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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
V
Non fu piccola compiacenza del commendator Balzalotti di trovarsi una volta in mezzo ai suoi colleghi e dipendenti, davanti ad una tavola guarnita di fiori, di pesci in bianco, di frutta fresca, di trofei e di bombons in carta d'oro e d'argento. Per un matto che ti manca di rispetto ci sono sempre cento savi che ti rendono giustizia, e guai se l'uomo superiore perdesse l'appetito per ogni mosca che egli trova nella minestra! Per i matti c'è il suo rimedio. Oltre al Quintina - che per la circostanza s'era messo il frac - e gli altri impiegati della sua sezione, avevano voluto rendere una testimonianza di stima e di amicizia al vecchio collega anche molti capi d'ufficio, già commendatori o sul punto di cuocere. C'era tra gli altri, il cavalier Tagli, dei Pesi e Misure, sempre rauco; il commendator Ranacchi della Prefettura, per gli uffici provinciali, un bel barbone sotto una bella testa; il "gavaliere" o "gommendadore" Lojacomo, "naboledano", mandato quassú alle "Ibodeghe", nero, rotondo, grave, oscuro, con forti sopracigli e profonde rughe, in cui pareva sepolta tutta la perequazione catastale. Non mancava, s'intende, il bravo e noto pubblicista invitato dal Quintina ed incaricato di grattare un po' di formaggio sui maccheroni. Erano fra tutti, ventidue o venticinque brave persone di solida costituzione ufficiale, tutte rispettabili, o per titoli, o per servigi, o per barba, o per testa pelata, oltre ai pesci piccoli. Il Bianconi tra questi, col suo testone bianco e colla sua faccia di galantuomo sano e modesto, per quanto gli facessero peso fin dal principio quelle benedette sette lire anticipate (e aveva sentito all'ultimo momento che in queste non era compreso il vino di bottiglia); per quanto gli dispiacesse di non vedere cogli altri anche il Pianelli, - benedetto anche lui con quella sua pettegola! - cercava però di mostrarsi contento, entusiasmato, commosso della circostanza e per non isbagliare seguitava a sorridere, a dir di sí, a far inchini, ad aprire usci a tutti. Il Caramella, il Rodella e qualche altro usciere in divisa erano incaricati di custodire i cappelli e i bastoni in anticamera, di indicare la strada, di annunciare i pezzi piú grossi, di introdurli in un salotto che dava sopra un balcone, dove a poco a poco, nella democratica eguaglianza dell'appetito, si confondevano i gradi e si umiliavano le prosopopee. Il commendatore, vispo come un pesce nell'acqua chiara, riceveva, ringraziava, stringeva mani di qua, mani di là, dichiarandosi sempre piú mortificato e confuso di man in mano che cresceva il numero degli invitati. Il balcone dava sopra un giardinetto a pergolati, dov'erano preparate altre tavole, e sul vasto piazzale della Stazione centrale, che si perdeva in una leggiera nuvola bigia di polvere. Gl'invitati, parte in piedi sul bancone, parte seduti su piccoli canapè, stretti e addossati, aspettavano con una segreta curiosità di stomaco il momento di mettere i piedi sotto la tavola; e quando il cameriere venne ad annunciare che il risotto era in tavola, fu uno scoppio di soddisfazione. Quindi cominciarono le cerimonie a chi doveva passare il primo dall'uscio. Il commendatore Balzalotti voleva che passasse prima il cavalier Tagli: questi non avrebbe mai permesso: gli onori al santo della festa. «Prego, prego....» «No, prima la provincia....» «No, prima il catasto....» «Avanti i giovani....» «Avanti il senno....» Il povero Bianconi si tirò in fondo in fondo in un cantuccio ad aspettare che la processione finisse di passare. Non abituato a ritardare il pranzo fino alle sei - che divennero come nulla le sei e mezzo - avrebbe divorato volentieri anche una celebrità o una competenza amministrativa per placare i rimorsi di coscienza. E con tutto questo c'era ancora della gente che, davanti a un risotto di cui andava l'odore fino alla stazione di smistamento, stava sull'uscio a cantare: prego... prego... «Stiamo vicini noi due» disse sottovoce al Caravaggio, smorto anche lui come una pergamena per la gran fame. Quando piacque al Signore, sedettero tutti a tavola e tutti tuffarono il capo nel risotto. In principio, come suole accadere a questi pranzi, ci fu della freddezza e dello stento. La soggezione reciproca, dei piccoli verso i grandi, dei grandi verso i molti, quei piatti alti e pieni che nascondono la vista, quei camerieri di dietro, impalati, che ti guardano nel collo della camicia, questo e altro fa che ogni pranzo ufficiale abbia a cominciare col gelato e coi pezzi duri. Anche questa volta il piú gran rumore lo fecero i cucchiai e le forchette: tanto che il Bianconi, abituato in famiglia in mezzo alle sue tre ragazze burlone e a due marmocchietti indiavolati, osò pensare col capo basso: "Non manca che la marcia funebre." Il commendatore che, dal capo della tavola, sentiva una certa responsabilità quasi di padre di famiglia, procurò subito