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Info sull'Opera
Autore:
Emilio De Marchi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Demetrio Pianelli (V Parte,1 )

di Emilio De Marchi

ALLE CASCINE

I

Son passati molti giorni dalla partenza di Beatrice da Milano. Con lei sono andati i maschietti e la casa è chiusa. Arabella, per non perdere il vantaggio delle scuole, resterà a Milano, in casa dei Grissini fino ai primi di agosto.
Alle Cascine sono in moto a imbiancare, a raccomodare, a far belle le stanze degli sposi.
Demetrio ha desiderato che gli lasciassero Giovedí a fargli compagnia e ora, nelle lunghe giornate vuote, si occupa a vendere ciò che non potrebbe portar via, a radunare quattro soldi per il viaggio, a mettere insieme una valigia di roba, a stendere un resoconto delle spese fatte co' suoi e coi denari degli altri.
È una vera liquidazione in piena regola. Il suo libretto di risparmio è sfumato, e non resta a sperare se non che gli angeli registrino il suo credito nel libro d'oro delle buone opere, che si scontano in paradiso.
Frugando e rifrugando nella vecchia guardaroba, gli venne tra le mani anche un involto dimenticato pieno di polvere. Lo svolse e vide che erano gli abiti del povero Cesarino, come glieli avevano portati a casa una sera dall'Ospedale, con un paio di scarpette da ballo raggrinzate dall'umido.
Sciolse la roba, la sciorinò all'aria, facendo ballare le due gambe dei calzoni di panno gualcito, crollandovi sopra il capo fin troppo stanco di far riflessioni sulle cose di questo mondo birbone.
Non volendo speculare sulla miseria umana, diede la roba a Giovann dell'Orghen, a cui ogni cosa andava bene, cercando di spremere da tante miserie qualche sugo di carità.
Giugno fu lungo e caldo. Lunghe e calde tennero dietro le giornate di luglio, fatte ancora piú lunghe dalle notti brevi e poco dormite. Il suo cuore si faceva sentire con piccole punture, e spesso egli doveva mettersi a sedere sul letto per respirare una boccata d'aria notturna, che entrava dalle finestre aperte.
Paolino gli scriveva spesso per dargli cento commissioncelle. Ora si trattava dei materassi, ora di una Madonna da collocare in capo al letto, o di piccole altre operazioni di ufficio, tra cui bisognò cercare subito anche l'atto di morte di Cesarino.
Demetrio non si rifiutò di rendere questi piccoli servigi. Egli tornava volentieri il cammello di casa, un cammello un po' stanco, ma sempre disposto a portare i fastidi degli altri. Veramente questa volta si trattava di consolazioni e di felicità; ma è un peso anche il portare la felicità degli altri.
Nelle ore disoccupate andava a spasso, o ai giardini pubblici, a rimirare i cigni del laghetto, e i bei fagiani in gabbia, o a studiare storia naturale in faccia alle bestie del Museo. Oppure scendeva lungo i bastioni a contemplare le costruzioni nuove dei sobborghi e i grandi quartieri che spuntano come funghi in questa Milano, dove il nuovo divora l'antico.
Case nuove, miserie nuove! egli sarebbe andato cosí volentieri in cima a una montagna!
Evitava di passare per le strade, che potevano suscitare in lui tristi ricordanze, o dove supponeva di poter incontrare un compagno d'ufficio. Quella parte di Milano che sta tra il Carrobio, il Bocchetto e la piazza del Duomo era come se non esistesse piú nella sua topografia. Si abituava già a considerarla come lontana, perduta, sprofondata.
Cosí il cuore stava zitto e cosí poteva dormire la notte.
Quando Paolino gli scrisse che faceva conto sul migliore de' cugini per avere un testimonio all'altare, rispose che non poteva accettare. Lo sposo tornò a insistere: egli si scusò col dire che lo spettacolo di un matrimonio lo commoveva troppo. Mise davanti anche qualche ragione di ufficio, magra scusa che non poteva persuadere nessuno; ma non accettò, a nessun patto.
In quanto a Beatrice la sua storia è ancora piú semplice. A Chiaravalle, colla prospettiva del famoso campanile davanti agli occhi, colla vista aperta dei prati che sembrano uno smeraldo nel vivo sole d'estate, con un giardinetto pieno di fiori, coi frequenti inviti della buona Carolina, ingegnosa nell'inventare nuovi regali e dolci sorprese, si capisce che la vita della povera vedova dovesse scorrere liscia come l'olio. I ragazzi avevano trovata l'America, e stavano tutto il giorno nei mucchi del fieno, nei campi o sulle cascine. Qualche volta essa faceva una scappata a Milano, dove aveva lasciata la roba, per vedere la sarta, per comperare un capo di biancheria.
Bassano la conduceva in carrozza e si fermava davanti alle botteghe. I commessi di negozio correvano ad aprire la porta, e colla carrozza piena di scatole e di cartocci essa tornava a casa qualche volta senza veder Arabella.
Aveva accettato di fare quel passo per il vantaggio de' suoi figliuoli: tutte le condizioni erano buone e favorevoli. Perché non avrebbe dovuto approfittarne? Paolino non poteva essere piú gentile, piú delicato, piú affezionato di cosí. Tra i regali che le aveva fatto c'era una spilla col ritratto miniato del povero Cesarino, tolto da una fotografia, ch'egli accompagnò con queste parole: Io sarò il padre de' suoi figliuoli.
L'aria libera, la buona vita sostenuta dalla contentezza, finirono col dare l'ultima mano a una bellezza già sul maturare, forse non troppo agile, né troppo delicata per un occhio cittadino, ma procedente balda e trionfante alla conquista di un ampio possesso.
L'indole lenta e pacifica, adattata al genere di vita che stava per offrirle il nuovo marito, si manifestò subito in questa seconda aurora della sua felicità, in un'aria consolata e riposata, che traspariva dal cristallo nitido de' suoi occhi di bambola, dai movimenti, dalle parole. Aveva trepidato all'idea di maritarsi a Milano la prima volta; nella compagnia nervosa di Cesarino ella aveva riportati trionfi faticosi e difficili: in Milano aveva trovato la passione, le spine e la croce. Benedetta la mano che la riconduceva nell'aria nativa, in una casa senza muri, in un'abbondanza senza confini, dove i pensieri non costano niente, dove i desiderii son sempre pagati, dove la mortificazione diventa quasi un piacere.
Le settimane passavano come un incanto nella quieta aspettativa d'un avvenire chiaro, ma senza noiosi splendori, nella pace silenziosa dei prati, che mandavano già qualche profumo del fieno agostano, nel dolce e sicuro riposo, che aggiusta le ossa e riconcilia coll'esistenza. Dalla sua finestra, stando in letto, essa vedeva tutto quel gran verde fino alla strada provinciale che biancheggia nel mezzo. Non era piú il rumore assordante e faticoso della città, ma una quiete deliziosa, immensa, non rotta che da qualche gallina chiocciante e dal ronzare degli insetti.
