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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
CAPITOLO DECIMONONO
Principio dei tumulti di Francia, i quali sturbandomi in piú maniere, di autore mi trasformano in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno. Dall'aprile dell'anno 1789 in appresso, io era vissuto in molte angustie d'animo, temendo ogni giorno che un qualche di quei tanti tumulti che insorgevano ogni giorno in Parigi dopo la convocazione degli Stati Generali, non mi impedisse di terminare tutte quelle mie edizioni tratte quasi al fine, e che non dovessi dopo tante e sí improbe spese e fatiche affondare alla vista del porto. Mi affrettava quanto piú poteva; ma cosí non facevano gli artefici della tipografia del Didot, che tutti travestitisi in politici e liberi uomini, le giornate intere si consumavano a leggere gazzette e far leggi, in vece di comporre, correggere, e tirare le dovute stampe. Credei d'impazzarvi di rimbalzo. Fu dunque immensa la mia soddisfazione, quando pure arrivò quel giorno, in cui finite, imballate, e spedite sí in Italia che altrove, furono le tanto sudate tragedie. Ma non fu lunga quella contentezza, perché le cose andando sempre peggio, scemando ogni giorno la sicurezza e la quiete in questa Babilonia, e accrescendosi ogni giorno il dubbio, e i sinistri presagi per l'avvenire, chi ci ha che fare con questi scimiotti, come disgraziatamente siamo nel caso sí la mia donna che io, è costretto di temer sempre, non potendo mai finir bene. Io dunque oramai da piú d'un anno vo tacitamente vedendo e osservando il progresso di tutti i lagrimevoli effetti della dotta imperizia di questa nazione, che di tutto può sufficientemente chiacchierare, ma nulla può mai condurre a buon esito, perché nulla intende il maneggio degli uomini pratico; come acutamente osservò già e disse il nostro profeta politico, Machiavelli. Laonde io addolorato profondamente, sí perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata, e posta in discredito da questi semifilosofi; stomacato del vedere ogni giorno tanti mezzi lumi, tanti mezzi delitti, e nulla in somma d'intero se non se l'imperizia d'ogni parte; atterrito finalmente dal vedere la prepotenza militare, e la licenza e insolenza avvocatesca posate stupidamente per basi di libertà; io null'altro oramai desidererei, che di poter uscire per sempre di questo fetente spedale, che riunisce gli incurabili e i pazzi. E già fuor ne sarei, se la miglior parte di me stesso non vi si trovasse disgraziatamente per lei intralciata dalle sue circostanze. Istupidito dunque io pure dal perenne dubitare e temere, da quasi un anno che son finite le tragedie, piuttosto vegetando che vivendo, strascino assai male i miei giorni; ed isterilitomi anche non poco il cervello con quasi tre anni di continuo correggere e stampare, a nessuna lodevole occupazione mi so, né posso rivolgere. Ho intanto ricevuto, e vo ricevendo da molte parti notizia, esservi giunta l'edizione delle mie tragedie; e pare che trovino smercio, e non dispiacciano. Ma siccome le nuove mi sono date da persone piuttosto amiche mie, o benevole, non me ne lusingo gran fatto. Ed in fine mi sono proposto fra me e me, di non accettare né lode, né biasimo, se non mi recano e l'uno e l'altro il loro perché; e voglio dei perché luminosi, che ridondino in utile dell'arte mia e di me. Ma di questi perché pur troppo pochi se ne raccapezza, e nessuno finora me n'è pervenuto. Onde tutto il rimanente reputo per non accaduto. Queste cose, benché io le sapessi già prima benissimo, non mi hanno però fatto mai risparmiare né la fatica, né il tempo, per fare il meglio quant'era in me. Tanto piú lode ne riceveranno forse le mie ossa col tempo, poiché io con tale tristo disinganno innanzi agli occhi, ho pure sí ostinatamente persistito a far bene piú assai che a far presto, non mi piegando a corteggiare mai altri che il vero. Quanto poi alle sei mie diverse opere stampate in Kehl, non voglio pubblicare per ora altro che le due prime, cioè l'America libera, e la Virtú sconosciuta; riserbando l'altre a tempi men burrascosi, ed in cui non mi possa esser data la vile taccia, che non mi par meritare, di aver io fatto coro con i ribaldi, dicendo quel ch'essi dicono, e che pur mai non fanno, né fare saprebbero né potrebbero. Con tutto ciò ho stampate quelle opere, perché l'occasione, come dissi, mi v'invitò; e perché son convinto, che chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri, nessun libro essendo veramente fatto e compiuto s'egli non è con somma diligenza stampato, riveduto, e limato sotto il torchio, direi, dall'autore medesimo. Il libro può anche non esser fatto né compito, a dispetto di tutte queste diligenze; pur troppo è cosí; ma non lo può certo essere veramente, senz'esse. Il non aver dunque per ora altro che fare; l'aver molti tristi presentimenti; e il credermi (lo confesserò ingenuamente) di avere pur fatto qualche cosa in questi quattordici anni; mi hanno determinato di scrivere questa mia vita, alla quale per ora fo punto in Parigi, dove l'ho stesa in età di quarantuno e mesi, e ne termino il presente squarcio, che sarà certo il maggiore, il dí 27 maggio dell'anno 1790. Né penso di rileggere piú né guardare queste mie ciarle, fin presso agli anni sessanta, se ci arriverò, età in cui avrò certamente terminata la mia carriera letteraria. Ed allora, con quella freddezza maggiore che portano seco i molti anni, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto di quei dieci o quindici anni all'incirca, che avrò forse ancora impiegati in comporre, o applicare. Se io verrò ad eseguire i due o tre diversi generi in cui fo disegno di provare le mie ultime forze, aggiungerò allora quegli anni in ciò impiegati, a questa quarta epoca della virilità; se no, nel ripigliare questa mia confession generale, incomincierò da quegli anni miei sterili la quinta epoca; della mia vecchiaia e rimbambimento, la quale, se punto avrò senno ancora e giudizio, brevissimamente, siccome cosa inutile sotto ogni aspetto, la scriverò. Ma se io poi in questo frattempo venissi a morire, che è il piú verisimile; io prego fin d'ora un qualche mio benevolo, nelle cui mani venisse a capitar questo scritto, di farne quell'uso che glie ne parrà meglio. S'egli lo stamperà tal quale, vi si vedrà, spero, l'impeto della veracità e della fretta ad un tempo; cose che portan seco del pari la semplicità e l'ineleganza nello stile. Né, per finire la mia vita, quell'amico vi dovrà aggiunger altro di suo, se non se il tempo il luogo ed il modo in cui sarò morto. E quanto alle disposizioni dell'animo mio in quel punto, l'amico potrà accertare arditamente in mio nome il lettore, che troppo conoscendo questo fallace e vuoto mondo, nessuna altra pena avrò provato lasciandolo, se non se quella di abbandonarvi la donna mia; come altresí fin ch'io vivo, in lei sola e per lei sola vivendo oramai, nessun pensiero veramente mi scuote e atterrisce, fuorché il timore di perderla: né d'altra cosa io supplico il cielo, che di farmi uscir primo di queste mondane miserie. Ma se poi l'amico qualunque a cui capitasse questo scritto, stimasse bene di arderlo, egli farà anche bene. Soltanto prego, che se diverso da quel ch'io l'ho scritto gli piacesse di farlo pubblico, egli lo raccorcisca e lo muti pure a suo piacimento quanto all'eleganza e lo stile, ma dei fatti non ne aggiunga nessuni, né in verun modo alteri i già descritti da me. Se io, nello stendere questa mia vita, non avessi avuto per primo scopo l'impresa non volgarissima di favellar di me con me stesso, di specchiarmi qual sono in gran parte, e di mostrarmi seminudo a quei pochi che mi voleano o vorranno conoscere veramente; avrei saputo verisimilmente anch'io restringere il sugo, se alcun ve n'ha, di questi miei quarantun