagnia di tanti rispettabili soggetti come avete fra voi, ma per l'esservi in tali circostanze, in tal modo; ed in somma non soffrirei mai di essere intruso in una Società Letteraria, dalla quale sono espulse delle persone come il Conte Balbo, e il Cardinal Gerdil. Sicché le tante altre e validissime ragioni che avrei, e che voi conoscete e sentite quanto me, reputandole inutili, a voi non le scrivo; ma mi troverei poi costretto a metterle in tutta la loro evidenza e pubblicità, quando per mezzo vostro non ottenessi il mio intento. Se dunque voi mi cavate da questo impiccio, e se siete in tempo a risparmiarmi la lettera d'avviso, sarà il meglio. Se poi la riceverò, e sarò costretto a darne discarico, con risposta diretta, mi spiacerà di dovermene cavar fuori io stesso con mezzi o parole spiacenti non meno che inutili, quando se ne potea fare a meno. Passo ad altro, e mi dico ec. Torino li 18 Marzo 1801. Amico carissimo. Io non pensava che v'avesse certo a piacer molto la nomina e aggregazion vostra a questa Accademia, ma neppure avrei creduto cbe vi desse tanto fastidio, e ad ogni modo non sarebbe stato conveniente che quando siete stato proposto nell'assemblea di tanti accademici piú della metà ora nuovi, e molti di niuna mia confidenza, io senza espressa vostra commissione mi fossi voluto far interprete delle vostre intenzioni, e dire: che non si passasse a votare per voi come per gli altri proposti si faceva. Ma questo non vi pone in impiccio alcuno; ché già v'ho sbrogliato. Subito ricevuta la vostra sono andato a parlare a uno de' nostri Presidenti e al Segretario che vi dovevano scrivere, per vedere se fossi a tempo che non vi si spedisse la lettera. Ma essendo essa partita, sono rimasto con essi, e quindi con l'altro Presidente, Segretari, e Accademici della classe delle Belle Lettere ec., adunata ieri sera, che si tenga l'Accademia per ringraziata da voi senza che sia necessario che voi rispondiate. Ho detto che voi m'avevate incaricato di scusarvi e ringraziare, desiderando per mio mezzo essere disimpegnato senza scrivere. E ciò è fatto; e non sarete posto nell'elenco che si sta stampando degli Accademici. E resto abbracciandovi con tutto il cuore. Firenze, 28 Marzo 1801. Amico carissimo. La vostra ultima che mi annunzia la mia liberazione da codesta iscrizione letteraria, mi ha consolato molto. La settimana passata soltanto ho ricevuto (o per dir meglio avuta, poiché non la ricevo) la lettera accademica; ella è intatta, e ve la rimando pregandovi caldamente di farla riavere a chi me l'ha scritta. Questo solo manca alla mia intera purificazione di questo affare, che la lettera ritorni al suo fonte intatta, con quel suo rispettabil sigillo; che se ad essa avessi voluto rispondere, l'avrei fatto scrivendo intorno al non infranto sigillo queste quattro sole parole, laconizzando:(( ((( ((( (((((((; ma per non comprometter voi, né eccedere senza bisogno, mi basta che la lettera sia restituita intatta, perché conoscano che io non l'ho tenuta per diretta a me. E senza tergiversar vi dico anche, che io non ingozzo a niun patto quell'infangato titolo di Cittadino, non perché io voglia esser Conte, ma perché sono Vittorio Alfieri libero da tant'anni in qua, e non liberto. Mi direte che quello è lo stile consueto per ora costà nello scrivere, ma io risponderò; che costà codestoro non doveano mai né pensare a me, né nominarmi mai né in bene né in male; ma che se pure lo faceano, doveano conoscermi, e non mi sporcare con codesta denominazione stupida non meno, che vile e arrogante: poiché se non v'è conti senza contea, molto meno v'è cittadini senza