Il dottor Fiore di Chiaravalle abitava nella medesima casa. Vecchio forte, sui sessant'anni, con una barba che pareva una spuma, s'era offerto a Paolino come cavalier servente e guardia del corpo. Accompagnava volentieri la sposina alle Cascine; veniva a tenerle compagnia la sera e si permetteva con un sorriso malizioso, che si perdeva nella barba, di darle anche qualche consiglio pratico sulla condotta che una sposa giovane, bella e vedova deve tenere con un marito un po' troppo nuovo.
Anche don Giovanni, il vecchio curato, non nascondeva la sua soddisfazione morale d'aver acquistata una nuova pecorella. Se la incontrava sulla piazza della chiesa o in una strada, non risparmiava di congratularsi del suo bell'aspetto, di chiedere notizia di tutta quanta la famiglia, di Paolino, di Mario, di Naldo, della Carolina, del signor Demetrio - che non si lasciava piú vedere.
Si fermava coi piedi nell'erba o nel fango a strologare il tempo verso Milano, verso Lodi, verso il Varesotto, colla presa di tabacco nelle dita, senza risolversi mai a fiutarla, non risparmiando le notizie storiche sull'abbazia e sui monaci di Chiaravalle, ai quali dobbiamo il bonificamento delle terre e il primo incanalamento delle acque, con altre notizie sul famoso campanile, da dove, narra la storia, Francesco I, re di Francia, assistette alla celebre battaglia di Marignano, vinta dal maresciallo Gian Giacomo Triulzi, che riposa nell'atrio di San Nazzaro, dove è scritto: Qui numquam quievit quiescit...
Il buon pastore non avrebbe mai finito di istruire la sua pecorella. Un giorno, tra le altre cose, tradí anche un segreto.
«Non è un segreto di confessione e posso dirlo. Sa che il signor Paolino è stato anche da me a chiedere un consiglio e che una volta mi ha portato anche una certa lettera? In quella lettera c'è una frase che non è del signor Paolino. A lei a indovinare!» e fiutato il grosso spolvero, scappò via ridendo verso la canonica.
Chi mandava razzi di gioia da tutti i pori era - e lo si capisce - il sor Isidoro Chiesa di Melegnano, il padre della sposa, uomo libero, che non si vendeva né per trenta, né per quaranta. Fu l'ultimo a sapere la notizia del matrimonio, perché il sor Isidoro era temuto anche alle Cascine come lo spauracchio. Ma, appena parve necessario metterlo a parte del segreto, fu come se egli l'avesse saputo cent'anni prima di venire al mondo.
Nessuno avrebbe tolto dalla testa a un Chiesa di Melegnano che quel matrimonio l'aveva pensato e combinato lui fin dal principio, e cominciò a sonare la tromba nelle orecchie della gente. Paolino delle Cascine era noto nei dintorni come un uomo ben provveduto, per ciò il vecchio fantastico poté vantarsi che un Chiesa non si perdeva nella polvere. A lasciarlo dire, egli non era soltanto il padre di sua figlia - la piú bella donna, sans dire, della provincia di Milano - ma quasi anche Paolino lo aveva fatto lui.
Se Paolino aveva due bellissimi puledri, chi glieli aveva fatti comperare? Se aveva potuto guadagnare cinque lire e mezzo per fascio sul fieno, chi aveva dato un consiglio a tempo? Isidoro Chiesa, uomo libero... Ora sí che l'avrebbero sentito i signori della procura generale, i signori della greppia!
Molti avevano dubitato di un Chiesa, molti avevano detto ch'era uno spiantato o un mezzo matto: molti avevano creduto che un Isidoro Chiesa si lasciasse menar via dal Lambro. Viveva a Milano qualcuno, il quale aveva osato dire una volta che il signor Isidoro Chiesa di Melegnano era un gran buon uomo... Ecco venuto il giorno di vedere chi era un Chiesa di Melegnano.
Sotto il sole cocente di luglio, sull'ora fresca del pomeriggio, il caro suocero, mandando lampi dalle vetriate, col suo passo zoppo ed il suo bastone bistorto in ispalla, soleva tre o quattro volte per settimana fare una visita al suo buon figliuolo delle Cascine.
Veniva per la via corta dei prati col naso rivolto verso le Cascine, come un bracco che fiutava la preda, entrava nella corte, si asciugava la fronte, il collo, il naso, gli occhiali grondanti, tirava un fiato, tracannava una tazza di latte e piú volentieri una bottiglia di quel vino dolce che sappiamo, e fatto sedere Paolino, cominciava sempre da capo la storia del suo famoso capitolato di ottantamila lire che l'Ospedale gli doveva sacrosante, com'è vero che un Isidoro Chiesa ha ricevuto il santo battesimo... Egli era salito sul fondo di Melegnano l'anno 1856... ai tanti di novembre... cose vecchie: ma Paolino doveva aiutarlo.
Lo lasciavan dire, scappando un po' per uno: non c'era altro rimedio. Parigi vale una messa - ha detto un celebre re di Francia -: Beatrice valeva questa messa cantata. La buona Carolina non aveva che un rimedio per farlo tacere e non risparmiava mai di metterlo in pratica, quando la testa stava per iscoppiare.
Fatti saltare in un tegame quattro ettogrammi di lombo con salsa di pomidoro, tirava il vecchio lupo affamato a sedere, mettendogli davanti insieme al tegame un pane di una libbra, uno stracchino intero e un fiasco di vernaccia dolce. Sazio e gonfio come un boa, il vecchio finiva sempre coll'addormentarsi sulla sedia, in mezzo a un nugolo di mosche, a cui non dispiace l'unto. Quando si rivegliava, di solito si ritrovava di nuovo a Melegnano, in casa sua, come se durante il sonno lo avesse trasportato in aria il carro del profeta Elia.

Paolino continuava ad essere un uomo felice, quantunque cominciasse ad accorgersi che a questo mondo non ci sono soltanto rose sulle siepi e anche le rose piú belle hanno le spine.
Punto primo: il sindaco mise avanti qualche difficoltà per celebrare il matrimonio civile in agosto, dimostrando, coll'atto mortuario di Cesarino in una mano e coll'articolo 57 del Codice Civile nell'altra, che una vedova non può rimaritarsi prima che siano trascorsi i dieci mesi dallo scioglimento del primo matrimonio.
Seccato da questo contrattempo e non troppo contento neppure delle risposte che gli scriveva Demetrio, dubitando quasi che costui avesse un motivo per essere in collera - la Carolina l'aveva sempre conosciuto per un ragazzo permaloso e testardo - pensò di parlargli a voce, di fargli presente il suo caso, di leggergli il segreto negli occhi.