anni di vita in due o tre pagine al piú, con istudiata brevità ed orgoglioso finto disprezzo di me medesimo taciteggiando. Ma io allora avrei voluto in ciò piú assai ostentare il mio ingegno, che non disvelare il mio cuore, e costumi. Siccome dunque all'ingegno mio (o vero o supposto ch'ei sia) ho ritrovato bastante sfogo in tante altre mie opere, in questa mi son compiaciuto di darne uno piú semplice, ma non meno importante, al cuor mio, diffusamente a guisa di vecchio su me medesimo, e di rimbalzo su gli uomini quali soglion mostrarsi in privato, chiacchierando. Parte seconda Continuazione della quarta epoca PROEMIETTO Avendo riletto circa tredici anni dopo, trovandomi fisso in Firenze, tutto quello ch'io aveva scritto in Parigi concernente la mia vita sino all'età di anni quarantuno, a poco a poco lo andai ricopiando, e un pocolino ripulendo, perché riuscisse chiaro e pianissimo lo stile. Dopo averlo ricopiato, giacché mi trovava ingolfato nel parlar di me, pensai di continuare a descrivere questi tredici anni, nei quali mi pare anche di aver fatto pur qualche cosa che meriti d'essere saputa. E siccome gli anni crescono, le forze fisiche e morali scemano, e verisimilmente oramai ho finito di fare, mi lusingo che questa seconda parte, che sarà assai piú breve della prima, sarà anche l'ultima; poiché entrato nella vecchiaia, di cui i miei cinquantacinque anni vicini mi hanno già introdotto nel limitare, e atteso il gran logoro che ho fatto di corpo e di spirito, ancorché io viva dell'altro, nulla oramai facendo, pochissimo mi si presterà da dire. CAPITOLO VIGESIMO Finita interamente la prima mandata delle stampe, mi do a tradurre Virgilio e Terenzio; e con qual fine il facessi. Continuando dunque la quarta epoca, dico che ritrovandomi in Parigi, come io dissi, ozioso e angustiato, ed incapace di crear nulla, benché molte cose mi rimanessero, che avea disegnato di fare; verso il giugno del 1790 cominciai cosí per balocco a tradurre qua e là degli squarci dell'Eneide, quelli che piú mi rapivano; poi vedendo che mi riusciva utilissimo studio, e dilettevole, lo cominciai da capo, per mantenermi anche nell'uso del verso sciolto. Ma tediandomi di lavorare ogni giorno la stessa cosa, per variare e rompere, e sempre piú imparar bene il latino, pigliai anche a tradurre il Terenzio da capo; aggiuntovi lo scopo di tentare su quel purissimo modello di crearmi un verso comico, per poi scrivere (come da gran tempo disegnava) delle commedie di mio; e comparire anche in quelle con uno stile originale e ben mio, come mi pareva di aver fatto nelle tragedie. Alternando dunque, un giorno l'Eneide, l'altro il Terenzio, in quell'anno '90, e fino all'aprile del '91, che partii di Parigi, ne ebbi tradotto dell'Eneide i primi quattro libri; e di Terenzio, l'Andria, l'Eunuco, e l'Eautontimoromeno. Oltre ciò, per sempre piú divagarmi dai funesti pensieri, che mi cagionavano le circostanze, volli disrugginirmi di nuovo la memoria, che nel comporre e stampare avea trasandata affatto, e m'inondai di squarci d'Orazio, Virgilio, Giovenale, e di nuovo dei Dante, Petrarca, Tasso, e Ariosto, talché migliaia e migliaia di versi altrui mi collocai nel cervello. E queste occupazioni di second'ordine sempre piú mi insterilirono il cervello, e mi tolsero di non far piú nulla del mio. Talché, di quelle tramelogedie, di cui doveano essere sei almeno, non vi potei mai aggiungere nulla alla prima, l'Abele; e sviato poi da tante cose, perdei il tempo, la gioventú, e il bollore necessario per una tal creazione, e non lo ritrovai poi mai piú. Sicché in quell'ultimo anno, ch'io stetti allora in Parigi, e cosí poi nei due e piú seguenti altrove, null'altro piú scrissi del mio, fuorché qualche epigrammi e sonetti, per isfogare la mia giustissima ira contro gli schiavi padroni, e dar pascolo alla mia malinconia. E tentai anche di scrivere un Conte Ugolino, dramma misto, e da unirsi poi anche alle tramelogedie, se l'avessi eseguite. Ma dopo averlo ideato, lo lasciai, né vi potei piú pensare, non che lo stendessi. L'Abele in tanto era finito, ma non limato. Nell'ottobre di quell'anno stesso '90, si fece con la mia donna un viaggietto di quindici giorni nella Normandia sino a Caen, L'Havre, e Roano; bellissima e ricca provincia, ch'io non conosceva; e ne rimasi molto soddisfatto, ed anche un poco sollevato. Perché quei tre anni fissi di stampa, e di guai continui, mi aveano veramente prosciugato il corpo e l'intelletto. L'aprile poi vedendo sempre piú imbrogliarsi le cose in Francia, e volendo almeno tentare se piú pace e sicurezza si potrebbe altrove trovare; oltreciò la mia donna spirandosi di vedere l'Inghilterra, quella sola terra un po' libera, e tanto diversa dall'altre tutte, ci determinammo di andarvi. CAPITOLO VIGESIMOPRIMO Quarto viaggio in Inghilterra e in Olanda. Ritorno a Parigi dove ci fissiamo davvero, costrettivi dalle dure circostanze. Si partí dunque verso il fine d'aprile del '91, ed avendo intenzione di starvi del tempo, ci portammo i nostri cavalli, e si licenziò la casa in Parigi. Vi si arrivò in pochi giorni, e il paese piacque molto alla mia donna per certi lati, per altri no. Io invecchiato non poco dalle due prime volte in poi che ci era stato, lo ammirai ancora (ma un poco meno), quanto agli effetti morali del governo, ma me ne spiacque sommamente, e piú che nel terzo viaggio, sí il clima, che il modo corrotto di vivere; sempre a tavola, vegliare fin alle due o tre della mattina; vita in tutto opposta alle lettere, all'ingegno, e alla salute. Passata dunque la novità degli oggetti per la mia donna, ed io tormentatovi molto dalla gotta vagante, che in quella benedetta isola è veramente indigena, presto ci tediammo dí essere in Inghilterra. Succedé nel giugno di quell'anno la famosa fuga del re di Francia, che ripreso in Varennes, come ciascun seppe, fu ricondotto piú che mai prigioniero in Parigi. Quest'avvenimento abbuiò sempre piú gli affari di Francia; e noi vi ci trovavamo impicciatissimi per la parte pecuniaria, avendo l'uno e l'altro i due terzi delle nostre entrate in Francia, dove la moneta sparita, e datovi luogo alla carta ideale, e sfiduciata ogni dí piú, settimanalmente uno si vedeva scemare in mano il suo avere, che prima d'un terzo, poi mezzo, poi due terzi, andava di carriera verso il bel nulla. Contristati ambedue e costretti da questa necessità irrimediabile, ci determinammo di obbedirvi, e di ritornare in Francia, dove solo con la nostra cartaccia potevamo campare, per allora; ma con la trista perspettiva del peggio. Nell'agosto dunque, prima di lasciar l'Inghilterra, si fece un giro per l'isola a Bath, Bristol, e Oxford, e tornati a Londra, pochi giorni dopo ci rimbarcammo a Douvres. Quivi mi accadde un accidente veramente di romanzo, che brevemente narrerò. Nel mio terzo viaggio in Inghilterra nell'83 e '84 non aveva punto piú saputo né cercato nulla di quella famosa signora, che nel mio secondo viaggio mi avea fatto pericolare per tanti versi. Solamente sentii dire ch'ella non abitava piú Londra, che il marito, da cui s'era divorziata, era morto, e che si credeva ne avesse sposato un altro, oscuro ed ignoto. In questo quarto viaggio, nei quattro e piú mesi ch'io era stato a Londra non ne avea mai sentito far parola né cercatone notizia, e non sapeva neppure s'ella fosse ancor viva, o no. Nell'atto di imbarcarmi a Douvres, precedendo io la donna mia di forse un quarto d'ora alla nave, per vedere se il tutto era in ordine, ecco, che nell'atto, che dal molo stava per entrare nella nave, alzati gli occhi alla spiaggia dove era un certo numero di persone, la prima che i miei occhi incontrano, e distinguono benissimo per la molta prossimità, si è quella signora; ancora bellissima, e quasi nulla mutata da quella ch'io l'avea lasciata vent'anni prima appunto nel 