|
Opere pubblicate: 19994
|
Info sull'Opera
VITTORIO ALFIERI
A dí 14 maggio 1803. Firenze. APPENDICE PRIMA (cap. XIV) CLEOPATRA PRIMA Abbozzaccio SCENA PRIMA Lachesi, Photino PHOTINO Della mesta regina i strazi e l'onte chi nato è in riva al Nilo ormai non puote di piú soffrir, alla vendetta pronte foran l'Egizie genti, ove il consiglio destar potesse un negghitoso core ché alla vendetta non pospone amore; LACHESI Sconzigliata a te par l'alma regina, son questi i sensi audaci e generosi del tuo superbo cuor, ma piú pietosi gira ver ella i lumi, e allora in pianto forse sciogliendo i detti giusti e amari vedrai che pria fu donna e poi regina vedrai PHOTINO T'accheta, non fu doglia pari a quella che mi strugge, e mi consuma, de' Tolomei, l'illustre ceppo ha fine, con lor rovina il sventurato Egitto, benché di corte all'aura infida, nato nome non è per me finto, o sognato quel bel di patria nome, che nel petto, invan mi avvampa, qual divino fuoco; ma de' stati la sorte allor che pende da un sol, quell'un tutti infelici rende. LACHESI Inutili riflessi: ora fra' mali sol fia d'uopo il minor, possenti Dei, voi che de' miseri mortali(19) reggete colassú le vite, e i fati ah pria di me, se l'ire vostre io basto tutte a placar, il pronto morir sia, la vittima(20) dell'infelice Antonio il rio destino dove mai, ma che vedo, ecco s'avanza Cleopatra, turbata. SCENA SECONDA Cleopatra, Photino, Lachesi CLEOPATRA Amici ah se albergate ancor pietade, nel vostro sen, se fidi non sdegnate, voi ch'alle glorie mie parte già aveste, esser a mie sciagure ancor compagni, deh non v'incresca il gir per mare(21) per monti, o piani, o selve meco in traccia di chi piú della vita ognor io preggio. L'incauto piè dal vacillante trono rimosse amor, il vincitor già veggio alla foce approdar sull'orme audaci d'un'ingiusta fortuna, a morte pria amor mi meni che a scorno o ad onta ria(22). Questi, lo so, son d'infelice amante non di altiera Regina, i sensi, e l'opre. Forse m'han scelto i Dei per crudo esempio, per far toccar alla piú rozza gente che talor chi li regge, indegno, ed empio fanne, per vil passion, barbaro scempio. PHOTINO Signora, il tuo patir, non che a pietade, ma ad insania trarria uomini e fere, e qual fra i poli adamantino core(23) resisterebbe a' tuoi aspri lamenti,(24) il fallo emendi, in confessarlo, e forse tu se' la prima fralli Ré superbi, che pieghi alla ragion l'altera fronte, alla ragione a' vostri par ignota o non dalla forza ancor distinta: sozza non fu la lingua mia giammai dal basso stil d'adulatori iniqui,(25) il ver ti dissi ognor, Regina, il sai, e tel dirò finché di vita il filo lasso, terrammi al tuo destino avvinto cieco amor, vana gloria, al fin t'han spinto a duro passo, e non si torce il piede, altro scampo Photino oggi non vede fuorché nel braccio e nell'ardir d'Antonio, di lui si cerchi, a rintracciarlo volo non men di lui parmi superbo, e fiero ma assai piú ingiusto il fortunato Ottavio, ah se l'aspre querele, e i torti espressi sotto cui giace afflitta umanitade, se vi son noti in ciel, saria pietade il fulminar color che ingiusti e rei vonno quaggiú raffigurarvi, o dei. (Parte)(26) SCENA TERZA Cleopatra, e Lachesi LACHESI O veridico amico, o raro dono del ciel co' Regi di tal dono avari.(27) CLEOPATRA Veri, ma inutil foran i tuoi detti se piú d'Antonio il braccio invitto a lato non veglia in cura della gloria mia,(28) disperata che fo? dove m'aggiro? A infame laccio, a servil catena, tenderò, dunque umile e supplicante e collo e braccia, al vincitore altiero?, Questi che già di sí bel nodo avvinti, nodo fatal,(29) funesto amor! che pria tua serva femmi, e poi di tirannia. LACHESI Signora, ancor della nemica Corte tentati ancor non hai li guadi estremi forse, chi sà, s'alle nemiche turbe avesse la Fortuna volto il dorso, se Antonio coi guerrier fidi ed audaci, rientrando in sé, dalle