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Opere pubblicate: 19994
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VIII
«La mamma è in letto» disse Arabella. «Si sente male?» «Son già tre giorni.» «Perché non mi avete avvisato?» «Non ha voluto. Credo che abbia la febbre. Ieri e ieri l'altro s'è tenuta in piedi, ma oggi l'ha presa un tal mal di capo, che non può quasi tener gli occhi aperti.» «Oh diavolo!» Demetrio fece un mezzo giro per l'anticamera per lasciare il tempo all'idea di venire avanti e di stendersi. «È venuto il dottore?» «Non l'ha voluto.» «Chi c'è di là?» «C'è la signora Grissini.» L'uscio della stanza si aprí e venne fuori col suo passino senza rumore la buona signora, tutta grazia e tutta ossi, che, agitando i due bei trucioletti di capelli infilzati nella lattuga della cuffia, disse: «Sicuro, è malata: pare una piccola reumatichettina....» «Guarda!» esclamò Demetrio. «Ma non credo che sia cosa seria. Le ho fatto prendere un mezzo citratino... Signore! io credo che la poveretta abbia bisogno di un vitto piú nutriente e specialmente di avere il cuore in pace. Ne ha patite tante quest'anno, caro Iddio!» «Se... se potessi....» Demetrio stette un momento a riflettere che cosa doveva dire; ma che cosa poteva fare egli, perché Beatrice avesse un vitto piú sostanzioso e il cuore in pace? «In confidenza,» soggiunse la signora Grissini, tirando Demetrio verso la finestra, «in questi giorni sono andata avanti io... Spese ce ne furono, e quella poverina era senza denari. Non volle ad ogni costo che io mandassi a chiamar lei. Io lo faccio volentieri, ma devo naturalmente dir niente a mio marito, che dice sempre che non ragiono.» Demetrio non fiatò. Trasse il portafogli, vi pescò dentro, e tirò fuori un biglietto di cinquanta lire che consegnò alla signora Grissini. Erano sempre i denari del buon cugino che facevano la spesa. «Le dica che stia di buon animo. Ero venuto per parlarle di un progetto che forse le farà piacere. Tornerò dimani.» «Io credo che la poverina sia malata di patema d'animo.» «Crede?» «Non fa che piangere....» «Lei intanto si paghi delle sue spese. Verrò dimani.» «Oh giusto, non ho detto per questo.» «No, no, che diamine! ho caro che sia curata da una brava persona. Se Naldo volesse venire con me, ho posto di metterlo a dormire.» «È una buona idea, per alleggerire la barca.» Demetrio rimase lí con un'orecchia tra le dita, sopra pensiero, mentre la signora Grissini entrava nella stanza della malata. Quando tornò le chiese: «Ebbene?» «Ha detto di condurre pure Naldo e di farsi vedere dimani.» Naldo andò volentieri collo "zio Demetrio" che aveva tre gabbie di canarini, e senza essere invitato andò dietro volentieri anche Giovedí che si vedeva un po' troppo trascurato. «Anche questa va a capitare...» andava ripetendo Demetrio, mentre il bambino seguitava a tempestarlo di dimande sulle cose che vedeva nelle botteghe e nella strada. Pensò di scrivere a Paolino che per il momento non era il caso di parlare a Beatrice del noto progetto per non agitarla troppo. Tornò a collocare la lettera del cugino sotto il calamaio e disse un altro "vedremo" meno aspro e meno pesante del primo. Quel dí pranzò in casa colla compagnia del nipotino e del cane, aiutandosi con qualche frusto di carne e con una fetta calda di polenta che mandò a prendere da Giovann dell'Orghen dal fruttaiuolo della piazza. Alle uova fritte pensò il cuoco di casa. Naldo sedé in capo alla tavola, tra lo zio e Giovedí. Demetrio tuffava la forchetta nel piatto e faceva un boccone per uno. Già cominciavano i lunghi tramonti di maggio. Il sole scendeva a poco a poco dietro la punta del campanile delle Ore, che col suo cono di rame faceva quasi da spegnitoio a un grosso fuoco rossiccio, che andava languendo a poco a poco nelle linee lunghe dei tetti. Incontro agli ultimi bagliori del crepuscolo uscivano, si disegnavano i corpi bruni dei fumaioli, delle torrette, dei terrazzi fioriti, da dove venivano voci chiare di donne e di ragazzi. Demetrio, toltosi sulle gambe il bambino, stette a contemplare un pezzo lo spegnersi dei vari colori, il fuggire della luce dai piú alti colmi, il