1771. Credei a prima di sognare, guardai meglio, e un sorriso ch'ella mi schiuse guardandomi, mi certificò della cosa. Non posso esprimere tutti i moti, e diversi affetti contrari che mi cagionò questa vista. Tuttavia non le dissi parola, entrai nella nave, né piú ne uscii; e nella nave aspettai la mia donna, che un quarto d'ora dopo giuntavi, si salpò. Essa mi disse, che dei signori, che l'accompagnarono alla nave, gli avean indicata quella signora; e nominategliela, e aggiuntovi un compendiuccio della di lei vita passata e presente. Io le raccontai come mi era occorsa agli occhi, e come andò il fatto. Tra noi non v'era mai né finzione, né diffidenza, né disistima, né querele. Si arrivò a Calais; di dove io molto colpito di quella vista cosí inaspettata, le volli scrivere per isfogo del cuore, e mandai la mia lettera al banchiere di Douvres, che glie la rimettesse in proprie mani, e me ne trasmettesse poi la risposta a Bruxelles, dove sarei stato fra pochi giorni. La mia lettera, di cui mi spiace di non aver serbato copia, era certamente piena d'affetti; non già d'amore, ma di una vera e profonda commozione di vederla ancora menare una vita errante e sí poco decorosa al suo stato e nascita, e il dolore, ch'io ne sentiva tanto piú, pensando di esserne io stato, ancorché innocentemente, o la cagione o il pretesto. Che senza lo scandalo succeduto per causa mia, forse avrebbe potuto occultare o tutto o gran parte le sue dissolutezze, e cogli anni poi emendarsene. Ritrovai poi in Brusselles circa quattro settimane dopo la di lei risposta, che fedelmente trascrivo qui in fondo di pagina(12), per dare un'idea del di lei nuovo, ed ostinato mal inclinato carattere, che in quel grado ella è cosa assai rara, massime nel bel sesso. Ma tutto serve al grande studio della specie bizzarra degli uomini. Intanto dunque noi imbarcati per Francia, sbarcati a Calais, prima di rimprigionarci in Parigi, pensammo di fare un giro in Olanda, perché la donna mia vedesse quel raro monumento d'industria, occasione, che forse non se le presenterebbe poi piú. Si andò dunque per la spiaggia fino a Bruges e Ostenda, di là per Anversa e Rotterdam, Amsterdamo, la Haia, e la Nort-Hollanda, in circa tre settimane, e in fin di settembre fummo di ritorno in Brusselles, dove la signora avendovi le sorelle e la madre, ci si stette qualche settimana; e finalmente dentro l'ottobre, verso il fine, fummo rientrati nella cloaca massima, dove le dure nostre circostanze ci ritraevano malgrado nostro; e ti costrinsero a pensare seriamente di fissarvici la nostra permanenza. CAPITOLO VIGESIMOSECONDO Fuga di Parigi, donde per le Fiandre e tutta la Germania tornati in Italia ci fissiamo in Firenze. Impiegati, o perduti circa due mesi in cercare, ed ammobiliare una nuova casa, nel principio del '92 ci tornammo ad abitare; ed era bellissima e comodissima. Si sperava ogni giorno, che verrebbe quello di un qualche sistema di cose soffribile; ma piú spesso ancora si disperava che omai sorgesse un tal giorno. In questo stato di titubazione, la mia donna ed io (come anche tutti, quanti n'erano allora in Parigi ed in Francia, o ci aveano che fare pe' loro interessi), andavamo strascinando il tempo. Io fin da due anni e piú innanzi, avea fatto venir di Roma tutti i miei libri lasciativi nell'83, e da allora in poi li avea anche molto accresciuti sí in Parigi, che in quest'ultimo viaggio di Inghilterra, e d'Olanda. Onde per questa parte poco mi mancava ad avere ampiamente tutti i libri, che mi potessero esser utili o necessari nella ristretta mia sfera letteraria. Onde tra i libri, e la cara compagna, nessuna consolazione domestica mi mancava; solamente mancavaci la speranza viva, e la verisimiglianza che ciò potesse durare. Questo pensiero mi sturbava da ogni occupazione, e mi tiravo innanzi per traduttore nel Virgilio e Terenzio, non potendo far altro. Frattanto, né in quest'ultimo, né all'anteriore mio soggiorno in Parigi io non volli mai né trattare, né conoscere pur di vista nessuno di quei tanti facitori di falsa libertà, per cui mi sentiva la piú invincibile ripugnanza, e ne aveva il piú alto disprezzo. Quindi anche sino a questo punto, in cui scrivo da piú di quattordici anni che dura questa tragica farsa, io mi posso gloriare di esser vergine di lingua di orecchi, e d'occhi perfino, non avendo mai né visto, né udito, né parlato con qualunque di codesti schiavi dominanti francesi, né con nessuno dei loro schiavi serventi. Nel marzo di quell'anno ricevei lettere di mia madre, che furon l'ultime: ella vi esprimeva con caldo e cristiano affetto molta sollecitudine di vedermi, diceva, "in paese, dove sono tanti torbidi; dove non è piú libero l'esercizio della cattolica religione, e dove tutti tremano sempre, ed aspettano continui disordini e disgrazie". Pur troppo bene diceva, e presto si avverò; ma quando mi ravviai verso l'Italia, la degnissima e veneranda matrona non esisteva, piú. Passò di questa vita il di 23 aprile 1792, in età di anni settanta compiuti. Erasi frattanto rotta la guerra coll'imperatore, che poi divenne generale e funesta. Venuto il giugno, in cui si tentò già di abbattere intieramente il nome del re, che altro piú non rimaneva; la congiura di quel giorno 20 giugno essendo andata fallita, le cose strascinarono ancora malamente sino al famoso dieci d'agosto, in cui la cosa scoppiò come ognuno sa. Accaduto quest'avvenimento, io non indugiai piú neppure un giorno, e il mio primo ed unico pensiero essendo di togliere da ogni pericolo la mia donna, già dal dí 12 feci in fretta in fretta tutti i preparativi per la nostra partenza. Rimaneva la somma difficoltà dell'ottenere passaporti per uscir di Parigi, e del regno. Tanto c'industriammo in quei due o tre giorni, che il dí 15, o 16, già gli avevamo ottenuti come forestieri, prima dai ministri di Venezia io, e di Danimarca la signora, che erano quasi che i soli ministri, esteri rimasti presso quel simulacro di re. Poi con molto piú stento si ottenne dalla sezione nostra comunitativa detta du Montblanc degli altri passaporti, uno per ciascheduno individuo, sí per noi due, che ogni servitore, e cameriera, con la pittura di ciascuno, di statura, pelo, età, sesso, e che so io. Muniti cosí di tutte queste schiavesche patenti, avevamo fissato la partenza nostra pel lunedí 20 agosto; ma un giusto presentimento, trovandoci allestiti, mi fece anticipare, e si parti il dí 18, sabato, nel dopo pranzo. Appena giunti alla Barrière Blanche, che era la nostra uscita la piú prossima per pigliar la via di San Dionigi per Calais, dove ci avviavamo per uscire al piú presto di quell'infelice paese; vi ritrovammo tre o quattro soli soldati di guardie nazionali, con un uffiziale, che visti i nostri passaporti, si disponeva ad aprirci il cancello di quell'immensa prigione, e lasciarci ire a buon viaggio. Ma v'era accanto alla Barriera una bettolaccia, di dove sbucarono fuori ad un tratto una trentina forse di manigoldi della plebe, scamisciati, ubriachi, e furiosi. Costoro, viste due carrozze che tante n'avevamo, molto cariche di bauli, e imperiali, ed una comitiva di due donne di servizio, e tre uomini, gridarono che tutti i ricchi se ne voleano fuggir di Parigi, e portar via tutti i loro tesori, e lasciarli essi nella miseria e nei guai. Quindi ad altercare quelle poche e tristi guardie con quei molti e tristi birbi, esse per farci uscire, questi per ritenerci. Ed io balzai di carrozza fra quelle turbe, munito di tutti quei sette passaporti, ad altercare, e gridare, e schiamazzar piú di loro; mezzo col quale sempre si vien a capo dei francesi. Ad uno ad uno si leggevano, e facevano leggere da chi di quelli legger sapeva, le descrizioni delle nostre rispettive figure. Io pieno di stizza e furore, non conoscendo in quel punto, o per passione sprezzando l'immenso