Non avendo troppo tempo da disporre, andò direttamente dove era sicuro di trovarlo, cioè all'ufficio, e chiese di lui al vecchio Caramella, che stava leggendo in anticamera.
«El non c'è piú» rispose il portiere col tono rigido d'un critico che sa quel che dice, senza togliere gli occhi dal giornale che aveva nelle mani.
«Dov'è?»
«So io dove l'è? qui non c'è piú, dunque....»
«Perché non c'è piú?»
«Perché l'è stato sospeso dall'impiego.»
«Sospeso? quando?»
«Ch'el me lasci passare.»
Lo squillo d'un campanello chiamava con insistenza, e il vecchio rustico scomparve dietro un uscio.
Paolino se ne venne via lentamente, ripetendo ad ogni gradino della scala:
"O bella, o bella, o bella."
Quando fu in fondo, capí di non aver capito niente, e, non volendo andarsene cosí, tornò di sopra, aspettò che il Caramella tornasse in anticamera, lo tirò in disparte, e, facendogli scivolare nella mano un biglietto da due lire, gli chiese sottovoce:
«Ho bisogno di sapere com'è stata questa faccenda.»
La goccia d'olio fece subito il suo effetto.
«Caro lei,» disse il vecchietto con una voce meno arrugginita, in un italiano piú di confidenza, «c'è stato del ciar e scur, un benedetto omm!»
«Con chi?»
Il Caramella si guardò un momento intorno e, tirando con una insolita affabilità il signor fittabile (lo giudicò subito per tale) in un andito piú scuro, abbassando le palpebre sugli occhi, prese a dire sottovoce:
«L'è sempre la storia che el pesce grosso el mangia el piscinin. Il signor qui... il mio capo... sa... il cavaliere... il commendatore...» e indicava un uscio dietro di sé, movendo il pollice dietro la spalla «l'è una brava persona, ma el g'ha il suo lato debole, ghe piacciono un poco le donnette... Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra.» Il Caramella citò il testo con grande serietà. «Pare che tra lui e il Pianelli ci fosse un qui pro quo, mi capisce? a proposito di una sua cognata, alla quale il qui... (e indicava l'uscio) el ghe faceva, pare, gli occhi del gatto. Io poi non so, la contano in mille maniere, ci sarebbe stato di mezzo anche un braccialetto, per conseguenza; ma chi le sa queste cose?.. il... qui intendeva di pagare il conto, il Pianelli non ne voleva sapere, e, tira molla, se ne son dette un sacco in ufficio, che non ci sta nemmeno per la dignità del funzionario. Il Pianelli gridava come un disperato, avrà avuto le sue ragioni: l'altro, naturale, si è o non si è superiori, e detto fatto el me ciappa la penna, el te me scrive al Ministero, e in quattro e quattr'otto te me lo confezionano a Grossetto nel napoletano. Conosco da un pezzo il Pianelli e, dininguardi! so come la pensa: è un po' ostinato anche lui nelle sue idee, ti e mur, ma metterei la mano nel fuoco, figurarsi! Ma intanto chi ha avuto ha avuto. Questa l'è la favola, caro el mio signore.»
Il Caramella strinse le labbra, cacciò indietro le gomita, aprí le mani come due ventagli e lasciò che "quel signore" tirasse lui la morale della favola.
Paolino, a intendere queste novità, rimase un momento a bocca aperta, coll'aria goffa del campagnolo che vede per la prima volta il santo Duomo. Balbettò qualche monosillabo, e, tirando la parola colle corde, dimandò:
«Questa cognata, è forse....»
«Dev'essere una donna del buon tempo. Prima ha fatto ammazzare il marito, adesso fa perdere l'impiego al cognato. Ci dicono la bella pigotta....»
«La bella....»
«L'è sempre la storia del cherchè la fam. Questi uomini hanno passata l'età del giudizio e devono aver cambiati anche i primi denti: ma ha cominciato Adamo a sbagliare il primo bottone (e sí che non era vestito) e sarà sempre cosí.»
Il Caramella cominciava a ridere del suo riso amaro di critico incontentabile, quando un altro squillo di campanello lo chiamò nella stanza del commendatore.
«Vado, mi chiama il qui...» disse e sparí.
Paolino discese per la seconda volta le scale, non vedendo davanti a sé che una nuvola bianca, col passo vacillante del convalescente che esce per la prima volta di casa dopo un mese di febbre. Colla testa grossa, incapace di concepire, traversò Milano e si trovò per miracolo o per misericordia di Dio sulla porta del cugino in San Clemente.
«Non c'è» disse la portinaia. «Va e viene come un tramvai.»
«Non va piú all'ufficio?»
«Io non so: non ha piú ore.»
Paolino guardò la facciata della casa, come se cercasse un consiglio alle finestre, e, non avendo piú nulla a fare, tornò alle Cascine.
Che viaggio! Chi si raccapezzava? Demetrio, l'impiego, il commendatore, la bella pigotta, la scena in ufficio, erano altrettanti fantasmi che si mescolavano e si connettevano con lo strano contegno del cugino, col suo ostinato rifiuto, colla sua calcolata freddezza, che faceva un vivo contrasto coll'entusiasmo del primo giorno, quando s'era parlato per la prima volta al Numero Cinque in piazza Fontana e che s'era vuotato il primo bicchiere alla salute della sposa.
Demetrio oggi non voleva bere piú del suo vino, rifiutava di assistere ad un'intima cerimonia di famiglia, non si lasciava piú vedere alle Cascine, non apriva la bocca sulla sua disgrazia. Nemmeno Beatrice pareva informata di questa dolorosa faccenda. E la storia di questo braccialetto? che opinione aveva la gente di questa donna? aveva essa ammazzato il primo marito?.. che... che... diavoleria?.. Che Demetrio fosse innamorato anche lui? non pareva possibile, dal momento che l'innamorato era quell'altro... Ma potevano essere innamorati tutti e due. Niente di strano, dal momento che s'era innamorato anche lui alla distanza di quattro miglia. O santi Apostoli! e come la chiamavano a Milano? La bella pigotta? che villania, che scherzo, che scempiaggine! Che tutto quello che era accaduto fin qui fosse uno scherzo di cattivo genere? ch'egli fosse la burletta di quella donna, la quale dopo aver ammazzato un marito volesse sposare un altro per...
O che pensieri! diventava matto a immaginare queste atrocità?...
«Carolina, Carolina» disse, entrando in casa col cappello sul cucuzzolo, cogli occhi strabuffati, col passo dell'uomo che ha perduto il centro di gravità. «Carolina.»
«Che cosa c'è? che cosa è accaduto?» esclamò la sorella, lasciando cadere una matassa di filo che stava dipanando dall'arcolaio.