di rivolgere la parola ora al commendator Ranacchi, ora all'egregio pubblicista (che mangiava come se avesse dovuto pagare), ora al suo collega del demanio; ma anche lui, per quanto navigato, si sentiva compreso, intimidito. A casa aveva buttato sulla carta quattro periodi di ringraziamento, quattro parole all'ambrosiana, per ogni eventualità; e ora se le masticava insieme al risotto: anzi c'era una bella frase che gli sfuggiva e che egli andava cercando cogli occhi nell'angolo in fondo al salone, dove su un piedistallo stava un gran pellicano imbalsamato. Dopo il vin bianco le faccende cominciarono a procedere meglio: e meglio ancora dopo il barolo. Anche il Bianconi dovette convenire che a casa sua di quel barolo non ne bevevano le sue ragazze, e liberata un poco la coscienza dagli scrupoli e dai pregiudizi, cominciò a sentirsi un poco parente anche di quegli illustrissimi, che sedevano all'altro capo della tavola e che avevano certamente studiato piú di lui. Anche l'archivista, nella sua magrezza nervosa, sentiva gli effetti del vin bianco e dava di quei calci sotto la tavola... Quando il Bianconi, collo zuccone basso, mormorava una facezia sul conto di qualcuno o di qualche cosa, il Caravaggio, che schizava l'elettricità dagli occhiali, usciva a ridere con tali scoppiettii di pollo d'India che piú di una volta i magnati piegarono il capo per vedere quel che succedeva "là abbasso". Il Bianconi diventava rosso fin sotto alla radice de' suoi capelli infarinati, e cercava di nascondere la faccia col cartellino del menu, ch'egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel francese stampato in oro. «Almeno i piatti dovrebbero stamparli in ambrosiano!» disse al suo vicino, quando fu passata la tempesta. «Cosí non si sa nemmeno quel che si mangia: è come pranzare al buio. Sai tu, per esempio, che cosa sono i cornichons...?» «Cornicioni...» disse il Caravaggio, scoppiettando come un legno secco sul fuoco. «Cornicioni in insalata. Eccellenti! Scommetto che son lumache: qualche cosa coi corni dev'essere....» Venne in tavola un gran piatto di marbré con decorazione di gelatina, burro e tartufi, un vero monumento da far risuscitare il martire che se l'avesse meritato sulla sua tomba. «Se invece di tante statue di bronzo e di marmo,» disse l'archivista al suo vicino «si innalzassero sulle piazze di questi monumenti....» «E fosse permesso al popolo di tirarne via di tanto in tanto una bella fetta» continuò il Bianconi. «Cristianino! faccio il martire anch'io.» Visto che a casa sua di queste polente non ne mangiava mai, si fece coraggio e tirò sul piatto un bel poligono, mentre il Caravaggio, sgambettando sotto la tavola, lo raccomandava alla speciale protezione di santa Lucia, che conserva la vista agli uomini di buona volontà, et hominibus bonae voluntatis... «Parla latino adesso, che mi farai sciogliere la gelatina....» «Peh, peh, peh...» rideva co' suoi scoppiettii di pollo d'India il Caravaggio. «Ci vuol dell'iniziativa a questo mondo» disse il Bianconi, a cui il barolo dava quasi un'aureola di bontà. «Poteva esser qui anche quel testardo di un Pianelli» esclamò con sincero rincrescimento, quando scoprí che in mezzo alla polenta di gelatina c'erano dei fegatini di pollo. «Com'è stata questa faccenda?» «È stata... è stata....» Il Bianconi lanciò un'occhiata fino all'altro lato della tavola, dove il suo capo gustava anche lui i suoi fegatini di pollo, e soggiunse: «Non parliamo di morti a tavola.» «È vero,» continuò l'archivista in mezzo al crescente frastuono delle ciarle e delle posate «è vero che il... andava in casa della....» «Guarda, anche i pistacchi...» disse il Bianconi, che non voleva quei discorsi. «Che lei sia andata piú volte da lui... in via Velasca....» «Guarda, anche un chiodo di garofani.» «Pare poi che non s'intendessero sul conto... Bolletta non quitanzata... peh! peh! peh!...» «Ehi, là abbasso, è uno scandalo...» gridò quel del catasto, che aveva già votate tre bottiglie. «Brutto maccabeo!» grugní il buon Bianconaccio col viso in brace, dando un pizzicotto alla coscia del compagno. «Va a stuzzicare l'eco, animale!» «I napolitani, i napolitani, caro commendatore,» gridava il commendator Ranacchi bel rosso in faccia rivolto al barone delle Ipoteche, «i napolitani ebbero sempre una posizione privilegiata nel catasto, e si può dire che non hanno pagato mai niente.» «Niente è troppo» obbiettò il commendatore Balzalotti che non voleva che un'affermazione cosí recisa a tavola offendesse il chiarissimo collega delle Ipoteche. Costui avvolto nel tovagliolo, come in una toga, spianò le trecento rughe che solcavano il testone torbido e nero, e mormorò in mezzo al frastuono qualche cosa di cui il Bianconi non poté afferrare che una "gongrua bereguazione." «Senza un buon catasto non sarà mai possibile nemmeno una congrua perequazione.» «Basterebbe un'imposta reddituale.» «Baie sonore! vediamo quel che ci costa già l'esazione della ricchezza mobile.» «È un altro