pericolo, che ci soprastava, fino a tre volte ripresi in mano il mio passaporto, e replicai ad alta voce: "Vedete, sentite; Alfieri è il mio nome; italiano e non francese; grande, magro, sbiancato; capelli rossi, son io quello, guardatemi; ho il passaporto; l'abbiamo avuto in regola da chi lo può dare; e vogliamo passare, e passeremo per Dio". Durò piú di mezz'ora questa piazzata, mostrai buon contegno, e quello ci salvò. Si era frattanto ammassata piú gente intorno alle due carrozze, e molti gridavano: "Diamogli il fuoco a codesti legni". Altri: "Pigliamoli a sassate". Altri: "Questi fuggono; son dei nobili e ricchi, portiamoli indietro al Palazzo della Città, che se ne faccia giustizia". Ma insomma il debole aiuto delle quattro guardie nazionali, che tanto qualcosa diceano per noi, ed il mio molto schiamazzare, e con voce di banditore replicare e mostrare i passaporti, e piú di tutto la mezz'ora e piú di tempo, in cui quei scimiotigri si stancarono di contrastare, rallentò l'insistenza loro; e le guardie accennatomi di salire in carrozza, dove avea lasciato la signora, si può credere in quale stato, io rientratovi, rimontati i postiglioni a cavallo si aprí il cancello, e di corsa si uscí, accompagnati da fischiate, insulti e maledizioni di codesta genia. E buon per noi che non prevalse di essere ricondotti al Palazzo di Città, che arrivando cosí due carrozze in pompa stracariche, con la taccia di fuggitivi, in mezzo a quella plebaglia si rischiava molto; e saliti poi innanzi ai birbi della Municipalità, si era certi di non poter piú partire, d'andare anzi prigioni, dove se ci trovavano nelle carceri il dí 2 settembre, cioè quindici giorni dopo, ci era fatta la festa insieme con tanti altri galantuomini che crudelmente vi furono trucidati. Sfuggiti di un tale inferno, in due giorni e mezzo arrivammo a Calais, mostrando forse quaranta e piú volte i nostri passaporti; ed abbiamo saputo poi che noi eramo stati i primi forestieri usciti di Parigi, e del regno dopo la catastrofe del 10 agosto. Ad ogni Municipalità per istrada dove ci conveniva andare e mostrare i nostri passaporti, quei che li leggevano, rimanevano stupefatti ed attoniti alla prima occhiata che ci buttavan sopra, essendo quelli stampati, e cassatovi il nome del re. Poco, e male erano informati di quel che fosse accaduto in Parigi, e tutti tremavano. Sono questi gli auspici, sotto cui finalmente uscii della Francia, con la speranza, ed il proponimento di non capitarvi piú mai. Giunti a Calais, dove non ci fecero difficoltà di proseguire sino alle frontiere della Fiandra per Gravelina, preferimmo di non c'imbarcare, e di renderci subito a Brusselles. Ci eramo diretti a Calais, perché non essendo ancora guerra cogli inglesi, si pensò che si potea piú facilmente andare in Inghilterra, che in Fiandra dove la guerra si facea vivamente. Giunti a Brusselles, la signora volle rimettersi un poco dalle paure sofferte con lo stare un mesetto in villa colla sorella, e il degnissimo suo cognato. Là poi si ricevettero lettere di Parigi dalla nostra gente lasciatavi, che quello stesso lunedí che avevamo destinato al partire, 20 agosto, ma che io fortunatamente avea anticipato due giorni, era venuta in corpo quella nostra stessa sezione che ci avea dati i passaporti (vedi stupidità, e pazzia), per arrestare la signora e condurla in prigione. Già si sa, perché era nobile, ricca, ed illibata. A me, che sempre ho valuto meno di essa, non faceano per allora quell'onore. Ma insomma, non ci ritrovando aveano confiscato i nostri cavalli, mobili, libri, e ogni cosa. Poi sequestrate le entrate, e dichiaratici amendue emigrati. E cosí pure poi ci fu scritta la catastrofe e gli orrori ecc. seguiti in Parigi il di 2 settembre, e si ringraziò e benedí la Provvidenza che ce n'avea scampati. Visto poi sempre piú oscurarsi il cielo di quel paese, e nata nel terrore e nel sangue quella sedicente repubblica, noi saviamente ascrivendo a guadagno tutto quello che ci potea rimanere altrove, ci posimo in via per l'Italia il dí 1° ottobre; e per Aquisgrana, Francfort, Augusta ed Inspruch, venuti all'Alpi e lietamente varcatele, ci parve di rinascere il dí che ci ritrovammo nel bel paese qui dove il sí suona. Il piacere di esser fuori di carcere, e di ricalcare con la mia donna quelle stesse vie, che piú volte avea fatte per gire a trovarla; la soddisfazione di potere liberamente godere la sua santa compagnia, e sotto l'ombra sua di potere ripigliare i miei cari studi, mi tranquillizzarono, e serenarono a segno, che da Augusta sino in Toscana mi si riaprí la fonte delle rime, e ne venni seminando e raccogliendo in gran copia. Si arrivò finalmente il dí 3 novembre in Firenze, di donde non ci siamo piú mossi, e dove ritrovai il vivo tesoro della lingua, che non poco mi compensò delle tante perdite d'ogni sorte che dovei sopportare in Francia. CAPITOLO VIGESIMOTERZO A poco a poco mi vo rimettendo allo studio. Finisco le traduzioni. Ricomincio a scrivere qualche coserella di mio, trovo casa piacentissima in Firenze; e mi do al recitare. Appena giunto in Firenze, ancorché per quasi un anno non vi si potesse trovar casa che ci convenisse, tuttavia il sentir di nuovo parlare quella sí bella, e a me sí preziosa lingua, il trovar gente qua e là che mi andava parlando delle mie tragedie, il vederle qua e là (benché male), pure frequentemente recitate, mi ridestò qualche spirito letterario, che nei due ultimi decorsi anni mi si era presso che spento nel core. La prima coserella, che mi venne ideata e fatta di mio (dopo quasi tre anni che non avea piú composto nulla fuorché qualche rime) fu l'Apologia del re Luigi XVI, che scrissi nel decembre di quell'anno. Successivamente poi riprese caldamente, le due traduzioni che sempre camminavan di fronte, il Terenzio e l'Eneide, nel seguente anno '93 le portai al fine, non però limate, né perfette. Ma il Sallustio, che era stata quasi che la sola cosa a cui un pochino avessi atteso nel viaggio d'Inghilterra e d'Olanda (oltre tutte le opere di Cicerone, che avea caldamente lette, e rilette), e che avea moltissimo corretto e limato, lo volli anche ricopiare intero in quell'anno '93, e cosí mi credei avergli dato l'ultimo pulimento. Stesi anche una prosa storico-satirica su gli affari in Francia, compendiatamente, la quale poi, ritrovatomi un diluvio di composizioni poetiche, sonetti, ed epigrammi su quelle risibili e dolorose vertenze, ed a tutti que' membri sparsi volendo dar corpo e sussistenza, volli che quella prosa servisse come di prefazione all'opera che intitolerei Il misogallo; e verrebbe essa a dare quasi ragione dell'opera. Ravviatomi cosí a poco a poco allo studio, ancorché forte spennacchiati nell'avere, sí la mia donna che io, tuttavia rimanendoci pur da campare decentemente; ed amandola io sempre piú, e quanto piú bersagliata dalla sorte, tanto piú riuscendomi ella una cosa e carissima e sacra, il mio animo si andava acquetando, e piú ardente che mai l'amor del sapere mi ribolliva nella mente. Ma allo studio vero quale avrei voluto intraprendere, mi mancavano i libri, avendo definitivamente perduti tutti i miei in Parigi, né mai piú pure richiestili a chi che si fosse, e salvatine soli un 150 volumi circa di picciole edizioncelle di classici che portai meco. Quanto poi al comporre, benché io avessi il mio piano ideato per altre cinque almeno tramelogedie, sorelle dell'Abele, attese le passate ed anche le presenti angustie dell'animo, mi si era spento il bollore giovenile inventivo, la fantasia accasciata, e gli anni preziosi ultimi della gioventú spuntati ed ottusi, direi, dalla stampa ed i guai che per piú di cinque anni mi avean sepolto l'animo, non me la sentivo piú; ed in fatti dovei abbandonarne il pensiero, non mi trovando piú il robusto furore necessario ad un tale pazzo genere. Smessa