città. Ma basti; perché non la finirei mai; e dico cose note lippis et tonsoribus. Sicché se mai voi non poteste, o non giudicaste congruo a voi di restituire la lettera, fatemi il piacer di serbarla, finché io ritrovo chi la restituisca. E intanto datemi riscontro d'averla ricevuta intatta quale per mezzo del carissimo nipote ve la rimando. La Signora vi risponderà essa su l'articolo de' suoi libri; ed io ora finisco per non vi tediar di soverchio con le mie frenesie. Ma sappiate che la mi bolle davvero davvero, e che se non avessi cinquantadue anni, stravaserei. Inutilmente, direte; ma non è mai inutile la parola che dura nei secoli, ed ha per base il vero ed il giusto. Son vostro. APPENDICE DICIOTTESIMA (cap. XXXI) Forse inventava Alfieri un Ordin vero Nel farsi ei stesso Cavalier di Omero. APPENDICE DICIANNOVESIMA LETTERA DEL SIGNOR ABATE DI CALUSO qui aggiunta a dar compimento all'opera col racconto della morte dell'autore. Alla Preclarissima Signora Contessa d'Albany Pregiatissima signora Contessa. In corrispondenza al favore compartitomi di darmi a leggere le carte, dove l'incomparabile nostro amico avea preso a scrivere la propria vita, debbo palesargliene il mio parere, e il fo colla penna perché favellando potrei con molte piú parole dir meno. Conoscendo l'ingegno e l'animo di quell'uomo unico, io ben m'aspettava di trovare ch'egli avesse vinta in qualche modo suo proprio la difficultà somma di parlar di sé lungamente senza inezie stucchevoli, né menzogne; ma egli ha superata ogni mia espettazione coll'amabile sua schiettezza e sublime semplicità. Felicissima n'è la naturalezza del quasi negletto stile; e maravigliosamente rassomigliante e fedele riesce l'immagine, ch'egli ne lascia di sé scolpita, colorita, parlante. Vi si scorge eccelso qual era, e singolare, ed estremo, come per naturali disposizioni, cosí per opera posta in ogni cosa, che sembrata gli fosse non indegna de' generosi affetti suoi. Che se perciò spesso egli andava al troppo, si osserverà facilmente che da qualche lodevole sentimento ne procedevano sempre gli eccessi, come dall'amicizia quello ch'io scorgo dov'ei mi commenda. Però a tanti motivi, che abbiamo di dolerci che la morte ce l'abbia rapito sí tosto, si aggiunge che sia questa sua Vita fra i molti scritti di lui rimasti bisognosi piú o meno della sua lima, che non sarebbele mancata s'egli giungeva al sessantesimo anno, in cui s'era proposto di ripigliarla in mano e ridurla a pulimento, o bruciarla. Ma bruciata non l'avrebb'egli; come non possiamo aver cuore di bruciarla ora noi, che abbiamo in essa lui ritratto sí al vivo, e di tanti suoi fatti e particolarità sí certo ed unico documento. Lodo pertanto, ch'Ella prosegua, Signora Contessa, a custodirne questi fogli gelosamente, mostrandoli solo a qualche persona molto amica e discreta, che ne ritragga le notizie opportune a tesser la storia di quel grand'uomo. La quale non ardisco imprendere a scriver io, e me ne duole assai: ma non tutti possiamo ogni cosa, ed io debbo ristringermi a notar qui comunque, ciò che sembrami convenire a compimento ed a scusa della narrazione lasciata imperfetta dall'amico. Ne sono le ultime righe del 14 Maggio 1803. Trarrò il seguito da quanto Ella me ne ha scritto, Signora Contessa, la quale avendo ad ogni cosa, che lui riguardava, tenuti ognora intenti non gli occhi solo e le orecchie, ma la mente e il cuore, ne ha presentissima pur troppo la ricordanza. Stava adunque a quel tempo il Conte Alfieri attendendo a recar a buon termine le sue Commedie, e per sollievo e balocco talor pensando al disegno, ai motti, all'esecuzione della