vagare delle nuvole, lo spuntare delle prime stelle, rispondendo superficialmente alle cento dimande di Naldo, ma col pensiero lontano, lontano, piú lontano delle stelle. Pensava che tutto avrebbe potuto essere conchiuso e finito, e invece aveva ancora una notte da dormire sul suo dente guasto. Peccato! era una notte di inutile patimento. Perché, tanto fa essere sinceri con noi stessi, egli pativa troppo in quella sospensione d'animo, in quella lotta tra il dovere e... che cosa? Aveva un nome questa nuova e stravagante malinconia, che gli era saltata addosso come una febbre, come la pellagra? Naldo, vedendo che lo zio Demetrio non rispondeva piú, si addormentò a poco a poco nelle sue braccia. Lo zio, muovendosi tutto d'un pezzo e camminando quasi seduto per non risvegliarlo, lo collocò adagino sul letto. Chiuse le finestre, accese una candela, e cominciò a preparare un lettuccio a' piedi del suo, con due scranne accostate, un guanciale e una coperta ripiegata in due. Quando gli parve che la nanna ci fosse (e gli veniva quasi da ridere nel pensare in quel momento a sé), si preparò alla difficile e complicata impresa di svestire il bambino che pareva un sacco di stracci. Gli tolse le scarpe, le calzette, lo voltò, lo rivoltò sul letto, in cerca degli occhielli e dei bottoni, e, dopo molta pazienza, gli riuscí di pigliarlo sulle braccia non vestito che di una camiciuola, che non vestiva quasi niente. Quel fagottello pesante di carni tiepide e bianche in cui si sentiva correre il sangue: quel respiro dolce che usciva attraverso a un sonno di bronzo, che aveva la forza di tirar giú la testa del ragazzo, mettendo in luce la bella attaccatura del collo - la bellezza della mamma: - quei piccoli piedi rosei, lisci, senza una ruga, che visti contro la fiamma della candela parevano due garofani sfogliati: quelle molli infossature nel bianco delle carni in cui pareva di scorgere l'impronta delle dita del Creatore: quel profumo di bontà che hanno i bimbi, tutto suscitò nel sasso sterile dell'uomo selvatico un sussulto di tenerezza. «Vuoi bene alla mamma?» sussurrò all'orecchio del bimbo addormentato. «Naldo, vuoi bene alla mamma?» Naldo rispose con una leggera increspatura delle labbra, con un sorriso che stentava a sprigionarsi dal sonno: «Ci.» «Anch'io!» pronunciò una voce forte di uomo che soffre. Che gioia s'egli fosse stato il padre di quel bambino! Oggi capiva ancor meno come il povero Cesarino avesse potuto desiderare le fatue vanità della vita, quando il Creatore l'aveva fatto padrone di queste preziose realtà. "Quale ricchezza, quale gioia, quale gloria piú superba per un uomo che il sentire la sua stessa vita palpitare al di fuori di sé in un altro essere uscito da sé, che non morirà in noi, ma consegnerà ad altri esseri che verranno la parte nostra immortale, in una catena che forse va a finire nelle mani di Dio? "Piú avrai mortificato in te le forze generose e feconde della vita, piú avrai vissuto di te e piú sentirai al volgere dell'età la ribellione di tutti i sensi a questa cupa condanna della solitudine e della morte. Non è soltanto un grido d'amore che ti risveglia, ma un desiderio, un bisogno di paternità, piú grande ancora dell'amore, un bisogno e un desiderio che non si estinguono nelle onde della voluttà, ma insorgono in nome della natura, ti comandano di vivere, o almeno di non morire tutto in una volta e non fare di te stesso il tuo lugubre cataletto...." Erano questi, piú che i pensieri, i gridi che uscivano dal profondo del suo cuore, mentre stava accomodando il bambino nel lettuccio. Si allontanò in punta di piedi, nascose un poco la fiamma della candela e stette un momento ad ascoltare il molle respiro dell'addormentato. Provò a scrivere, e mise sulla carta quattro parole per dire a Paolino che Beatrice era molto malata. Ma rifletté che non conveniva per il momento e che era meglio scrivere dimani, dopo aver parlato con lei. Soffiò sul lume e, seduto nel suo gran seggiolone di vacchetta, stette a contemplare la luna che versava una poetica luce nella stanzuccia, mentre egli cercava di reagire a quei terribili ragionamenti interni, che da qualche