dunque quell'idea, che pur tanto mi era stata cara, mi volli rivolgere alle satire, di cui fatto avea sol la prima che poi serve all'altre di prologo; bastantemente mi era andato esercitando ín quest'arte negli squarci diversi del Misogallo, onde non disperava di riuscirvi; e ne scrissi la seconda, ed in parte la terza; ma non era ancora abbastanza raccolto in me stesso; male alloggiato, senza libri, non avea quasi il cuore a nulla. Questo mi fece entrare in un nuovo perditempo, quello del recitare. Trovati in Firenze alcuni giovani, e una signora, che mostravano genio e capacità da ciò, si imparò il Saul, e si recitò in casa privata, e senza palco, a ristrettissima udienza, con molto incontro, nella primavera del '93. In fine poi di quell'anno, si ritrovò presso il Ponte Santa Trinità una casa graziosissima benché piccola, posta al Lung'Arno di mezzogiorno, casa dei Gianfigliazzi, dove tornammo in novembre, e dove ancora mi trovo, e verisimilmente, se non mi saetta altrove la sorte, ci morrò. L'aria, la vista, ed il comodo di questa casa mi restituí gran parte delle mie facoltà intellettuali e creative, meno le tramelogedie, cui non mi fu piú possibile mai d'innalzarmi. Tuttavia, avviatomi l'anno prima al balocco del recitare, volli ancora perdere in questa primavera del '94 altri tre buoni mesi; e si recitò da capo in casa mia, il Saul, di cui io faceva la parte; poi il Bruto primo, di cui pure faceva la parte. Tutti dicevano, e pareva anche a me di andar facendo dei progressi non piccoli in quell'arte difficilissima del recitare; e se avessi avuto piú gioventú, e nessun altro pensiero, mi parea di sentire in me crescere ogni volta ch'io recitava, la capacità, e l'ardire, e la riflessione e la gradazione dei tuoni, e la importantissima varietà continua dei presto e adagio, piano e forte, pacato e risentito, che alternate sempre a seconda delle parole vengono a colorir la parola, e scolpire direi il personaggio, ed incidere in bronzo le cose ch'ei dice. Parimente la compagnia addestrata al mio modo migliorava di giorno in giorno; e tenni allora per cosa piú che certa, che se io avessi avuto danari tempo e salute da sprecare, avrei in tre o quattr'anni potuto formare una compagnia di tragici, se non ottima, almeno assai e del tutto diversa da quelle che in Italia si van chiamando tali, e ben diretta su la via del vero e dell'ottimo. Questo perditempo mi tenne ancora molto indietro nelle mie occupazioni per tutto quell'anno, e quasi anche il seguente, in cui poi feci la mia ultima strionata, recitando in casa mia il Filippo, in cui feci alternativamente le due cosí diverse parti di Filippo, e di Carlo; e poi da capo il Saul, che era il mio personaggio piú caro, perché in esso vi è di tutto, di tutto assolutamente. Ed essendovi in Pisa in casa particolare di signori una altra compagnia di dilettanti, che vi recitavano pure il Saul, io invitato da essi di andarvi per la luminara, ebbi la pueril vanagloria di andarvi, e là recitai per una sola volta, e per l'ultima la mia diletta parte del Saul, e là rimasi, quanto al teatro, morto da re. Intanto, nel decorso di quei due e piú anni ch'io era già stato in Toscana, mi era dato a poco a poco a ricomprar libri, e riacquistati quasi che tutti i libri di lingua toscana che già aveva avuti, e riacquistati ed accresciuti anche di molto tutti i classici latini, vi aggiunsi anche, non so allora perché, tutti i classici greci di edizioni ottime greco-latine tanto per averli, e saperne se non altro i nomi. CAPITOLO VIGESIMOQUARTO La curiosità e la vergogna mi spingono a leggere Omero, ed i tragici greci nelle traduzioni letterali. Proseguimento tepido delle satire, ed altre cosarelle. Meglio tardi che mai. Trovandomi dunque in età di anni quarantasei ben suonati, ed aver bene o male da venti esercitata e professata l'arte di poeta lirico e tragico, e non aver pure mai letto né i tragici greci, né Omero, né Pindaro, né nulla insomma, una certa vergogna mi assalí, e nello stesso tempo anche una lodevole curiosità di vedere un po' cosa aveano detto quei padri dell'arte. E tanto piú cedei volentieri a questa curiosità e vergogna, quanto da piú e piú anni, mediante i viaggi, i cavalli, la stampa, la lima, le angustie d'animo, e il tradurre, mi trovava rinminchionito a tal segno, che avrei ben potuto oramai aspirare all'erudito, che non è poi insomma altro che buona memoria di suo, e roba d'altri. Ma disgraziatamente anche la memoria, ch'io avea già avuta ottima, mi si era assai indebolita. Con tutto ciò per isfuggire l'ozio, cavarmi dallo strione ed uscire un pocolin piú dall'asino, mi accinsi all'impresa. E successivamente Omero, Esiodo, i tre tragici, Aristofane, ed Anacreonte lessi ad oncia ad oncia studiandoli nelle traduzioni letterali latine, che sogliono porsi a colonna col testo. Quanto a Pindaro, vidi ch'egli era tempo perduto; perché le alzate liriche tradotte letteralmente troppo bestial cosa riuscivano; e non potendolo leggere nel testo, lo lasciai stare. Cosí in questo assiduo studio ingratissimo, e di poco utile oramai per me, che spossato non producea piú quasi nulla, c'impiegai quasi che un anno e mezzo. Alcune rime intanto andava anche scrivendo, e le satire crebbero in tutto il '96, fino a sette di numero. Quell'anno '96 funesto all'Italia per la finalmente eseguita invasione dei francesi che da tre anni tentavano, mi abbuiò sempre piú l'intelletto, vedendomi rombar sovra il capo la miseria e la servitú. Il Piemonte straziato, già già mi vedea andare in fumo l'ultima mia sussistenza rimastami. Tuttavia preparato a tutto, e ben risoluto in me stesso di non accattar mai né servire, tutto il di meno di queste due cose lo sopportava con forte animo, e tanto piú mi ostinava allo studio, come sola degna diversione a sí sozzi e noiosi fastidi. Nel Misogallo, che sempre andava crescendo, e che anche ornai d'altre prose, io aveva riposto la mia vendetta e quella della mia Italia; e porto tuttavia ferma speranza, che quel libricciuolo col tempo gioverà all'Italia, e nuocerà alla Francia non poco. Sogni e ridicolezze d'autore, finché non hanno effetto; profezie di inspirato vate; allorché poi l'ottengono. CAPITOLO VIGESIMOQUINTO Per qual ragione, in qual modo, e con quale scopo mi risolvessi finalmente a studiare da radice seriamente da me stesso la lingua greca. Fin dall'anno 1778, quando si trovava meco in Firenze il carissimo amico Caluso, io cosí, per ozio, e curiosità leggierissima, mi era fatto scrivere da lui sur un foglio volante il semplice alfabeto greco, maiuscolo, e minuscolo, e cosí alla peggio imparato a conoscere le lettere, ed anche a nominarle, e non altro. Non ci avea poi badato mai piú per tanti anni. Ora due anni addietro, quando mi posi a leggere le traduzioni letterali, come dissi, ripescai quel mio alfabeto fra i fogli e trovatolo, mi rimisi a raffigurar quelle lettere, e dirne il nome; col solo pensiero di gettare di quando in quando gli occhi, su la colonna del greco, e vedere se mi veniva fatto di raccapezzare il suono di una qualche parola, di quelle che per essere composte e straordinarie, dalla traduzione letterale mi destavano curiosità del testo. Ed io veramente guardava di tempo in tempo quei caratteri posti a colonna, con occhio bieco, e fremente, appunto come la volpe della favola guardava i proibiti grappoli invano sospirati. Mi si aggiungeva un fortissimo ostacolo fisico; che le mie pupille non volean saper niente di quel maledetto carattere; e foss'egli grande o piccolo, sciolto o legato, mi venivano le traveggole tosto ch'io lo fissava, e con molta pena compitando ne portava via una parola per volta, delle brevi; ma un verso intero non lo potea né leggere, né fissare, né pronunziare, né molto meno ritenerne materialmente la romba a memoria. Oltre ciò, per natura nemico e non