lor mani inique, non strappò la vittoria CLEOPATRA Ah nò che fido solo all'amor, piú non curò d'onore: l'incauta fuga mia tutto perdette, sol sconsigliata io fui, sola infelice, almeno del Ciel placar potessi io l'ira ma se a pubblico scorno ei mi riserva, saprò con mano generosa, e forte forse smentire i suoi decreti ingiusti: non creder già, che sol d'amante il core alberghi in sen, ch'ancor quel di Regina nobile, e grande ad alto fin m'invita, l'infamia ai vil, morte all'ardir si aspetta, dubbia non è fra questi due la scielta, ma almen, potessi, ancor di Marco,(30) dimmi, nol rivedrò? per lui rovino, lassa, morir senza di lui degg'io? E su questo bell'andare proseguiva questo bel dramma, finché vi fu carta: e pervenne sino a metà della prima scena dell'atto terzo, dove o cessasse la cagione che facea scriver l'autore, o non gli venisse piú altro in penna, rimase per allora arrenata la di lui debil barchetta, troppo anche mal allestita e scema d'ogni carico, perch'ella potesse neppur naufragare. E parmi che i versi fin qui ricopiati sian anche troppi, per dare un saggio non dubbio del saper fare dell'autore nel gennaio dell'anno 1774. APPENDICE SECONDA (cap. XV) PRIMO SONETTO Ho vinto alfin, sí non m'inganno, ho vinto: spenta è la fiamma, che vorace ardeva questo mio cuor da indegni lacci avvinto i cui moti l'amor cieco reggeva. Prima d'amarti, o Donna, io ben sapeva ch'era iniquo tal foco, e tal respinto l'ho mille fiate, e mille Amor vinceva sí che vivo non era, e non estinto. Il lungo duol, e gli affannosi pianti, li aspri tormenti, e i crudei dubbi amari "onde s'intesse il viver degli amanti" fisso con occhi non di pianto avari. Stolto, che dissi? è la virtú fra' tanti sogni, la sola i cui pensier sian cari. APPENDICE TERZA Lettera del Padre Paciaudi Mio Stimat.mo ed Amat.mo S.r Conte. Messer Francesco s'accese d'amor per Monna Laura, e poi si disinnamorò, e cantò i suoi pentimenti. Tornò ad imbertonarsi della sua Diva, e finí i suoi giorni amandola non già filosoficamente, ma come tutti gli uomini hann'usato. Ella, mio gentil.mo Sig. Conte, si è dato a poetare: non vorrei che imitasse quel padre de' rimatori italiani in questa amorosa faccenda. Se l'uscir dai ceppi è stato forza di virtú, com'ella scrive, conviene sperare che non andrà ad incepparsi altra volta. Comunque sia per avvenire, il Sonetto è buono, sentenzioso, vibrato, e corretto bastamente. Io auguro bene per lei nella carriera poetica, e pel nostro Parnasso Piemontese, che abbisogna tanto di chi si levi un poco su la turba volgare. Le rimando l'eminentissima Cleopatra(31), che veramente non è che infima cosa. Tutte le osservazioni ch'ella vi ha aggiunte a mano, sono sensatissime, e vere. Vi unisco i due volumi di Plutarco, e s'ella resta in casa, verrò io stesso a star seco a desco per ricrearmi colla sua dolce società. Sono colla piú ferma stima ed osservanza suo ec. Nota manus. L'ultimo di Gennaio 1775. APPENDICE QUARTA (cap. XV) COLASCIONATA PRIMA sendo mascherato da Poeta sudicio. Le vicende d'amor strane, ed amare colla cetra m'appresto a voi cantare; non vi spiacciale udir dal labro mio che sincero dirolle affé d'Iddio. Voi le provaste tutti, o le sentite, onde se v'ingannassi, mi smentite. Sventurato è colui ch'ama davvero: sol felice in amor è il menzognero. Ingannato è colui che non inganna, e le frodi donnesche ei si tracanna. Amor non è che un fanciullesco giuoco, chi l'apprezza di piú, quant'è da poco! Eppur, miseri noi, la quiete, e pace c'invola spesso il traditor rapace. Pria che d'amar, paiono dolci i lacci, cosí creder ti fan con finti abbracci. Cresce dappoi delle catene il peso a misura che il sciocco resta acceso. E quando egli è ben bene innamorato, che dura è la catena ha già scordato: o se la sente ancor, la scuote invano, ch'allacciata le vien da accorta mano. L'innamorato stolto, un uom si