tempo non gli lasciavano piú pace. Si ricordò che in mezzo alle tribolazioni non aveva ancora fatta la sua santa Pasqua! Demetrio era uomo pio, sinceramente convinto di tutto ciò che gli aveva insegnato la sua povera mamma fin da ragazzo e sapeva che il diavolo va in giro la notte come la volpe: e se trova un pollaio aperto, cioè una coscienza sprovvista di grazie e di sussidi spirituali, fa il diavolo, cioè il suo mestiere. Glielo diceva anche fra' Gioachino, l'ultimo frate converso che egli aveva conosciuto da ragazzo nell'abbazia di Chiaravalle, sopravvissuto vecchio e solo nel convento come un'ombra dopo la soppressione dell'ordine. Era un bel vecchio con una barba lunga, bianca, la testa rasa e lucida, che sapeva cento storie di miracoli e contava volentieri le burle che il diavolo soleva fare ai santi eremiti del deserto. Anche fra' Gioachino soleva dire: «Chi tiene i catenacci irrugginiti non faccia conto neppure della porta.» Forse per questo egli pativa da qualche tempo in qua le piú stravaganti suggestioni, e sentiva gridi e schiamazzi nella coscienza, proprio come quando la volpe entra nel pollaio. Dimani mattina avrebbe lasciato Naldo in custodia di Giovann de l'Orghen, e prima dell'alba sarebbe andato a Sant'Antonio, in cerca di don Giuseppe Biassonni, un vecchio prete un po' rustico che raspava la coscienza come un paiolo, ma dava una salutare energia allo spirito. E fece cosí. Disse tutto al prete lo stato dell'animo suo, contò le tentazioni, provando il piacere di chi si toglie d'addosso una camicia sporca e se ne mette una di bucato. Don Giuseppe non fece complimenti: «Sicuro che saresti un bel birbone,» gli disse «se per una tua golosità mettessi tutta una famiglia nel caso di morir di fame. Se si lascia parlare la passione, ne sa sempre piú di un avvocato. Ti dirà che tu hai dei meriti, che puoi fare meglio degli altri, che il bene è di chi se lo piglia, ti tirerà a vedere la terra promessa, ti metterà tutto il mondo ai piedi, precisamente come fece Satana a nostro Signore. Io non ti dico altro: o si serve alla giustizia o si serve agli appetiti nostri; o si vuole il regno di Dio o si vuole quello delle tenebre. In due scarpe non si può tenere il piede. E il bene cessa di essere bene, quando lo si adopera per foderare il tabarello del diavolo.» Demetrio avrebbe voluto che il vecchio rustico seguitasse un pezzo a sgridarlo, a strapazzarlo cosí. Sotto i colpi dei rimproveri sentiva le ossa slogate andare a posto. Una vera pace venne dietro all'assoluzione e quando egli uscí dalla chiesa, si sentí un altro uomo. Non tornò a casa, ma corse difilato in Carrobio per conoscere come la malata aveva passata la notte e per consegnare la famosa lettera di Paolino, nel caso che Beatrice volesse cominciare a pensarci. Dopo molte giornate di bello, il tempo era scuro, con densi nuvoloni di temporale in aria, con spessi e forti colpi di vento che facevano sbattere le gelosie. Non tardò molto che si mise a piovere allegramente, tanto che Demetrio arrivò in Carrobio coll'ombrello grondante. «Come sta la mamma? ha dormito?» «Meglio, sí. Mi ha detto quando veniva lo zio Demetrio di avvertirla.» «Non ho molto tempo.» «Vado subito.» Demetrio collocò l'ombrello grondante in un cantuccio, lasciò il cappello sulla sedia e stette ad aspettare in piedi, in mezzo alla stanza, colle mani nelle maniche, gli occhi incantati sui mattoni. «Venga, zio...» disse Arabella con un cenno della mano, facendo spiraglio dall'uscio. Demetrio si mosse e chiese: «Si può?» Beatrice non rispose subito e lasciò a Demetrio il tempo di accorgersi ancora una volta di un gran martellamento di cuore. «Avanti pure.» La stanza da letto dava sulla corte e risentiva la tristezza della giornata piovosa tra i muri bigi e i tetti neri e lucenti. Le tendine di mussolina, ingiallite di polvere, rendevano ancora piú spenta la luce. Beatrice stava nella parte a sinistra del suo letto matrimoniale, verso la parete piú lontana dalla finestra. La destra era libera, intatta, come l'aveva lasciata il povero Cesarino. «Come va?» «Sto meglio, è un po' di febbre.» «Guarda, forse il tem... forse il tempo.» Demetrio