dotato di nessuna facilità per le lingue (avendo tentato due volte e tre l'inglese, né mai venutone a capo; ed ultimamente in Parigi nel '90 prima d'ire in Inghilterra la quarta volta; e tradussi allora di Pope il Windsor e cominciai il Saggio su l'uomo) non assuefatto, e oramai incapace di applicazione servile di occhio e di mente grammaticale; venuto a tale età senza aver mai saputa una grammatica qualunque, neppur l'italiana, nella quale non errava forse oramai, ma per abitudine del leggere non per poter dare né ragione né nomi dell'operato; con questo bel corredo d'impedimenti fisici e morali, tediato dal leggere quelle traduzioni, presi con me stesso l'impegno di voler tentare di superarli da me; ma non ne volli parlare con chi che sia, neppure con la mia donna, che è tutto dire. Consumati avendo dunque già due anni su i confini della Grecia, senza mai essermivi potuto introdurre altro che colla coda dell'occhio, mi irritai, e la volli vincere. Comprate dunque grammatiche a iosa, prima nelle greco-latine, poi nelle greche sole, per far due studi in uno, intendendo e non intendendo, ripetendo tutti i giorni il tupto, e i verbi circonflessi, e i verbi in mi (il che presto svelò il mio arcano alla signora, che vedendomi sempre susurrar fra le labbra, volle finalmente sapere, e seppe quel ch'era); ostinandomi sempre piú, sforzando e gli occhi, e la mente, e la lingua, pervenni in fine dell'anno 1797 a poter fissare qualunque pagina di greco, qualunque carattere prosa o verso, senza che gli occhi mi traballassero piú; ad intendere sempre benissimo il testo, facendo il contrario su la colonna latina, di quel che avea fatto dianzi sul greco, cioè gittando rapidamente l'occhio su la parola latina corrispondente alla greca, se non l'avea mai vista prima, o se me ne fossi scordato; e finalmente a leggere ad alta voce speditamente, con pronunzia sufficiente, rigorosa per gli spiriti, e accenti, e dittonghi come sta scritto, e non come stupidamente pronunziano i greci moderni, che si son fatti senza avvedersene un alfabeto con cinque iota, talché quel loro greco è un continuo iotacismo, un nitrir di cavalli piú che un parlare del piú armonico popolo che già vi fosse. Ed aveva vinto questa difficoltà del leggere, e pronunziare, col mettermi in gola, ed abbaiare ad alta voce, oltre la lezione giornaliera di quel classico che studiava, anche ad altre ore, per due ore continue, ma senza intendere quasi che nulla, attesa la rapidità della lettura, e la romba della sonante alta pronunzia, tutto Erodoto, due volte Tucidide con lo scoliaste suo, Senofonte, tutti gli oratori minori, e due volte il Proclo sovra il Timeo di Platone, non per altra ragione, fuorché per essere di stampa piú scabra a leggersi, piena di abbreviature. Né una tale improba fatica mi debilitò come avrei creduto e temuto, l'intelletto. Che anzi ella mi fece per cosí dire, risorgere dal letargo di tanti anni precedenti. In quell'anno '97, portai le satire al numero di diciassette come sono. Feci una nuova rassegna delle molte e troppe rime, che fatte ricopiare limai. E finalmente, cominciatomi ad invaghire del greco quanto piú mi pareva d'andarlo intendicchiando, cominciai anche a tradurre; prima l'Alceste d'Euripide, poi il Filottete di Sofocle, poi i Persiani di Eschilo, ed in ultimo per avere, o dare un saggio di tutti, le Rane di Aristofane. Né trascurai il latino, perché del greco, che anzi in quell'anno stesso '97 lessi e studiai Lucrezio e Plauto, e lessi il Terenzio, il quale per una bizzarra combinazione io mi trovava aver tradotto tutte le sei commedie a minuto, senza però averne mai letta una intera. Onde se sarà poi vero ch'io l'abbia tradotto, potrò barzellettare col vero, dicendo d'averlo tradotto, prima d'averlo letto, o senza averlo letto. Imparai anche oltre ciò i metri diversi d'Orazio, spinto dalla vergogna di averlo letto, studiato, e saputo direi a memoria, senza saper nulla de' suoi metri; e cosí parimente presi una sufficiente idea dei metri greci nei cori, e di quei di Pindaro, e d'Anacreonte. Insomma in quell'anno '97, mi raccorcii le orecchie di un buon palmo almeno ciascuna; né altro scopo m'era prefisso da tanta fatica, che di scuriosirmi, disasinirmi, e tormi il tedio dei pensieri dei Galli, cioè disceltizzarmi. CAPITOLO VIGESIMOSESTO Frutto da non aspettarsi dallo studio serotino della lingua greca: io scrivo (spergiuro per l'ultima volta ad Apollo) l'Alceste seconda. Non aspettando dunque, né desiderando altro frutto che i sopraddetti, ecco, che il buon padre Apollo me ne volle egli spontaneamente pure accordar uno, e non piccolo, per quanto mi pare. Fin dal '96 quando stava leggendo, com'io dissi, le traduzioni letterali, avendo già letto tutto Omero, ed Eschilo, e Sofocle, e cinque tragedie di Euripide, giunto finalmente all'Alceste, di cui non avea avuta mai notizia nessuna, fui sí colpito, e intenerito, e avvampato dai tanti affetti di quel sublime soggetto, che dopo averla ben letta, scrissi su un fogliolino, che serbo, le seguenti parole. "Firenze 18 gennaio 1796. Se io non avessi giurato a me stesso di non piú mai comporre tragedie, la lettura di questa Alceste di Euripide mi ha talmente toccato e infiammato che cosí su due piedi mi accingerei caldo caldo a distendere la sceneggiatura d'una nuova Alceste, in cui mi prevarrei di tutto il buono del greco, accrescendolo se sapessi, e scarterei tutto il risibile che non è poco nel testo. E da prima cosí creerei i personaggi diminuendoli." E vi aggiunsi i nomi dei personaggi quali poi vi ho posto; né piú pensai a quel foglio. E proseguii tutte l'altre di Euripide, di cui non piú che le precedenti, nessuna mi destò quasi che niun affetto. Tornando poi in volta l'Euripide da rileggersi, come praticava di leggere ogni cosa due volte almeno, venuta l'Alceste, stesso effetto, stesso trasporto, stesso desiderio, e nel settembre dell'anno stesso '96 ne stesi la sceneggiatura, coll'intenzione di non farla mai. Ma intanto aveva intrapresa a tradurre la prima di Euripide, ed in tutto il '97 l'ebbi condotta a termine: ma non intendendo allora, come dissi, punto il greco, l'ebbi per allora tradotta dal latino. Tuttavia quell'aver tanto che fare con codesta Alceste nel tradurla, sempre di nuovo mi andava accendendo di farla di mio; finalmente venne quel giorno, nel maggio '98, in cui mi si accese talmente la fantasia su questo soggetto che giunto a casa dalla passeggiata, mi posi a stenderla, e scrissi d'un fiato il primo atto, e ci scrissi in margine: "Steso con furore maniaco, e lagrime molte"; e nei giorni susseguenti stesi con eguale impeto gli altri quattr'atti, e l'abbozzo dei cori, ed anche quella prosa che serve di schiarimento, e il tutto fu terminato il dí 26 maggio, e cosí sgravatomi di quel sí lungo e sí ostinato parto, ebbi pace; ma non per questo disegnava io di verseggiarla, né di ridurla a termine. Ma nel settembre del '98 continuando, come dissi, lo studio vero del greco, con molto fervore, mi venne pensiero di andare sul testo riscontrando la mia traduzione dell'Alceste prima, per cosí rettificarla, e sempre imparar qualche cosa di quella lingua, che nulla insegna quanto il tradurre, a chi s'ostina di rendere, o di almeno accennare ogni parola, imagine, e figura del testo. Rimpelagatomi dunque nell'Alceste prima, mi si riaccese per la quarta volta il furor della mia, e presala, e rilettala, e pianto assai, e piaciutami, il dí 30 settembre '98 ne cominciai i versi, e furon finiti anche coi cori verso il di 21 ottobre. Ed ecco in qual modo io mi spergiurai dopo dieci anni di silenzio. Ma tuttavia, non volendo io essere né plagiario né ingrato, e riconoscendo questa tragedia esser pur sempre tutta di Euripide, e non mia, fra le traduzioni l'ho collocata, e là dee starsi, sotto il titolo di Alceste seconda, al