«Vieni di sopra....»
«Vengo, santa Maria! ma che cosa è accaduto?»
«Taci, non far scene. Chiudi l'uscio» disse Paolino quando furono in camera.
Gettò il cappello sul letto, sedette anche lui sul letto, si asciugò col fazzoletto la testa.
«Ti senti male? parla, in nome di quella benedetta Madonna» pregava la buona sorella, a cui tremavano le gambe in prevenzione.
Paolino, dopo aver soffiato come un mantice, cominciò a raccontare quel che aveva udito a Milano, di Demetrio, del commendatore, di Beatrice, del braccialetto; e, quando gli parve di aver detto tutto, si abbandonò senza fiato sul cuscino.
«È tutto qui?» esclamò Carolina, alzando le mani al cielo. «Credevo che ti avessero rubato il portafogli. Si vede che sei cresciuto sempre in mezzo alle oche. Che caso! Si sa, una bella donna dà sempre da parlare alla gente. Potrebbe essere anche Sant Orsola e ci sarà sempre la lingua che si diverte a mettere male. Che importa a te se a Milano la chiamano come la chiamano? è tutt'invidia che parla.»
«E il braccialetto?»
«Il braccialetto sarà un regaluccio di un adoratore. L'ha forse accettato? Caro mio, se non volevi questi fastidi dovevi contentarti di sposare una donna come le altre....»
«Sei qui colle tue sciocchezze» saltò su a dire Paolino, con un tono aspro e dispettoso, non volendo concedere che la sorella potesse aver ragione su questo argomento.
«Vuoi la donna bella? e allora non bisogna pretendere che la gente si strappi gli occhi dal capo per farti piacere. Il mio povero parere te l'avevo dato....»
«Vuoi finire di fare la Perpetua?»
«Ecco il pagamento d'essermi occupata tanto di te. Non parlo piú.»
«Ma se....»
«Non parlo piú, sta sicuro, anima mia.»
«Tu vuoi sempre....»
«Amen, non mi intrigherò piú.»
E coll'animo punto e addolorato la povera donna scese in cucina a preparare il pranzo. Quando mai qualcuno in quarant'anni l'aveva chiamata Perpetua? Alle Cascine essa era la mamma, la provvidenza, la consigliera ascoltata da tutti e non c'era grosso fastidio in una casa, di cui ella non sapeva sciogliere i gruppi e trovare il capo come in una matassa di filo. Doveva essere proprio lui, Paolino, il suo cuore, il suo cucco, a chiamarla Perpetua! Paolino non era piú il buon ragazzo di una volta: quella donna l'aveva stregato e cambiato di bianco in nero. Sempre inquieto, distratto, stizzoso, rabbioso, insofferente e svogliato negli affari, freddo fin nelle cose di religione, sarebbe stato peggio naturalmente andando avanti. Quel giorno che la signora Beatrice fosse diventata la padrona di casa, il posto della povera Carolina doveva essere dopo la serva, per non dire dopo la scopa.
Questi malinconici pensieri passavano come uno stormo di corvi nell'animo suo, mentre colla mestola in mano davanti al camino aspettava, cogli occhi tuffati nella pentola, che la minestra finisse di cuocere.
A tavola i due fratelli mangiarono di poca voglia e quasi senza parlare. Né, per quanto si voltassero nel letto, ciascuno per le ragioni sue, riuscí la notte a togliersi di dosso le spine che la bella rosa aveva seminato nelle lenzuola.

Demetrio intanto seguitava a vendere.
Non restava quasi piú che il letto per dormire, qualche sedia, i pochi vasi, le gabbie. Le erbe, le lunghe tredescanzie, le piccole edere, i bei ciuffetti di musco languivano di sete, s'impoverivano nella polvere, essiccavano di malinconia come il loro padrone.
La valigia era preparata.
Non potendo portare con sé anche i compagni della sua solitudine, pensò di dare la libertà ai canarini, rendendo cosí felici dal fondo della sua tristezza quelle piccole creature.
Collocò le tre gabbie sul davanzale della finestra, cogli sportelli aperti verso lo spazio e sedette ad aspettare che i canarini si sprigionassero da loro stessi.
Giovedí, che in questi ultimi giorni s'era attaccato al padrone, venne a sedersi accanto, col muso in aria, cogli occhi vaganti ora verso lo zio, ora verso le gabbie.
La giornata di fin di luglio si avvicinava al suo tramonto. Lunghe e taglienti lame d'oro immobili nell'aria immobile mandavano nel lento spegnersi del crepuscolo un chiarore caldo come un riverbero di rame infocato, mentre dai tetti neri e bruciati esalava la vampa di una gran giornata di sole.
Era arrivato il tempo di andarsene. Sentendo ogni giorno, quasi ogni ora, quasi ogni minuto diminuire le ragioni della vita, nel tedioso ozio forzato che somigliava all'inerte agonia di un condannato a morte, Demetrio anticipava di qualche giorno la sua partenza anche per sottrarsi alle insistenze di Paolino, che gli scriveva continuamente delle cartoline enigmatiche. Strada facendo, avrebbe potuto fermarsi un paio d'ore a San Donato dov'era sepolta la sua povera mamma, per dirle addio, o a rivederci, per attingere un po' di forza davanti all'erba che la ricopriva. Gli sorrideva anche l'idea di una fermata a Genova al cospetto del mare che non aveva mai veduto, nella speranza di far morire nell'immensità dello spettacolo i suoi piccoli pensieri e i suoi piccoli dolori.
Chi sa se avrebbe potuto vivere lontano dal suo paese, tra gente sconosciuta, in un mestiere ingrato, vedovo (non c'è altra parola), vedovo per sempre di quella donna, che aveva suscitate e sconvolte tutte le forze piú oscure e piú chiuse della sua esistenza?
Fu ridestato da un vivissimo cinguettío.
Qualcuno dei canarini era già uscito dalla gabbia e stava sulla soglia dello sportellino, davanti all'aria vuota, in atto di curiosità e di trepidazione. Altri, agitati da una voglia quasi convulsa, saltavano di legno in legno, arruffando le piume, girando il collo, spiando coll'occhietto piccolo e rubicondo attraverso ai ferri, come se non si fidassero delle cose.
Il loro padrone soleva tutte le volte che apriva gli sportelli avvicinare le imposte e piú d'uno aveva dato della testa nel vetro, come la dànno gli uomini di buona fede nelle piú trasparenti illusioni. Si capisce come non si fidassero troppo.
Fu Giallino il primo, un novello che Demetrio proteggeva piú degli altri con qualche parzialità, che dopo aver sollevato il becco alla grande aria del cielo, dopo aver gridato di gioia, sollevò le ali... ma ebbe paura.