crede, e ch'un uom non è piú già non s'avvede. Delirando sen va sera, e mattina e da lui la raggion fugge tapina. Ogni giorno scemando il suo cervello, già non discerne piú, né il buon, né il bello, va gli amici fuggendo, e ancor se stesso fugge, per non sentir l'error commesso. Né l'ardisce emendar, piange, sospira, contro il perfido amor, stolto, si adira. La donna, ch'altro vuol ch'aspri lamenti, con rimproveri accresce i rei tormenti: e nel fiero contrasto ognor piú sciocco l'innamorato sta, come un alocco. Legge in viso ad ognun la sua sentenza, e si rode il suo fren con gran pazienza, la pazienza, virtú denominata, ma specialmente all'asino accordata. L'innamorato almen sembrasse in tutto al lascivo animal, immondo, e brutto. Spesso lo muove poi fredda pazzia, quella nera passion di gelosia. Non sarebbe geloso, o il fora invano, se palpasse la fronte con la mano. Anime de' mariti a me insegnate per non esser gelose, eh come fate? Ho capito, di già stufi ne siete, né sempre invan recalcitrar volete. Il coniugale amor vien presto a noia, e nel letto sponsal forza è che muoia, e stuffarsi pur denno anco gli amanti di gettare per donna all'aure i pianti. In somma: l'innamorato fà trista figura, quando di farla buona ei s'assicura. Ognun ride di lui, e n'ha ragione, l'innamorato sempre è un gran beccone. Io finisco col dirvi, amici cari, voi ch'inghiottite ancor boccon sí amari, di spicciarvi al piú presto che possiate delle donne che vosco strascinate. Io già rider vi ho fatto, e rido adesso delle donne, di voi, e di me stesso. COLASCIONATA SECONDA, sendo mascherato da Apollo. Cortesi donne, amati cavalieri, cui non spiacque ascoltar la rauca cetra di sporchissimo vate, il qual nell'etra percosse sol, con li suoi detti veri; voi attendete già dal blando aspetto ch'io ne venga a smentir quel vil cencioso ch'ai sciapiti amator fu sí noioso: no, diverso pensier racchiudo in petto. Io, ch'Apolline son; ma voi ridete? E sí lieve menzogna or vi stupisce? Quando parla di sé ciascun mentisce, e ciò spesso v'accade, e non ridete. Io, ch'Apolline son, cantar disdegno con stucchevoli carmi il rancio amore: da piú strano pensier, piú grand'onore conseguir ne vorrei, se ne son degno. Io m'accingo a cantar della sciocchezza: quest'è un vago soggetto, e non cantato benché spesso dai vati adoperato: or sentite di lui l'alta bellezza. Io comincio da voi, donne, e vi chieggio, se non fossero sciocchi, i dolci sposi: come fareste poi cogli amorosi? Ecco che già fra voi sciocchezza è in preggio. E dirovvi di piú, se un scimunito non scorgeste in chi v'ama al sol parlare, impazzireste già, per non sfogare quello di civettar dolce prurito. Oh quanto giubilate, voi zitelle, se vi trovate aver le madri sciocche! La scuola fate lí di filastrocche, che c'infilzate poi, leggiadre e belle. Dunque, o donne, negar non mi saprete che la nostra sciocchezza vi fa liete. Passo agli uomini adesso, e ben distinti in moltissime schiere li ravviso. Oh quanta gioia appar dei figli in viso, ch'aver stolidi i padri son convinti! I lor vizi sen vanno nascondendo. E se avvien ch'un molesto creditore stufo di passeggiar mova rumore il buon vecchietto allor paga ridendo. Ed all'incontro poi li padri avari quanto godon d'aver figliuoli stolti, è ver che di questi non son molti, che lor chíedan consigli e non danari. Da chi poi la stoltezza è piú ch'amata, la cetra oscuramente quí li addita, sono que' meschinelli, a cui la vita la dabenaggin nostra ha già donata. Che diremo de' brutti bacchettoni: percotendosi il petto, e lagrimuccie costor spargon fra gonzi; alle donnuccie di soppiatto facendo certi occhioni. E voi ricchi, ed ignari alti Signori alla volgar stupidità dovete di comparire ognor quel che non siete. Via ergetele un tempio, e ognun l'adori. Voi altri Zerbinotti casca-morti, che nella testa, neppur testa avete, altro