fianco inseparabile dell'Alceste prima sua madre. Di questo mio spergiuro non avea parlato con chi che sia, neppure alla metà di me stesso. Onde mi volli prendere un divertimento, e nel decembre invitate alcune persone la lessi come traduzione di quella di Euripide, e chi non l'avea ben presente, ci fu colto fin passato il terz'atto; ma poi chi se la rammentava svelò la celia, e cominciatasi la lettura in Euripide, si terminò in me. La tragedia piacque; ed a me come cosa postuma non dispiacque; benché molto ci vedessi da torre e limare. Lungamente ho narrato questo fatto, perché se quell'Alceste sarà col tempo tenuta per buona, si studi in questo fatto la natura spontanea dei poeti d'impeto, e come succede che quel che vorrebbero fare talvolta non riescono, e quel che non vorrebbero si fa fare e riesce. Tanto è da valutarsi e da obbedirsi l'impulso naturale febeo. Se poi non è buona, riderà il lettore doppiamente a mie spese sí nella Vita che nell'Alceste, e terrà questo capitolo come un'anticipazione su l'epoca quinta da togliersi alla virilità, e regalarsi alla vecchiaia. Queste due Alcesti saputesi da alcuni in Firenze, svelarono anche il mio studio di greco, che avea sempre occultato a tutti; perfino all'amico Caluso; ma egli lo venne a sapere nel modo che dirò. Aveva mandato verso il maggio di quest'anno un mio ritratto, bel quadro molto ben dipinto dal pittore Saverio Fabre, nato in Montpalieri, ma non perciò punto francese. Dietro a quel mio ritratto, che mandava in dono alla sorella, aveva scritto due versetti di Pindaro. Ricevuto il ritratto, graditolo molto, visitatolo per tutti i lati, e visti da mia sorella que' due scarabocchini greci, fece chiamare l'amico anche suo Caluso, che glie li interpretasse. L'abate conobbe da ciò che io aveva almeno imparato a formare i caratteri; ma pensò bene che non avrei fatta quella boriosa pedanteria e impostura di scrivere un'epigrafe che non intendessi. Onde subito mi scrisse per tacciarmi di dissimulatore, di non gli aver mai parlato di questo mio nuovo studio. Ed io allora replicai con una letterina in lingua greca, che da me solo mi venne raccozzata alla meglio, di cui darò qui sotto il testo e la traduzione(13), e ch'egli non trovò cattiva per uno studente di cinquant'anni, che da un anno e mezzo circa s'era posto alla grammatica; ed accompagnai con la epistoluzza greca, quattro squarci delle mie quattro traduzioni, per saggio degli studi fatti sin a quel punto. Ricevuto cosí da lui un po' di lode, mi confortai a proseguire sempre piú caldamente. E mi posi all'ottimo esercizio, che tanto mi avea insegnato sí il latino che l'italiano, di imparare delle centinaia di versi di piú autori a memoria. Ma in quello stess'anno '98, mi toccò in sorte di ricevere e scrivere qualche lettera da persona ben diversa in tutto dall'amico Caluso. Era, come dissi, e come ognun sa, invasa la Lombardia dai francesi, fin dal '96, il Piemonte vacillava, una trista tregua sotto nome di pace avea fatta l'imperatore a Campoformio col dittator francese; il papa era traballato, ed occupata e schiavi-democrizzata la sua Roma; tutto d'ogni intorno spirava miseria, indegnazione, ed orrore. Era allora ambasciatore di Francia in Torino, un Ginguené, della classe, o mestiere dei letterati in Parigi, il quale lavorava in Torino sordamente alla sublime impresa di rovesciare un re vinto e disarmato. Di costui ricevei inaspettatamente una lettera, con mio grande stupore, e rammarico; sí la proposta che la risposta; e la replica e controreplica inserisco qui a guisa di nota(14), affinché sempre piú si veda, chi ne volesse dubitare, quanto siano state e pure e rette le mie intenzioni ed azioni in tutte codeste rivoluzioni di schiaveria. Pare dall'andamento di queste due lettere del Ginguené che avendo egli ordine dai suoi despoti di asservire alla libertà francese il Piemonte, e cercando di sí fatta iniquità dei vili ministri, egli mi volesse tastar me per vedere se mi potevan anco disonorare, come mi aveano impoverito. Ma i beni mondani stanno a posta della tirannide, e l'onore sta a posta di ciascuno individuo che ne sia possessore. Quindi dopo la mia seconda replica non ne sentii piú parlare; ma credo che costui si servisse poi della notizia che l'abate Caluso gli diede per parte mia, circa alle balle mie di libri non pubblicati, per farne ricerca, e valersene come in appresso si vedrà. La nota dei miei libri ch'egli dicea volermi far restituire e ch'io credo che già tutti se li fosse appropriati a sé, sarebbe risibile se io qui la mostrassi. Ella era di circa cento volumi di tutti gli scarti delle piú infime opere italiane; e questa era la mia raccolta lasciata in Parigi sei anni prima, di circa mille seicento volumi almeno; scelti tutti i classici italiani, e latini. Ma nessuno se ne stupirebbe di una tal nota, quando sapesse ch'ella dovea essere una restituzione francese. CAPITOLO VIGESIMOSETTIMO Misogallo finito. Rime chiuse colla Teleutodia. L'Abele ridotto; cosí le due Alcesti, e l'Ammonimento. Distribuzione ebdomadaria di studi. Preparato cosí, e munito delle lapidi sepolcrali, aspetto l'invasion dei francesi, che segue nel marzo '99. Cresceva frattanto ogni dí piú il pericolo della Toscana, stante la leale amicizia che le professavano i francesi. Già fin dal decembre del '98 aveano essi fatta la splendida conquista di Lucca, e di là minacciavano continuamente Firenze, onde ai primi del '99 parea imminente l'occupazione. Io dunque volli preparare tutte le cose mie, ad ogni qualunque accidente fosse per succedere. Fin dall'anno prima avea posto fine per tedio al Misogallo, e fatto punto all'occupazione di Roma, che mi pareva la piú brillante impresa di codesta schiaveria. Per salvare dunque quest'opera per me cara ed importante, ne feci fare sino in dieci copie, e provvisto che in diversi luoghi non si potessero né annullare, né smarrire, ma al suo debito tempo poi comparissero. Quindi, non avendo io mai dissimulato il mio odio e disprezzo per codesti schiavi malnati, volli aspettarmi da loro ogni violenza, ed insolenza, cioè prepararmi bene al solo modo che vi sarebbe di non le ricevere. Non provocato, tacerei; ricercato in qualunque maniera, darei segno di vita, e di libero. Disposi dunque tutto per vivere incontaminato, e libero, e rispettato, ovvero per morir vendicato se fosse bisognato. La ragione che mi indusse a scrivere la mia vita, cioè perché altri non la scrivesse peggio di me, mi indusse allora altresí a farmi la mia lapide sepolcrale, e cosí alla mia donna, e le apporrò qui in nota(15), perché desidero questa e non altra, e quanto ci dico è il puro vero, sí di me, che di lei, spogliato di ogni fastosa amplificazione. Provvisto cosí alla fama, o alla non infamia, volli anco provvedere ai lavori, limando, copiando, separando il finito dal no, e ponendo il dovuto termine a quello che l'età e il mio proposto volevano. Perciò volli col compiere degli anni cinquanta frenare, e chiudere per sempre la soverchia fastidiosa copia delle rime, e ridottone un altro tometto purgato consistente in sonetti settanta, capitolo uno, e trentanove epigrammi, da aggiungersi alla prima parte di esse già stampate in Kehl, sigillai la lira, e la restituii a chi spettava, con una ode sull'andare di Pindaro, che per fare anche un po' il grecarello intitolai Teleutodía. E con quella chiusi bottega per sempre; e se dopo ho fatto qualche sonettuccio o epigrammuccio, non l'ho scritto; se l'ho scritto non l'ho tenuto, e non saprei dove pescarlo, e non lo riconosco piú per mio. Bisognava finir una volta e finire in tempo, e finire spontaneo, e non costretto. L'occasione dei dieci lustri spirati, e dei barbari antilirici soprastantimi non potea esser piú giusta ed opportuna; l'afferrai, e non ci pensai poi mai piú. Quanto alle traduzioni, il Virgilio