Il suo cuoricino batteva con precipizio: due volte tentò abbandonarsi, ma la paura del vuoto, spaventoso anche per lui, lo tenne aggrappato al legnetto. Amoretto, colle penne miste di verde, gli diede quasi una spinta. Demetrio sentí un frullo d'ala, guardò attraverso ai ferruzzi e scorse Giallino ansante e spaurito nella conca di un tegolo.
«Ingrato anche tu...» mormorò sorridendo.
Amoretto gli tenne dietro e andò a posarsi sul cappello di ferro di un fumaiolo.
Il Marchesino - cosí chiamato per il suo garbo - saltò sulla gabbia e volò di qua e di là per la stanza, seguíto dagli occhi di Giovedí, finché venne a posarsi sulla spalla del padrone. Demetrio lo prese delicatamente nel palmo, lo fece saltare sul dito e presentandolo a Giovedí, cominciò a dire:
«Dunque si parte tutti quanti dimani. Mandiamo avanti questo signore a preparare gli alloggi?...»
E dopo aver accarezzato il canarino sulle ali, sporse la mano nel vuoto e gli diede la libertà. L'uccellino con un volo frettoloso e sgomentato andò a cadere sulla gronda di un tetto.
La femmina lo seguí, gli volò d'appresso e sulla gronda si concertarono sul da fare. Qualche altro era già partito senza dir nulla.
Le nubi d'oro cominciavano a scolorire.
Sempre seduto in faccia alla finestra, Demetrio contemplava le gabbie vuote, assorto, immerso nel malinconico silenzio di quelle piccole case deserte, velando gli occhi d'una riflessione piena di mestizia. Si sentiva malato ancora, d'un male che non è febbre, ma che filtra come una febbre ghiacciata nelle midolle delle ossa.
Giovedí, posata una zampa sul ginocchio, fece sentire ch'egli era lí.
«Sí, tu ci sei, tu non vai via senza di me, tu sei fedele fino alla morte: tu vuoi bene a chi ti ha fatto un po' di bene!»
La bestia rispondeva socchiudendo gli occhi, attraverso ai quali brillava un lume di tenerezza.
Demetrio gli strinse il muso nelle mani e seguitò anche lui a parlargli cogli occhi, carezzandolo.
Il silenzio dei tetti spopolati penetrava il cuore. Al chiaror sanguigno era succeduta una luce languida di un azzurro verdognolo, in cui svanivano, come piume di un immenso ventaglio, strisce lunghe di cirri bianchi e altissimi.
L'uscio si aprí lentamente.
Amor di Dio! era lei...

Era proprio Beatrice, un poco accesa per la fatica del salire. Era lei nel suo velo grande cascante sulle spalle, nel quale spiccavano i bei colori del viso ovale, la bianchezza del collo e la grandezza degli occhi.
Giovedí, conosciuta la padrona, le corse incontro, spiccando salti di gioia, abbaiando, piagnucolando e tornò verso Demetrio, soffiando nella polvere, gonfiando le nari, leccandogli i piedi.
«Che... che miracolo?» mormorò Demetrio, alzandosi e rimanendo immobile colla mano appoggiata alla sedia. «Siete a Milano?»
«Sí, per questa notte... Son venuta a prendere Arabella che fa gli esami dimani. Ma devo prima parlarvi.»
Beatrice trovò Demetrio molto abbattuto e invecchiato, e lui s'umiliò al cospetto di una signora che pareva cresciuta di nobiltà nell'eleganza degli abiti nuovi e signorili.
«Che cosa è accaduto?» chiese ella per la prima, mentre abbracciava con una rapida occhiata la povertà della stanza in disordine e la valigia fatta e pronta sopra la tavola.
«Che cosa?» chiese distrattamente Demetrio fingendo di non capire il senso della domanda.
«Sono venuta apposta anche per questo, e non voglio partire senza conoscere la verità.»
«Quale verità? sedetevi.»
Demetrio mandò avanti una sedia, dove Beatrice si pose a sedere, mentre egli tornava ad appoggiarsi colla vita alla tavola.
«Paolino aveva bisogno di parlarvi, è venuto a Milano, andò a cercarvi all'ufficio e ha sentito...»
«Che cosa?» chiese con un filo di voce Demetrio, abbassando gli occhi.
«Ha sentito che avete avuta una brutta scena col cavaliere in seguito alla quale siete stato licenziato. È vero?»
«Non licenziato» mormorò languidamente con un tenue sorriso.
«O vi hanno traslocato in un paese lontano: è vero? Perché non avete seguíto il mio consiglio? Avete forse voluto difendermi troppo... e v'è capitato male.»
«Troppo? non si difende mai troppo una povera donna insidiata, calunniata» esclamò Demetrio con un tono vibrato e caldo di voce. «Voi non ne avete nessuna colpa.»
«Povera me, come sono disgraziata!» scoppiò a dire Beatrice, portando in fretta e furia il fazzolettino agli occhi. «Paolino è tornato a casa tutto fuori di sé, ha fatto una scena colla Carolina, vuole che io gli spieghi questo mistero del braccialetto, suppone non so quali tradimenti... Che gli devo dire, per amor di Dio? Questo matrimonio si doveva fare in agosto e invece s'è scoperto che non si potrà fare prima dell'inverno: anche questa circostanza aiuta a rendere Paolino inquieto e di malumore. Scrivetegli voi, per carità, o lasciatevi vedere una volta. Voi solo potrete dimostrargli che io non ho avuta nessuna colpa in tutta questa scena dolorosa, dissiperete tutti i suoi sospetti, distruggerete le calunnie della gente cattiva.»
«Io?» esclamò Demetrio come se parlasse a sé stesso.
Appoggiato colle mani alla tavola, fissò uno sguardo gentile e carezzevole su quella povera donna, che aveva ancora una volta tanto bisogno di lui: e provò in fondo al cuore ancora una volta una vanitosa compiacenza, un soave orgoglio di sé.
Per un bizzarro ritorno d'impressioni gli venne in mente la prima volta ch'egli s'era incontrato in Beatrice, in casa sua, nel salotto elegante, e che la povera donna, dall'alto del suo trono di cartapesta, aveva disprezzato i consigli d'un galantuomo: quante cose da quel giorno in poi! quante mortificazioni, quanta pazienza, quanta rassegnazione c'era voluto per non perdere i frutti di una buona intenzione!
Chi aveva vinto? La gente che giudica all'ingrosso poteva credere che avessero vinto gli altri, cioè i potenti e i fortunati; ma il suo cuore, davanti a quella bella creatura che piangeva e supplicava, seduta innanzi a lui nella luce blanda d'un tramonto di estate, esultava ancora nella coscienza di un trionfo appassionato, che Dio non concede né ai potenti, né ai fortunati.