paio di maniche. La terra non si può nascondere.» «Ci vorrebbe un sistema di tassazione....» «Ma che sistema!» «Sicuro, un sistema in ragione della presunta produttività del terreno.» «Mancherebbe anche questa, oltre al flagello della concorrenza americana.» «Che concorrenza d'Egitto!» «Americana e non d'Egitto.» «Ah, ah! oh, oh!» Le parole s'incontravano, s'intrecciavano al di sopra dei bicchieri e delle bottiglie, scoppiando in calde risate, in cui tutte le opinioni politico-amministrative di quei bravi signori si conciliavano in una piena soddisfazione reciproca. Solo il barone delle Ipoteche pareva annuvolarsi e sprofondarsi sempre piú in mezzo al baccanale, e gonfiava certi occhi bianchi, movendo il capo ora a destra ora a sinistra come volesse dire: "adesso vi mangio tutti..." «Signori!» sorse improvvisamente a dire il Quintina colla sua voce squillante. Si fece subito un gran silenzio. «Signori! questa non è una cerimonia ufficiale di adulazione, ma una lieta e viva testimonianza di stima e di rispetto verso un uomo, il quale..., verso un uomo, che sua eccellenza il ministro Depretis ha voluto in questi giorni onorare di un attestato speciale, concedendogli le insegne di commendatore della Corona d'Italia. Propongo quindi un brindisi al commendatore Balzalotti.» «Viva, bravo, bene!» I bicchieri si alzarono, si toccarono, si vuotarono. Il commendatore si alzò. Di nuovo un gran silenzio. S'inchinò a destra, a sinistra, passò un momento il fazzoletto sugli occhi, e dando un'occhiata al suo pellicano imbalsamato, incominciò a dire: «Se dovessi, amici e colleghi, rispondere adeguatamente alle espressioni vostre, io non potrei trovare nessuna parola che sapesse esprimere il pensier mio. Avvegnaché, come ben disse pur dianzi il mio buon amico cavalier Quintina - con quella cortesia che lo distingue e della quale sento il dovere di ringraziarlo - qui non si tratta della solita cerimonia ufficiale che al levar delle mense non lascia dietro di sé alcun ricordo. No: qui voi volete non tanto onorare in me il capo d'ufficio, che fa debolmente e come può il dover suo, quanto il vostro compagno di lavoro....» «Benissimo!» dissero tutti insieme con quel bisbiglio di esse, che vuol approvare senza interrompere. «Laonde io vi ringrazio non come pubblico funzionario, ma, dirò cosí, come vostro collaboratore, come vostro commilitone.» «Bene!» «Sua eccellenza il Ministro non ha certo voluto premiare una persona che, per quanto zelante e volonterosa, non ha ottenuto dalla natura né doti straordinarie d'ingegno....» «Oh...» protestò il pubblico. «...né ha recato alla pubblica amministrazione servigi straordinari: ma io sono persuaso che ha voluto premiare in me - e con me anche voi - la fedeltà a quei principii d'ordine e di progresso che informano lo spirito delle nostre istituzioni liberali....» «Bravo!» gridarono a una voce con una salva di applausi. «Bbenne!» soggiunse dopo gli altri il barone delle Ipoteche, colla cupa sonorità d'un trombone in ritardo. Il commendatore, dolcemente acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e alzandolo in aria soggiunse: «Imperciocché, o signori, non è né la forza degli eserciti, né i baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace, salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii, l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei funzionari....» «Un po' anca mo'....» Tutti si voltarono a questa brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa, a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso, colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina. L'oratore, turbato un momento, non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò: «La giustizia nei superiori, il rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del paese....» «..issimo.» «Nel ringraziarvi, adunque, cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie battaglie....» Il Ranacchi si mosse sulla sedia e fece molti gesti pieni di modestia. «...e a quell'alta mente, a quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani, che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da quello della dinastia che ne tien alta la bandiera....» «Viva, viva!» «Bravissimo!» «Molto bene! Proprio toccata la nota giusta.» «M'è piaciuto quell'appello ai principii.» «Mi congratulo, bravo!» Il commendatore ricevette tutti questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano, sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione continuò animata fino ad ora tarda. Il povero Bianconi non aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il frutto di tre anni di buoni servigi. "Aspetta ora che ti aggiusti nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé, mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni... Se quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro posto, avrei bevuto un bicchiere di meno...." E voltando nella porta di casa, salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia. Al telegramma ministeriale tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli, accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile". In parole meno solenni era un castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia, vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve. Il Caramella, che gli portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano soltanto le cento lire della sua mesata di maggio. «Andremo a Grosseto!» declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona... Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino. Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano." E crollando la testa, gli venne voglia di ridere. Sí, gli venne voglia di ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di mondo, al di là dei suoi prati... Che gl'importava ora di Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano diventati antipatici. "Andiamo a Grosseto!" ripeteva tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio arretrato... "Andiamo a vedere Grosseto!..." Se egli fosse stato pittore, oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto scrivere un romanzetto. I letterati vanno alle volte a cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire la gente dalle risa... e anche da far piangere. Piangeva egli forse? mai piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di malinconia. È una sciocchezza piangere perché il signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere. Ci si fa l'osso anche al far niente. Non dava nemmeno torto al suo superiore. Guai se un capo d'ufficio non provvedesse energicamente a salvaguardare - come dicono - il prestigio dell'autorità! Come mai un Pianelli, di natura cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua, avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore scattò come una molla. Non era dunque morta del tutto quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore per lei? Misteri, misteri. Se un resto d'illusione si muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del tutto. T-o-tto... finito. Ora aveva piú tempo di far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una solidità e precisione che gli orologini moderni, intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú. Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua volta..., insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile. Dopo aver tentato due volte di venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso, non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione. Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza - sempre qualche differenza! - che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone, che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú melanconico di notte. Nelle ore di veglia - e adesso gli capitava spesso di non poter dormire - era solito sentire il tic tac del vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata, risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita vissuta in un altro mondo. Anche questo: t-o-to... finito! Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine, - va a spiegare anche questi misteri... - non gli dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato alzare la voce -lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi - per difendere l'onestà di una povera donna. - Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo in quel momento. Di quell'opera buona e di coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione. A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni. Egli sí; c'è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia. Con questa orgogliosa sicurezza di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le note scale, suonò il campanello. Sentí un passo piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro. «O Demetrio!» esclamò Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino nelle mani grandi come foglie di zucca. «Beato chi ti può vedere, Paolino!» «Vuoi dire che merito d'essere bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa....» «Sappiamo tutto.» Demetrio, mentre deponeva il cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva fatto «C'è Beatrice?» «È di là. È venuta in questo momento la sua sarta.» «E i ragazzi?» «Son presso la signora Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete.» «Son venuto a disturbarvi?» «Birbante, tu fai delle maligne supposizioni.» Paolino prese il buon cugino sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora stesa la tovaglia. «Qui si pranza.» «Abbiamo finito. Sono scappato a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle.» «Lei dunque ci ruba la signora Beatrice» disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera. Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo piú, come l'orologio. «Questo andare e venire è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna farà bene anche ai ragazzi.» «Va bene, va bene.» Sedettero davanti alla tavola dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla finestra. «E dunque, sei proprio contento, Paolino?» «Se io sono contento?» ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la corsa. «Bevi, Demetrio.» «Non bevo, grazie.» «Un gocciolino....» «Mi farebbe male.» «È un vino bianco dolce che faccio io.» «Un'altra volta...» insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità. «Verrai un giorno alle Cascine. Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se io sono contento..., capisco: è un rimprovero.» «Che rimprovero!» «È un rimprovero giusto e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti dicessi che ho perduto la testa?» «Capisco... del resto....» «Dopo che ho sofferto tutte le pene del purgatorio - come ti ho contato - dopo che senza Beatrice mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato, che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera, eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come questa bottiglia?» Paolino prese la bottiglia, la collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla. «Misteri del cuore umano!» esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio ragionamento. «E cosí fu per due o tre giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto, come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo sposare Beatrice - alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. - Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si moveva anche l'ombra del mio corpo....» «Ah! ah! ah!» proruppe Demetrio con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare qualche cosa che si moveva in lui. «Bevi, Demetrio....» «No, caro..., e poi?» «E poi cominciai a capire qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio.» Paolino vuotò il bicchiere del suo vin bianco dolce. «La Carolina mi condusse a Milano una volta per la presentazione, - tu eri malato con una gran febbre quel giorno - mi insegnò quel che dovevo dire, precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi tirò su per queste scale come si tira - scusa il paragone - un vitello per le orecchie...." «Ah! ah!» tornò a ridere Demetrio. «E poi?» «Una volta seduto vicino alla sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine....» «Ah sí?» «A casa mia sono piú a posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano - tu cominciavi a star meglio - e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara. Ah, Demetrio!..» soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano sulle spalle del cugino «quando verrà quel giorno, tu vedrai Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo.» Paolino, colto da una improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un ragazzo piagnulone. Demetrio, rannicchiato in sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, - fatte sottili dalla malattia - andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra. L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia; entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío del lungo strascico fosforescente. Paolino abbassò gli occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?" Gli occhi di Demetrio avevano invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della tovaglia. Paolino non era tal uomo da accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de' suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo. I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio, vestito da pretino, veniva su per le scale. I voti del Berretta erano compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori, gliene dicevano di belle e di brutte. La signora Grissini, tutta commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice, l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo, mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste, colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa, che non sapeva dove collocare. Il Berretta, nel suo solito panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora l'altra, come una marionetta. Arabella per un po' fu presa anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato. Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi, e che la faccia era un torrente di lagrime. «Ah poverina!» balbettò lo zio Demetrio. «Cominci male anche tu....» La curiosità della gente fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e che cosa fosse. «Chi è?» «Che roba è?» «È Giovann dell'Orghen.» «Che cosa porta sul capo?» «Guarda... che diavoleria...!» Demetrio si avvicinò a Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera: «L'altro giorno mi avete manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza....» Giovann dell'Orghen veniva su col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie, l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli. Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco, come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.
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