che freddi semi non chiudete, se non vi fosser stolti, siete morti. Voi famelici autori, e che fareste? E se non fosse il volgo ignaro, e stolto vi si vedria la fame pinta in volto, chi sa, d'inanizion forse morreste. Voi d'ogni autor peggiori, che spiate le faccende d'ognuno, e poi le dite, ed a chi non le cura le ridite, della stoltezza voi, quasi abusate. Voi che inimici al ver, già posto in bando crudamente l'avete, a chi direste le sciapite bugiuzze, tacereste se i stolti non le stessero ascoltando. Le velenose lingue, e non acute che di mordere han voglia, e mal lo fanno cangieriano mestier, se il barbagianno non le trovasse poi pronte ed argute. Insomma canterei tre giorni interi, né del ricco soggetto la bellezza, né degli ornati suoi la vaga ampiezza io descriver saprei: voglionvi Oméri. In due versi però composti a stento spiegherovvi il fallace mio pensiero. Dico, e ho inteso a dir che il mondo intiero da stolidezza è retto a suo talento. E voi che qui l'orecchie spalancate per burlarvi di me, Censor severi, e in vestigar miei carmi falsi e veri, se lo stolto non fossi, allor che fate? Ma tu cetra cantasti già di tanti, e chi strider ti fa vuol tralasciare, no che sarebbe ingiusto, hai da cantare; per la soddisfazion di tutti quanti. Dirò dunque di me, per mia disgrazia che senza la stoltezza avrei tacciuto, e forse molto meglio avria valsuto, per conservar di voi la buona grazia, O né poeti innata impertinenza! Biasimare mi vuò, m'innalzo al cielo, eppur se penso a me io sudo e gelo ed abusando vò della pazienza. Lascio giudici voi: sassi gettate s'un Poeta vi paio da sassate Io confesso pian pian, che vado altero d'avervi detto scioccamente il vero. COLASCIONATA TERZA Apolline già stufo di vagare, né sapendo che far, s'infinge adesso che l'ha pregato alcun di ricantare; ma questo non è ver, se l'ha sognato. Chi conosce i Poeti ha già capito ch'Apolline vuol esser corbellato. M'accingerò de' vizi a voi cantare. No, che reggono il mondo, e a me potrebbe da ciò, biasimo e lutto ridondare. Della virtude adunque: è contrabbando, e tanti gli han imposta la gabella, che quasi non si trova anche pagando. Dirò della bellezza delle donne? Ah quanto dicon piú quei dolci sguardi che additan che son Angeli fra gonne. Canterò della vita ogni vicenda, ma se la vita è un sogno molto breve, le vicende d'un sogno, e chi le intende? Dé ricchi canterei se avessi fronte come l'hanno i poeti tutti quanti, e poi già tai menzogne a voi son conte. Dirovvi della morte; oh quanto è trista non ne vorreste udir neppur parola, ma nel pensarci mai, nulla s'acquista. Dirò di quest'alloro qualcosetta il qual cingemi il crin modestamente. Zitto, ch'io mel donai, lo strappo in fretta. Farovvi di miseria un quadro bello. È ver che non è vizio eppur si fugge, né se ne parla mai: dov'ho il cervello? Della felicitade, oh bel soggetto: la va cercando ognun, chi l'ha trovata di grazia me lo dica, ch'io l'aspetto. Tema piú bello ancor: volete udirlo? quest'è la vanità: ma non lo canto potrei parlar di me senza sentirlo. Dirò che sono un pazzo, e ben m'avvedo che lo dite voi tutti anche tacendo. Finisco, per non dir, ch'anch'io lo credo. APPENDICE QUINTA (cap. XV) CLEOPATRA SECONDA SCENA PRIMA Diomede, Lamia DIOMEDE E fia pur ver', che neghittosi, e vili traggon gli Egizi, in ozio imbelle, i giorni allor che i scorni replicati, e l'onte dovrian destar l'alme a vendetta, e all'ire? Cleopatra, d'amor ebra, e d'orgoglio del suo regno l'onor, cieca, non cura, o se pure l'apprezza, incauta, giace di rea fiducia in seno, e forse, ignora ch'a lieve fil, stà il suo destino appeso. M'affanna il duolo, a sí funesto aspetto, e benché avvezzo all'empia corte iniqua, piú cittadin, che servo, oggi compiango le pubbliche sciagure. Un finto nome quel di patria non è, che in cuor ben nato arde, ed avvampa, qual divino fuoco, ed invano