mi era venuto ricopiato e corretto tutto intero nei due anni anteriori, onde lo lasciava sussistere; ma non come cosa finita. Il Sallustio mi parea potere stare; e lasciavalo. Il Terenzio no, perché una sola volta lo avea fatto, né rivistolo, né ricopiatolo; come non lo è adesso neppure. Le quattro traduzioni dal greco, che condannarle al fuoco mi doleva, e lasciarle come cosa finita pur non poteva, poiché non l'erano, ad ogni rischio del se avrei il tempo o no, intrapresi di ricopiarle sí il testo che la traduzione, e prima di tutto l'Alceste per ritradurla veramente dal greco, che non mi sapesse poi di traduzione di traduzione. Le tre altre bene o male, erano state direttamente tradotte dal testo, onde mi dovean costar poi meno tempo e fatica a correggerle. L'Abele, che era ormai destinata ad essere (non dirò unica) ma sola, senza le concepite, e non mai eseguite compagne, l'avea fatta copiare, e limata, e mi parea potere stare. Vi si era pure aggiunto alle opere di mio, negli anni precedenti una prosuccia brevina politica, intitolata Ammonimento alle potenze italiane; questa pure l'avea limata, e fatta copiare, e lasciavala. Non già che io avessi la stolida vanagloria di voler fare il politico, che non è l'arte mia; ma si era fatto fare quello scritto dalla giusta indegnazione che mi aveano inspirata le politiche certo piú sciocche della mia, che in questi due ultimi anni avea visto adoprare dalla impotenza dell'imperatore, e dalle impotenze italiane. Le satire finalmente, opera ch'io avea fatta a poco a poco, ed assai corretta, e limata, le lasciava pulite, e ricopiate in numero di diciassette quali sono; e quali pure ho fissato e promesso a me di non piú oltrepassare. Cosi disposto, e appurato del mio secondo patrimonio poetico, smaltatomi il cuore, aspettava gli avvenimenti. Ed affinché al mio vivere d'ora in poi se egli si dovea continuare venissi a dare un sistema piú confacente all'età in cui entrava, ed ai disegni ch'io mi era già da molto tempo proposti, fin dai primi del '99 mi distribuii un modo sistematico di studiare regolarmente ogni settimana, che tuttora costantemente mantengo, e manterrò finch'avrò salute e vita per farlo. Il lunedí e martedí destinati, le tre prime ore della mattina appena svegliatomi, alla lettura, e studio della Sacra Scrittura; libro che mi vergognava molto di non conoscere a fondo, e di non averlo anzi mai letto sino a quell'età. Il mercoledí e giovedí, Omero, secondo fonte d'ogni scrivere. Il venerdí, sabato, e domenica, per quel prim'anno e piú li consecrai a Pindaro, come il piú difficile e scabro di tutti i greci, e di tutti i lirici di qualunque lingua, senza eccettuarne Giobbe, e i profeti. E questi tre ultimi giorni mi proponeva poi, come ho fatto, di consecrarli successivamente ai tre tragici, ad Aristofane, Teocrito, ed altri sí poeti che prosatori, per vedere se mi era possibile di sfondare questa lingua, e non dico saperla (che è un sogno), ma intenderla almeno quanto fo il latino. Ed il metodo che a poco a poco mi andai formando, mi parve utile; perciò lo sminuzzo, che forse potrà anche giovare cosí, o rettificato, a qualch'altri che dopo me intraprendesse questo studio. La Bibbia la leggeva prima in greco, versione dei Settanta, testo vaticano, poi la raffrontava col testo alessandrino; quindi gli stessi due, o al piú tre capitoli di quella mattina, li leggeva nel Diodati italiani, che erano fedelissimi al testo ebraico; poi li leggeva nella nostra volgata latina, poi in ultimo nella traduzione interlineare fedelissima latina dal testo ebraico; col quale bazzicando cosí piú anni, ed avendone imparato l'alfabeto, veniva anche a poter leggere materialmente la parola ebraica, e raccapezzarne cosí il suono, per lo piú bruttissimo, ed i modi strani per noi, e misti di sublime e di barbaro. Quanto poi ad Omero, leggeva subito nel greco solo ad alta voce, traducendo in latino letteralmente, e non mi arrestando mai, per quanti spropositi potessero venirmi detti, quei sessanta, o ottanta, o al piú piú cento versi che volea studiare in quella mattina. Storpiati cosí quei tanti versi, li leggeva ad alta voce prosodicamente in greco. Poi ne leggeva lo scoliaste greco, poi le note latine del Barnes, Clarch, ed Ernesto; poi pigliando per ultima la traduzione letterale latina stampata, la rileggeva sul greco di mio, occhiando la colonna, per vedere dove, e come, e perché avessi sbagliato nel tradurre da prima. Poi nel mio testo greco solo, se qualche cosa era sfuggita allo scoliaste di dichiararla, la dichiarava io in margine, con altre parole greche equivalenti, al che mi valeva molto di Esichio, dell'Etimologico, e del Favorino. Poi le parole, o modi, o figure straordinarie, in una colonna di carta le annotava a parte, e dichiaravale in greco. Poi leggeva tutto il commento di Eustazio su quei dati versi, che cosí m'erano passati cinquanta volte sotto gli occhi, loro, e tutte le loro interpretazioni, e figure. Parrà questo metodo noioso, e duretto; ma era duretto anch'io, e la cotenna di cinquanta anni ha bisogno di ben altro scarpello per iscolpirvi qualcosa, che non quella di venti. Sopra Pindaro poi, io aveva già fatto gli anni precedenti uno studio piú ancora di piombo, che i sopradetti. Ho un Pindaretto, di cui non v'è parola, su cui non esista un mio numero aritmetico notatovi sopra, per indicare, coll'un due e tre, fino talvolta anche a quaranta, e piú, qual sia la sede che ogni parola ricostruita al suo senso deve occupare in que' suoi eterni e labirintici periodi. Ma questo non mi bastava, ed intrapresi allora nei tre giorni ch'io gli destinai, di prendere un altro Pindaro greco solo, di edizione antica, e scorrettissimo, e mal punteggiato, quel del Calliergi di Roma, primo che abbia gli scolii, e su quello leggeva a prima vista, come dissi dell'Omero, subito in latino letteralmente sul greco, e poi la stessa progressione che su l'Omero; e di piú poi in ultimo una dichiarazione marginale mia in greco dell'intenzione dell'autore; cioè il pensiero spogliato del figurato. Cosí poi praticai su l'Eschilo e Sofocle, quando sottentrarono ai giorni di Pindaro; e con questi sudori, e pazze ostinazioni, essendomisi debilitata da qualch'anni assai la memoria, confesso che ne so poco, e tuttavia prendo alla prima lettura dei grossissimi granchi. Ma lo studio mi si è venuto facendo sí caro, e sí necessario, che già dal '96 in poi, per nessuna ragione mai ho smesso, o interrotto le tre ore di prima svegliata, e se ho composto qualche cosa di mio, come l'Alceste, le satire, e rime, ed ogni traduzione, l'ho fatto in ore secondarie, talché ho assegnato a me stesso l'avanzo di me, piuttosto che le primizie del giorno; e dovendo lasciare, o le cose mie, o lo studio, senza nessun dubbio lascio le mie. Sistemato dunque in tal guisa il mio vivere, incassati tutti i miei libri, fuorché i necessari, e mandatili in una villa fuori di Firenze, per vedere se mi riusciva di non perderli una seconda volta, questa tanto aspettata ed abborrita invasione dei francesi in Firenze ebbe luogo il dí 25 marzo del '99, con tutte le particolarità, che ognuno sa, e non sa, e non meritano d'essere sapute, sendo tutte le operazioni di codesti schiavi di un solo colore ed essenza. E quel giorno stesso, poche ore prima ch'essi v'entrassero, la mia donna ed io ce n'andammo in una villa fuor di Porta San Gallo presso a Montughi, avendo già prima vuotata interamente d'ogni nostra cosa la casa che abitavamo in Firenze per lasciarla in preda agli oppressivi alloggi militari. CAPITOLO VIGESIMOTTAVO Occupazioni in villa. Uscita dei francesi. Ritorno nostro in Firenze. Lettere del Colli. Dolore mio nell'udire la ristampa prepararsi in Parigi delle mie opere di Kehl, non mai pubblicate. In tal maniera
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