Beatrice non era salita per la seconda volta alla modesta soffitta per consolare le malinconie di un abbandonato: ma veniva come una regina a mendicare consolazione e consigli a un vecchio e dimenticato romito. Di chi la vittoria dunque?
Ecco quello che passò rapidamente e senza ordine nel suo cuore, mentre Beatrice finiva di piangere.
Il signor Paolino, nell'estasi della sua fortuna, alla vigilia di un ineffabile godimento, non aveva saputo resistere all'insidia del male. Una parola sinistra, una voce in aria, raccolta nell'anticamera d'un ufficio, era bastata come una goccia d'aceto a corrompere il latte della sua felicità; il sospetto, la diffidenza, l'ingiuria si mescolavano già ad un amore tutto fatto di bisogni e di ciechi desiderii, a un amore che non resiste alle prove dure e tiranniche della vita. Se un povero impiegatello destituito e traslocato, che aveva dovuto vendere il letto per mettere insieme i denari del viaggio, avesse in quel momento ritirata la mano dalla testa di quella donna: avesse - obbedendo a una ruvida istigazione dell'invidia e della passione - rifiutata una spiegazione a un uomo che non la meritava piú, che cosa sarebbe stato di Beatrice e de' suoi figliuoli? che cosa sarebbe stato di Paolino?
Questa paurosa apprensione egli lesse bene negli occhi lagrimosi di Beatrice, quando si alzarono verso di lui quasi in atto di invocare misericordia. Se egli fosse stato un uomo cattivo... ma che cattivo? se egli fosse stato soltanto una persona rispettabile come il suo superiore, o un galantuomo dei soliti sul genere di Paolino, avrebbe ben saputo trarre da questo gruppo di circostanze almeno l'interesse dei suoi sacrifici.
È bene o male essere un po' diversi dagli altri?
«Beatrice» disse, distaccandosi dalla tavola e avvicinandosi due passi. Si fermò davanti a lei in una attitudine tranquilla di padre indulgente e amoroso, e, lasciando sgorgare l'onda delle parole secondo l'ispirazione del cuore, soggiunse: «Io scriverò al signor Paolino, non solo per difendere la vostra innocenza e per risolvere tutti gli equivoci che possono essere nati, in mezzo a tante ciarle; ma gli dirò anche quanto si faccia torto e quanto divenga indegno di voi con delle diffidenze, che ingiuriano una donna onesta non meno delle insidie di chi la tenta coi piccoli regali.»
Beatrice, scossa dal suono vibrato con cui Demetrio pronunciò queste parole, alzò gli occhi e stette a sentire senza battere palpebra. Le fece subito piacere l'energia con cui suo cognato prometteva di difenderla. Era venuta apposta per avere in lui un valido avvocato difensore. Guai se Paolino si fosse intiepidito e avesse mandato a monte ogni cosa! che avrebbe dovuto fare co' suoi tre figliuoli? e la vergogna, e le ciarle della gente, e la nuova miseria piú grande se non piú spaventosa della vecchia? Ecco cosa dicevano i suoi occhi, mentre Demetrio, fisso alla linea ancora luminosa del lontano tramonto, colle mani giunte, quasi appoggiate alla bocca, con una visibile tensione di tutti i nervi, seguitava:
«Gli dirò che non vi merita, perché non ha avuto fede precisamente in ciò che voi avete di piú prezioso e di piú nobile, la vostra onestà. Questo sentimento, questa preziosa eredità, voi, anche povera, la lascerete in dote alla vostra Arabella» il nome della fanciulla fu come un gruppo che fermò un istante il discorso «e il signor Paolino non ci ha creduto. Anch'io, è vero, ho diffidato una volta, anch'io ho accolto leggermente le voci della malizia, ma erano diverse circostanze, e non vi amavo... allora... come dice di amarvi quest'uomo che vi manca di rispetto....»
Beatrice aprí un poco la bocca a un fiato di sorpresa.
Perché si corrucciava tanto suo cognato?
Demetrio si accorse anche lui d'essersi lasciato trasportare un po' troppo. Si fermò, abbassò gli occhi verso di lei, stentando le parole, che si sprofondavano nella gola, parlando insomma attraverso al singhiozzo:
«Gli scriverò,» disse, «gli scriverò dimani da Genova... Addio, state bene... Aggiusterò tutto: addio!.. siate felice....»
Beatrice, quasi sollevata da lui, s'alzò lentamente senza togliere gli occhi dal viso di suo cognato, che, dopo averla commossa in modo straordinario, si commoveva anche lui fino alle lagrime, e diceva parole strane, agitando la mano nervosa e smarrita davanti alla bocca, tremando in tutta la persona magra e rannicchiata come un uomo che cerca di fuggire da un tremendo disastro.
Che aveva quel povero uomo? che fosse ancora ammalato? che gli rincrescesse di partire e di lasciare la sua gente?
Furono tre o quattro questioni, che si presentarono insieme in quel momento all'intelletto non sublime della povera donna, che, abituata a vivere di sé, incapace di supporre mali lontani diversi dai suoi, e pur sentendosi cagione delle lagrime di Demetrio, stava lí in piedi, vittima anch'essa della sua meraviglia, lontana ancora molti passi dalla verità, incapace di andarle incontro.
«Voi partite dimani? È proprio vero? È per causa mia che vi tocca di partire?» chiese con un naturale tremito di voce.
«Non per causa vostra... È il destino cosí. È forse meglio per me....»
Rimasero un altro mezzo minuto l'uno in faccia all'altra senza poter parlare, egli combattendo una estrema e violenta battaglia colle sue lagrime, essa quasi stordita dal suo stesso non capire.
Seguitava ad interrogare quel poverino cogli occhi grandi, incantati, senza un'idea chiara di quel che desiderasse sapere da lui, ma agitata da un senso misterioso di pietà e di paura.
Demetrio con la faccia piú stravolta che rallegrata da un sorriso d'uomo malato, agitò ancora la mano nel vuoto, come se cercasse di ravvivare un discorso rimasto spezzato.
«Che cosa avete, povero Demetrio?»
A questa dimanda e piú che alle parole al suono intenerito della voce, come se tutta la vita gli rifluisse nel cuore, affascinato e tratto dalla sua stessa debolezza e da una vertigine soave, si abbandonò verso quella tenera compassione di donna, come un bambino impaurito, che corre a rifugiarsi nella gonna della madre. La stanza si riempí della luce ch'egli aveva negli occhi, in cui guizzavano le scintille del crepuscolo; la pregò ancora una volta, sigillando la bocca colle dita, di compatirlo, di andar via: la spinse anzi un poco verso la porta, allungando il braccio e la mano con cui teneva nervosamente stretta la piccola mano di lei, si attaccò, per non andare in terra, alla sponda della sedia, vi si rannicchiò, vi si rimpicciolí sopra, e gridando piú che pronunciando: «Andate via... per carità...» lasciò irrompere senza piú nessun freno quel torrente amaro di dolori, che lo rendevano cosí debole e vile.