i tiranni, un tanto amore taccian' di reo delitto: al falso grido s'oppon natura, e dice, ch'è virtude. LAMIA Di Diomede son questi i sensi audaci. Ti diede il Ciel, forse per tua sventura un'alma forte, generosa, e fiera; inutil dono a chi fra corti è nato. Poiché, dei Regi rispettando i falli spesso adorar li deve: intanto i lumi volgi men fieri, a mesta donna, inerme; mira Cleopatra, impietosisci, e in pianto scioglier ti vedo allor, gli amari detti. In pianto sí, né rifiutar lo puote a sí fatte miserie un'alma grande: e rivendica ognor l'umanitade gli antichi suoi sacri diritti, e augusti; son gli infelici di pietà ben degni, ancor che rei. DIOMEDE Da me l'abbiano tutta; ma quando sol desta pietà, chi impera, si piange l'uom, ma si disprezza il Rege. Avvilita in Egitto è da molti anni la maestà dei trono ec. ec. E basti di questa Seconda, per dimostrare che forse era peggio della Prima. APPENDICE SESTA Lettera del Padre Paciaudi Pregiat.mo mio Sig. Conte. Le rimando il suo originale in cui ho scritte le mie sincere ed amichevoli osservazioni. Parlando in generale io mi sono compiaciuto dei primi tratti della Tragedia. Spicca l'ingegno, l'immaginazione feconda, e il giudizio nella condotta. Ma con eguale schiettezza le dirò, che non sono contento della poesia. I versi sono mal torniti, e non hanno il giro italiano. Vi sono infinite voci, che non son buone, e sempre la ortografia è mancante, e viziosa. Condoni alla mia natural ingenuità, e all'interesse, che prendo a ciò che la risguarda, il presente avviso. Bisogna saper bene la lingua in cui si vuole scrivere. Perché non tiene ella sul tavolino la Ortografia Italiana, picciol volume in ottavo? Perché non legge prima gli Avvertimenti Gramaticali, che vanno aggiunti? Intanto ella osserverà dalle mie molte postille, ch'io non ho voluto risparmiarle il tedio delle emendazioni Gramaticali. Sono in Lingua severo, scrupoloso, forse indiscreto. Ma questa volta il sono stato di piú, perché la proprietà della lingua è la sola cosa che manchi al di lei lavoro. Vi sono de' pensieri grandi, degli affetti ben maneggiati, de' caratteri nobilmente sostenuti. Prosiegua con coraggio, chè difficile trovare chi scrivendo la prima volta cose tragiche vi sia meglio riuscito. Me ne congratulo seco nell'atto di rassegnarmi tutto suo. APPENDICE SETTIMA (cap. XV) CLEOPATRA TERZA quale fu recitata nel Teatro Carignano Atto primo SCENA PRIMA Cleopatra, Ismene CLEOPATRA Che farò?... Giusti Dei... Scampo non veggo ad isfuggire il precipizio orrendo. Ogni stato, benché meschino e vile, mi raffiguro in mente; ogni periglio stolta ravviso, e niun, fra tanti, ardisco affrontare, o fuggir, dubbi crudeli squarcianmi il petto, e non mi fan morire, né mi lasciano pur riposo, e vita. Raccapriccio d'orror; l'onore, il regno prezzo non son d'un tradimento atroce; ambo mi par di aver perduti; e Antonio, Antonio, sí, vedo talor frall'ombre gridar vendetta, e strascinarmi seco. Tanto dunque, o rimorsi, è il poter vostro? ISMENE Se hai pietà di te stessa, i moti affrena d'un disperato cuor; d'altro non temi, che non piú riveder quel fido amante? Ma ignori ancor, se vincitore, o vinto, se viva, o no... CLEOPATRA E s'ei vivesse ancora, con qual fronte, in qual modo, a lui davanti presentarmi potrò, se l'ho tradito? Della virtú qual è forza ignota, se un reo neppur può tollerarne i guardi? ISMENE No, Regina, non è sí reo quel core, che sente ancor rimorsi... CLEOPATRA Ah! sí, li sento: e notte, e dí, e accompagnata, e sola, sieguonmi ovunque, e il lor funesto aspetto non mi lascia di pace un sol momento Eppur, gridano invan; nell'alma mia servir dovranno a piú feroci affetti; né scorgi tu questo mio cuor qual sia. Mille rivolgo altri pensieri in mente, ma il crudel dubbio, d'ogni mal peggiore, vietami ognor la necessaria scelta.
Non sono presenti notizie riguardanti questa opera.
|