fissò gli occhi sulla finestra. Pioveva fitto, di gusto, battendo sui vetri; e tratto tratto passava nella furia del vento un lampo. «Piove come se non fosse mai pio... piovuto» tornò a dire Demetrio, dritto verso la finestra, senza voltar la testa verso Beatrice, come se fosse venuto a strologare il tempo e non per altro. Seguí un istante di silenzio, dopo il quale Beatrice prese a dire: «Avete avuta la pazienza di condurre Naldo con voi....» «Pover patanèll!...» disse lo zio con un movimento, quasi uno scatto del capo. E soggiunse: «Pensavo che si potrebbe mandare Mario alle Cascine. La Carolina è meglio di una mamma... Anzi ci ho qui una lettera di Paolino.» E slacciati i bottoni dell'abito, Demetrio cacciò la mano nella tasca di sotto, chinandosi giú giú, come se pescasse in un pozzo. «Sedetevi.» «Comodissimo.» «Devo parlarvi di una cosa...» tornò a dire con voce tremolante Beatrice, facendo violenza alla sua timidezza. «Se sapeste Demetrio che cosa mi è capitato!» «Che cosa?...» «Ah Signore, che spavento! sono ben malata per questo.» «O di... diavolo!...» Demetrio, che aveva già la lettera di Paolino in mano, si voltò verso il letto e appoggiò le mani sulla sponda. Beatrice, sul punto di confessare al cognato il suo gran sproposito, provò un senso di ribrezzo e si raccolse nelle coltri, come se volesse sprofondare e scomparire nel letto. L'occhio di Demetrio passò rapidamente sulla persona di lei e andò a figgersi nella testa di un Cristo coronato di spine che pendeva a capo del letto. «Diavolo!» ripeté con un filo di voce. «Che cosa vi è capitato?» «Come posso dirlo?... Mi pare che andrei piú volentieri incontro alla morte.» «Alla... alla morte?» Demetrio crollò una volta il capo a destra, una volta a sinistra, come se cercasse una spiegazione alle due pareti e tornò a figgere gli occhi sul quadro, evitando di guardare addosso alla malata. Beatrice cominciò a singhiozzare e a bagnare il cuscino di lagrime. «Ma io non capisco, cara voi....» «Se non promettete prima di perdonarmi....» «Io perdonarvi?» «Vi giuro che non l'ho fatto con cattiva intenzione.» «Che cosa non avete....» «Fu per compassione di mio padre che insisteva tanto. Ho fatto male a non parlarvene prima, ma sapevo che eravate contrario a dar denaro a quel povero uomo. Mi sono fidata della Pardi... oh povera me!» «Cioè... volete dire che avete dato del denaro a vostro padre....» «Sí.» «E che l'avete tolto a prestito da qualcuno....» «No, no.» «Avete forse firmata qualche carta?» «No, no, è un tradimento, un infame tradimento...» proruppe con un grido soffocato la povera donna. «Un...?» Demetrio abbassò lo sguardo dalla cornice e cercò nel volto della donna una spiegazione a questo enigma. «Quando penso alla figura che m'hanno fatto fare, non so come sia ancora viva.» Per quanto andasse a immaginare, Demetrio non poteva capire. Era cosí ingenuo ed ignorante delle cose del mondo, che fuori del suo libro non sapeva né leggere né indovinare. Beatrice, quando ebbe asciugate una o due volte le lagrime, in mezzo ad un gran garbuglio di cose uscí a dire: «Mi hanno mancato di rispetto....» «Vi hanno....» E Demetrio alzò un dito e con questo in aria tornò a chiedere: «Chi... chi vi ha mancato di rispetto?» «Ah, sapeste! mi hanno creduta una donna di quelle... Ah, povera me! poveri i miei figli!» «Chi?!» Demetrio ripeté questo "chi?!" con un accento aspro e fiero, e andò avanti due passi nella stretta del letto fin quasi addosso alla malata. Credeva bene di aver capito questa volta. Sapeva che c'è della gente, che ci sono dei bricconi a questo mondo, i quali non hanno nessun rispetto per una povera donna. Sapeva quello che il mondo infame andava dicendo sul conto di questa donna, senza un motivo. Non aveva creduto anche lui a mille ciarle prive di fondamento? Chi le aveva mancato di rispetto? Tutte queste domande cozzarono come tante palline di ferro scosse in un bicchiere, sotto un cipiglio di sfida. Non strepitava, non si agitava mica. Voleva soltanto sapere chi aveva osato mancare di rispetto, chi aveva creduto che sua cognata fosse una donna di quelle... «Demetrio,» continuò ella, alzandosi un