A uno scoppio cosí improvviso di lagrime, dalle quali usciva una confessione non meno impreveduta che imbarazzante, il volto di Beatrice si offuscò forse per la prima volta in vita sua di una nuvola di cupa tristezza. Sulle prime non osò credere; si sforzò anzi di non capire ciò che diventava sempre piú evidente, cioè che Demetrio l'amava. Si guardò intorno, come se cercasse di orizzontarsi in quel mondo di affezioni e di afflizioni nuove che il piangere di Demetrio andava suscitando vicino a lei. Si chinò un poco verso il meschino, provò a parlare, ma che cosa doveva dire? Avrebbe voluto che ciò non fosse, gliene rincresceva: che poteva fare lei? quando aveva dato un motivo a questo uomo di credere? All'urto di queste varie questioni, che balzavano e cozzavano nella sua testa, sentí anch'essa una gran voglia di piangere, come una fanciullina che, uscita troppo lontana da casa sua, si trova còlta dalla sera e comincia a temere di perdere la strada.
Si sarebbe detto che la violenta necessità di non mostrarsi dura e cattiva coll'unico uomo che le aveva fatto tanto bene, spremesse quanto c'era di buono, di caritatevole, di delicato nel suo cuore. Provò un forte soffocamento di respiro, il petto le si gonfiò, il cuore cominciò a battere con immenso dolore, come se qualche cosa si rompesse in lei, come se in questo primo sforzo intelligente della sua vita, dalla bambola uscisse la donna.
Certo qualche cosa di vivo e di caldo sgorgava da quel patimento.
«Perdonatemi, Beatrice, sono malato, non so piú quello che mi dico e quello che mi faccio. Sono quattro mesi che soffro cosí, senza parlare mai con nessuno: e sarei partito cosí, senza piú vedervi, se voi non venivate quassú a cogliermi in un momento di malinconia.»
Demetrio parlava senza alzare la testa dalle mani.
«Per amore dei vostri figliuoli, che ho amato come se fossero miei, non fate nessun conto delle mie parole, non dite niente, dimenticatevi anche voi... Non ricordate se non quel po' di bene che ho voluto ai figli di Cesarino... Andate via....»
«Io non potrò mai dimenticare quello che avete fatto per me...» provò a dire la donna, con una voce che risonò anche al suo orecchio in un tono piú caldo e diverso dal solito. «Avete detto bene: è il destino... Abbiate pazienza, Demetrio.»
«Sí, sí, sí!» esclamò Demetrio, sollevando la testa e sporgendo sulla sedia le due mani giunte, come se volesse rinnovare una preghiera. «Sono uno sciocco... lo so: addio, non vogliatemi male.»
E cercò di sorridere per togliere al discorso quanto vi poteva essere di penoso e d'imbarazzante per lei.
«Abbiate pazienza...» ripeté meccanicamente Beatrice, avviandosi verso l'uscio, tremando, stentando il passo, come se due forze contrarie si disputassero la sua pigra volontà.
Sulla soglia si fermò, chinò la testa quasi contro lo stipite, soffrendo della sua ignoranza che non le suggeriva nulla da dire, nemmeno una parola di cortesia e di carità verso un uomo che aveva sacrificato tutto per lei, il suo pane, la sua pace, la sua libertà, il suo cuore, soffrendo in silenzio, senza chiedere mai nulla per sé. Si fece improvvisamente pallida...
Demetrio, accovacciato, piú che seduto sulla sedia, la contemplava coll'avidità con cui il morente segue l'ultima striscia di lume che tremola nella sua pupilla. Poi chinò un poco la testa. La credeva partita...
Beatrice, appoggiata colla mano all'uscio, si volse ancora una volta e con una voce ancora piú commossa esclamò:
«Mi perdonate, Demetrio? vi ricorderete ancora dei miei figliuoli? volete che vi mandi Arabella? Il Signore compenserà le vostre buone intenzioni..., fatevi coraggio: non datemi questo rimorso di sapere che, mentre io sono felice, voi soffrite tanto. Scrivete qualche volta e se possiamo fare qualche cosa per voi....»
Di mano in mano che ella parlava, lasciando che le parole uscissero naturalmente, egli sentiva ritornare il calore della vita e il senso delle cose. Nella luce quasi estinta del crepuscolo, Demetrio vide avanzarsi di nuovo quella donna e sopraffarlo colla grandezza della di lei persona.
Una mano si posava sulla sua testa, da cui scese un brivido a invadere il corpo. Sentí ancora un bisbiglio confuso di parole, e un'onda tiepida che lo travolgeva: e credette che fosse arrivato l'ultimo momento della vita.
Quando si rivegliò, si trovò steso in terra ai piedi della sedia.
Un raggio di luna, entrando dalla finestra aperta, disegnava sull'ammattonato i graticci delle gabbie vuote.

Quando Beatrice venne via dalla casa di Demetrio era quasi buio, e, camminando tra la gente, si sentí come sola e perduta in una grande città. La scena straziante a cui aveva assistito, la miseria di quella stanza lassú, l'abbattimento fisico e morale del cognato, l'idea del castigo che, per cagion sua, se non proprio per colpa sua, cadeva addosso al povero disgraziato, la paura che Paolino tirasse da tutto ciò un pretesto per non mantenere la sua promessa e la lasciasse sulla strada, lei e i figliuoli, questi furono gli spaventi che l'accompagnarono a casa.
Una volta arrivata e chiusa dentro, sentí anche lassú il doloroso silenzio d'una casa abbandonata che si sfascia. Della poca roba salvata dalle mani dei creditori, parte era andata alle Cascine, parte giaceva in disordine accatastata ai muri. Di intatto non rimanevano che la stanza da letto, dove avrebbe dormito forse per l'ultima volta in compagnia di Arabella, che, finiti gli esami, doveva seguire la mamma a Chiaravalle. La ragazza, che in questo matrimonio della mamma rappresentava una parte passiva di silenziosa protesta, andava cercando una scusa per rimanere a Milano presso i Grissini, o in collegio presso le monache, che d'estate conducono le allieve al mare. Ma il signor Paolino si lamentava già della mancanza della figliuola, e non era il momento di disgustarlo anche in una piccola cosa.
Che brutta notte passò per l'ultima volta nel suo letto grande la vedova! Arabella, quantunque provasse un piccolo brivido nelle ossa, quando entrò a occupare il posto del suo povero papà, tuttavia, vinta dal sonno facile della sua età, verso le undici si addormentò. Ma la mamma contò tutte le ore e tutti i quarti senza poter raccogliere un'ombra di sonno. Troppe cose uscivano dal cuore, come il sangue cola da una fresca ferita.