collana, ch'ei volea farsi, di Cavalier d'Omero. Ma già la podagra, com'ella solea nel mutar delle stagioni, eragli in Aprile sopravvenuta, e piú molesta, perché il trovava per l'assiduo studio quasi esausto di vegeto e salutar vigore, che la respingesse, e fissasse in alcuna delle parti esterne. Onde a reprimerla, o infievolirla almeno, considerando egli che già da alcun anno gli riusciva la digestione sul finire penosa e grave, si fisse in capo che ottimo partito fosse lo scemarsi il cibo, ch'egli usava pur modichissimo. Pensava che la podagra cosí non nutrita avesse a cedere; mentre lo stomaco non mai ripieno gli lasciava libera e chiara la mente all'applicazione sua ostinatissima. Invano la Signora Contessa amichevolmente ammonivalo, importunavalo, perché piú mangiasse, mentre egli a occhio veggente piú e piú immagrendo manifestava il bisogno di maggior nutrimento. Egli saldo nel suo proposito tutta quella state in eccessiva astinenza persisteva a lavorare con sommo impegno alle sue Commedie ogni giorno parecchie ore, temendo che non gli venisse meno la vita prima di averle perfezionate, senza voler perciò tralasciare alcun dí mai d'impiegarne su gli altrui libri non poche all'acquisto di maggior dottrina. Cosí via via distruggendosi con tanto piú risoluti sforzi quanto piú sentivasi venir manco, svogliato di ogni altra cosa che dello studio, omai sola dolcezza della stanca e penosa vita, ei pervenne ai 3 di Ottobre, nel qual dí alzatosi in apparenza di miglior salute e piú lieto che da gran tempo non solea, uscí dopo il quotidiano suo studio mattutino a fare una passeggiata in faeton [a giorno inoltrato, comunque prima di mezzogiorno, ndr.]. Ma poco andò che il prese un freddo estremo, cui volendo scuotere e riscaldarsi camminando a piedi, gli fu vietato da dolori di viscere. Onde a casa tornossene colla febbre, che fu gagliarda alcune ore, ma declinò sulla sera; e sebbene da principio da stimoli di vomito fosse molestato, passò la notte senza gran patimento, e il dí seguente non solo vestissi, ma fuori del suo quarto discese alla saletta solita per desinare. Né però quel dí poté mangiare; ma dorminne gran parte. Quindi passò inquieta la notte. Pur venuto il mattino dei 5, fattasi la barba, voleva uscir a prender aria; ma la pioggia glie l'impedí. La sera con piacere pigliò, come soleva, la cioccolata. Ma la notte, che veniva su i 6, fierissimi dolori di viscere gli sopraggiunsero, e come il dottore ordinò, gli furono posti a' piedi senapismi, i quali, quando incominciavano ad operare, egli si strappò via, temendo che impiagandogli le gambe gli togliessero per piú giorni il poter camminare. Tuttavia pareva la sera seguente star meglio, senza però porsi a letto; che nol credeva poter soffrire. Quindi la mattina dei 7 il medico suo ordinario ne volle chiamato un altro a consulta, il quale ordinò bagni e vescicatori alle gambe. Ma questi l'infermo non volle per non venir impedito dal poter camminare. Gli fu dato dell'oppio, che i dolori calmò, e gli fe' passare una notte assai tranquilla. Ma non però si pose a letto, né la quiete, che gli dava l'oppio, era senza qualche molestia d'immagini concitate in capo gravoso, cui nella veglia involontarie, come in sogno, si presentavano le ricordanze delle passate cose le piú vivamente impresse nella fantasia. Onde in mente gli ricorrevano gli studi e lavori suoi di trent'anni, e quello, di che piú si maravigliava, un buon numero di versi greci del principio d'Esiodo, ch'egli aveva letti una sola volta, gli venivano allora di filo ripetuti a memoria. Questo ei diceva alla Signora Contessa, che gli sedeva