Ma piú ancora che il cuore, la testa andava mulinando e annaspando pensieri sopra pensieri, reminiscenze, casi sopra casi, immagini scomparse da un pezzo, risuscitando morti e vivi, avvicinando le cose piú secondarie, con tal precipizio, che piú di una volta si sollevò dal cuscino e si passò la mano sulla fronte. Quella testa, cosí poco abituata a riflettere, soffriva sotto la matassa delle cose che il destino le imponeva di dipanare. Ella lesse e rilesse, si può dire da capo, tutto il libro della sua vita. Si rivide fanciulla in collegio a Lodi, presso le Dame inglesi, non fra le prime, e nemmeno fra le ultime della sua classe; da Lodi tornò a Melegnano ancora a tempo per godere gli ultimi raggi della fortuna di suo padre; fu per alcuni anni una corte bandita.
Prima che venissero i giorni tristi, eccola a Milano a braccio di Cesarino.
Il suo noviziato di sposa fu pieno di care novità e di dolci sorprese.
Cesarino, quantunque facile a irritarsi e di gusti difficili, non aveva mai risparmiato sacrifici, perché sua moglie facesse una buona figura nella società.
Agli anni felici erano seguiti i mesi della espiazione. Ricordò il primo incontro con Demetrio, il piangere, il soffrire ch'ella aveva fatto sotto il suo bastone. In casa era la miseria e la fame; di fuori il fallimento di suo padre, l'insidia dei protettori, le trappole delle false amiche.
Essa aveva vissuto piú in quei pochi mesi che in tutti gli anni prima. Ed ora, mentre stava per tirare il fiato e ricomporre la sua fortuna, ecco una nuova tribolazione.
Quantunque Paolino parlasse soltanto del braccialetto e del cavaliere, era evidente che il contegno scontroso e freddo del cugino aveva fatto nascere in lui il sospetto che anche Demetrio avesse del fuoco al cuore.
Forse tra lor due s'erano già dette delle parole vive, e nulla era di piú naturale che Paolino s'ingelosisse e mandasse a monte il matrimonio. Ella dunque era chiamata a scegliere tra questi due uomini, ossia non era piú nemmeno il caso di scegliere. Il suo destino non poteva essere che uno solo, quello di salvare un pane ai suoi figliuoli. Era dover suo di dimostrare a Paolino che mai aveva pensato a Demetrio, che nessuno gli era stato al mondo piú antipatico e piú odioso...
In questa lotta di due uomini, per non dire di due ombre, si mescolava nei brevi sopori della fantasia un'altra ombra, quella di Cesarino, che pareva quasi contento che tutto andasse a monte senza che Beatrice, immersa nel superficiale dormiveglia delle ore mattutine, potesse afferrarne il motivo.
Sentí Arabella che parlava in sogno.
Suonavano in quella tre ore a San Lorenzo. La bambina, che si era addormentata sopra una paurosa sensazione, e che continuava anch'essa ne' suoi sogni a leggere il piccolo libro della sua vita, a un certo punto balzò a sedere sul letto, esterrefatta, e gridò:
«No, papà, no, papà... Mandate via quel cane... Mandate via quel cane....»
«Arabella, che hai? che cosa dici?» dimandò la mamma, balzando anch'essa a sedere sul letto, stringendo la ragazza nelle braccia.
Questa si lasciò prendere e cercò un rifugio nel seno della mamma. I cuori di quelle due donne battevano e balzavano insieme sotto i colpi della paura.
Rimasero abbracciate fino alla mattina, tremando insieme e sospirando lo spuntar del dí. Beatrice pensò che gli spaventi d'Arabella derivassero da qualche bisogno che la pover'anima del suo Cesarino avesse nel mondo di là, e invitò la figliuola a togliersi subito dalle lenzuola per andare insieme fino al cimitero a pregare e a salutare ancora una volta il papà prima di lasciar Milano. Demetrio aveva fatto porre un piccolo sasso sulla fossa, approfittando di quello stesso che era servito per papà Vincenzo e che, passato il termine decennale, egli avrebbe dovuto rimettere pagando di nuovo il posto.
Nel bisogno di fare qualche economia, sperò che il buon vecchio non se ne avrebbe avuto a male, e fece collocare la pietra con le altre parole sulla fossa del suo figliuolo prediletto, compiendo cosí quell'opera di misericordia e di perdono, che era cominciata per lui quasi trent'anni prima.
Le due donne stavano ancora vestendosi, quando una forte scampanellata le fece trasalire. Chi poteva essere a quell'ora? Beatrice si fece il segno della croce e andò a dimandare all'uscio.
«Sono io, il Berretta...» disse la nota voce del portinaio.
«Che cosa c'è?» dimandò aprendo la porta. «M'avete fatto un tal spavento!»
«C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice.»
«Un signore? non vi ha detto il suo nome?»
«No, o forse non ho capito.»
«Non lo conoscete?»
«Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia...»
«Ditegli che veniamo subito abbasso...» soggiunse Beatrice con un tremito nella voce.
S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia.
Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela.
Sotto il portico, a' piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui.
Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette.

I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta.
Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta.
Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse:
«Leggi tu.»
Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane:
«Che bisogno?»
«No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri....»
«Che cosa ho detto?»
«Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque.»
«Se è per capriccio tuo....»
Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora.
«È la signora Pianelli che ti scrive» disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera.
«Oh!» fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. «Che cosa vuole la signora delle Cascine?»
«T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina.»
«Che onore!» declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra.
«Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento....»
«Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?»
«Non ho questo bene.»
«Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo.»
Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò:
«Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano.»
Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti.
Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet, nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone.
"Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo."
Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo.
«Che ne dici, dunque? debbo accettare?»
«Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te.»
«Non ne ho nessuna voglia» soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro.
«Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente» raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira.
«Non ho nemmeno un vestito adatto» seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi.
«Per questo siamo in un Milano....»
In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa.
Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante.
Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri.
Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno.
Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei.
Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri.
Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine.
Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare:
«I miei complimenti; portami i confetti.»
La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi.
«Caro lei, lo faccio arrestare» saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. «Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte.»
«Allora sí, povera signora Palmira...» disse il compagno che vinceva col fortunato mortale.
Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde.
«Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore.»
«Tre assi...» accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio.
Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò:
«Tre assassini!» e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: «Guarda se c'è un agente lí di fuori....»
Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala.
La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni, la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta.
Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis.
Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole:
"Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione."
E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero:
«Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri.»
Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.."
E piú sotto: "Per sua norma, Altamura...."
Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla.
L'egregio cavalier Lanzetti - oggi sono cavalieri anche gl'impresari e i suggeritori - avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo.
"Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana...."
Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di
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