a lato. Ma non pare che per tutto ciò gli venisse in pensiero che la morte, la quale da lungo tempo egli era uso figurarsi vicina, allora imminente gli soprastasse. Certo almeno che niun motto a Lei ne fece, benché Ella nol lasciasse che al mattino, in cui alle sei ore egli prese, senza il parere dei medici, olio e magnesia, la quale dovette anzi nuocergli, imbarazzandogli gl'intestini, poiché verso le 8 fu scorto già già pericolare, e richiamata la Signora Contessa il trovò in ambascia, che il soffocava. Nondimeno alzatosi di sulla sedia andò ancora ad appressarsi al letto, e vi si appoggiò, e poco stante gli si oscurò il giorno, perdé la vista e spirò. Non si erano trascurati i doveri e conforti della Religione. Ma non si credeva il male cosí precipitoso, né alcuna fretta necessaria, onde il confessore chiamato non giunse a tempo. Ma non perciò dobbiamo credere che non fosse il Conte apparecchiato a quel passo, il cui pensiero avea sí frequente, che spessissimo ancora ne facea parola. Cosí la mattina del sabato 8 di Ottobre 1803 cotant'uomo ci fu tolto, oltrepassata di non molto la metà dell'anno cinquantesimo quinto dell'età sua. Fu seppellito, dove tanti uomini celebri, in Santa Croce presso all'altare dello Spirito Santo, sotto a una semplice lapida, intanto che la Signora Contessa D'Albany, gli fa lavorare un condegno mausoleo da innalzarsi non lontano da quello di Michelangiolo. Già il Signor Canòva vi ha posto mano, e l'opera di sí egregio scultore sarà certamente egregia. Quali sieno stati i miei sentimenti sulla sua tomba l'ho espresso nei seguenti sonetti SONETTO I Cuor, che al tuo strazio aneli, occhi bramosi di vista, che già già vi stempra in pianto, ecco il marmo cercato, e i non fastosi caratteri, che son pur sommo vanto. QUI POSTO È ALFIERI. Oimè!... Quant'uomo! e quanto d'amor, di fede in lui godetti, e posi! Qual ne sperai da lui funebre canto, quando tosto avverrà che spento io posi! Io vecchio, stanco, e senza voce omai in Pindo, ove mal noto in basso scanno spirarvi a gloria pochi giorni osai. E inutil sopravvivo a tanto affanno. Oh crudel Morte, che lasciato m'hai per ferir prima, ove sol tutto è il danno! SONETTO Il Umile al piano suolo or l'ossa asconde lapide scarsa che ha il gran nome scritto ma, quali invan li brameresti altronde, marmi dal Tebro qua faran tragitto; e mole sorgerà, che d'ognidonde s'accorra ad ammirarla miglior dritto che non colà sulle Niliache sponde le alte tombe de' Sovran d'Egitto. Già lo scarpel del gran Canova, e l'arte benedir odo, e te, che scelto all'opra, Donna Reale hai sí maestra mano, acciò con degno onor per te si copra chi tanto te onorò con degne carte: e piangi pur, come se oprassi invano. SONETTO III Qua pellegrini nell'età future verran devoti i piú gentili amanti: Poiché non fia che prima il tempo oscure, che le Scene d'Alfieri i minor canti, da cui tue rare doti, e le venture sapran dell'alto amor, Donna, onde avanti vita avevi in due vite, or solo a cure di te, non vivi, ma prolunghi i pianti. E alcun dirà: qual fra cotante, state chiare, può al par di questa andare altera d'esimio, ardente amico, eccelso vate? O qual servo d'Amor mai ebbe, o spera piú adorno oggetto, non che di beltate, ma d'ogni laude piú splendente, o vera? Piú direi per mostrare qual amico ei fosse, qual perdita abbiam noi fatta, e l'Italia. Ma pietà vuole ch'io sopprima le lagrime per non concitarnele piú dolorose, consolandole piuttosto col rammentare che ne' suoi scritti ci resta immortale il suo ingegno, e l'immagine viva di quella grand'anima, la quale assai chiaramente effigiata risplende già pur ne' libri da lui pubblicati. Ond'anche meno ci dee rincrescere ch'ei non abbia potuto ripulire questa sua storia e che, anzi ne sia la Seconda Parte soltanto un primo getto della materia minutata con frettolosa mano e con postille e richiami, cosicché non è facile porvi a luogo ogni cosa, e leggerla rettamente. Ma non v'è pericolo che perciò alcuno faccia della facoltà di scrivere del Conte Alfieri minor concetto. Onde quello, che dianzi ho accennato, di voler qui soggiungere alcuna scusa, non riguarda la dettatura, ma le cose. Alfieri in queste carte si è dipinto qual era; né chi scevro d'ogni rugginoso affetto leggeralle, altra idea ne trarrà che la verace. Ma l'acerbità del suo disegno in piú d'un tratto può molti offendere. La quale se non si scorgesse in alcun altro suo scritto, basterebbe, come ho detto, e la Signora Contessa fa, non lasciar veder questi fogli che a qualche sicuro amico. Ma poiché i motivi che hanno a rendergli avversi molti animi, già sono pubblici in altri suoi libri, e lo splendore della sua gloria già basta a concitargli contro gran fiel d'invidia, e po' poi queste carte, comunque custodite, pur possono venire in mano di men benevoli, sarà bene apporvi un poco di contravveleno. Dico adunque distinguersi due ragioni di lode, quella di sommo, e quella d'irreprensibile, delle quali essendo la seconda in questo misero mondo rarissima eziandio nella mediocrità, nel sommo non v'è richiesta. Ora al sommo sempre sospingevasi Alfieri, e fra i piú nobili affetti, che l'amor di gloria in quel gran cuore incendeva, fu sommo l'amore di due cose, ch'ei non sapea distinguere, patria e libertà civile. Vero è che un filosofo disimpegnato nella monarchia è piú libero assai che il monarca; né io mai altra libertà ho per me bramata, né avuti a sdegno i doveri di suddito fedele. Ma quando ai sovrani piace venir chiamati padroni dai sudditi tutti, pur troppo è facile che taluno si cacci in capo fortemente non potervi essere libertà civile, dove il diritto di volere è d'un solo. Con questo inganno avvampava Alfieri dell'amore di patria libera, il quale, dalla parte al tutto passando, egli stendeva a incensissimo desiderio dell'italica libertà, la quale ei non voleva disperare che possa ancora, quando che sia, gloriosamente risorgere. Però sembrando allora che nulla piú fosse in grado di ostarvi che la potenza francese, contro ai Francesi abbandonossi a un odio politico, ch'ei credé poter giovar all'Italia, quanto piú fosse reso universale. Voleva inoltre sceverarsi da quegl'infami, che mostratisi per la libertà come lui caldissimi, ne han fatto con le piú abbominevoli scelleratezze detestare il partito. A chi meno ha passione egli è chiaro ch'ei non dovea cosí generalmente parlare senza distinzioni di buoni e rei; né ragionevole al giudizio di un freddo filosofo è mai l'odio di nazione alcuna. Ma si vuole Alfieri considerare come un amante passionatissimo, che non può esser giusto cogli avversari dell'idolo suo, come un italiano Demostene, che infiammate parole contrappone a forze maggiori assai dei Macedoni. Né perciò il discolpo; né mi abbisognava per mantenergli la dovuta lode di sommo. Bastami che non si nieghi convenevole indulgenza a trascorsi provenienti da eccesso di sí commendabile affetto qual si è l'amor della patria. Faccia la signora Contessa di questa mia carta quell'uso, che le parrà bene, gradendo colla solita sua bontà, se non altro, il buon volere, e l'ossequio con cui mi pregio di essere Suo devotiss. servo di tutto cuore Tommaso Valperga Caluso Firenze i 21 Luglio 1804.
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