poco sul cuscino e sostenendosi sulle braccia «se vi conto tutto, è perché sento che soltanto voi potete aiutarmi in questo momento: ma non voglio che per colpa mia voi dobbiate avere poi dei dispiaceri. Il danno materiale è poca cosa: lo compenserò, lavorerò, guadagnerò, dovessi vendere anche il letto....» «Sí, sí, ma voi dovete...» insisteva Demetrio stringendo un pugno tutto pieno di spigoli. «Abbiate pazienza, lo sbaglio fu tutto mio. Capisco che avrei dovuto essere piú prudente, credere meno alla gente. Ma ci sono andata in casa come si va nella casa di un benefattore; voi stesso mi avete parlato sempre di lui con una grande opinione. Chi doveva immaginare che quel signore, alla sua età... Insomma fui ingannata, ma la colpa è mia. Avrei dovuto credere ai vostri consigli. Quando sono uscita da quella casa mi pareva che la gente dovesse leggermi in viso la mia vergogna e mi pareva di sentire la voce di Cesarino che diceva: "Brava, begli esempi che dài alla tua figliuola!" Ah che notti ho passato mai ieri e ieri l'altro! Che cosa non ho pensato anche di voi, Demetrio! Dicevo: egli mi ha sempre parlato del cavaliere come di una persona molto rispettabile; gli ha raccomandato Mario per l'Orfanotrofio: gli ha subaffittato due stanze... Ma, Signore! che anche Demetrio aiuti a tradirmi? dove sono? in mano di chi sono? Capisco, forse sono una donna viziata dalla buona fortuna, una donna poco pratica, poco avveduta, ma quando ho dato prova, Gesú mio, di non essere una donna onesta? Se venisse qui il mio povero Cesarino, guardate, Demetrio,» e nel dir cosí si pose quasi a sedere sul letto, «se egli potesse uscire dalla sua fossa, vi giurerebbe sul capo de' miei figliuoli che io non ho mai tradito, nemmeno col pensiero, i miei doveri di buona moglie, e dal dí che egli è morto voi sapete che non ho fatto che piangere e pregare.» E tornando a rompere in un gran pianto, soggiunse: «Ditelo, ditelo a quel signore... ditelo alla gente... non aiutate anche voi a tradire una povera donna... Fatelo almeno per compassione de' miei figliuoli....» Beatrice, dopo questo sfogo, lasciò cadere la testa di nuovo sul guanciale colla pesantezza di persona sfinita. I suoi capelli in disordine, nel bianco delle coltri, spiccavano come una massa d'oro. Ora che aveva parlato e detto il suo peccato, le pareva di sentirsi quasi guarita. Nessuno l'aveva mai veduta cosí bella. Demetrio, irrigidito nei muscoli, ritto in piedi come un pilastro, colle mani schiuse ad un gesto che pareva indurito nell'aria, dopo aver capito tutto, anzi troppo, finí col non capir piú nulla. Aveva davanti a sé un bianco fantasma confuso dentro una nuvola, sentiva nelle orecchie il rumore d'una voce compassionevole; ma fatto stupido e farnetico dalla sofferenza, col cuore soffocato da uno sdegno tremendo, cogli occhi offuscati, stava lí che non sentiva nemmeno la terra sotto i piedi. È lungo dire tutto ciò che precipitò nel suo cuore in quell'istante, tutto ciò che il pianto e il rimprovero di quella donna eccitò in lui di terribile e di spaventoso tutto ciò che l'ira persuase di fare. Ma piú che dall'ira fu vinto dalla sua debolezza. La sua faccia somigliava a una maschera che piange. Era questa l'arte del saper vivere: questo il sugo dei pareri disinteressati: questo lo zelo per la pace di un uomo ingenuo caduto dalle tegole... O scempiaggine! o cattiveria umana! Egli per il primo, colla sua presunzione di far meglio degli altri e di aver ereditato tutto il buon senso di casa Pianelli aveva accolte le voci della malignità, aveva sospinta una povera donna nelle fauci del lupo. Però con questi bei servigi s'era procacciata una speciale benemerenza, forse una promozione nell'organico... to' to'... anche questo spiegava le riverenze del Ramella, gli amplessi del Quintina, le umili raccomandazioni del Bianconi. Dio, che vergogna, che abbiezione, che mortificazione alla nostra superbia! che avvilimento, che castigo! Sentiva quasi la vita rompersi e scassinarsi, come un vecchio orologio a cui la mano di un pazzo strappi la catena e faccia sonare tutte insieme le ore. Corse colla mano in cerca del fazzoletto, perché la testa gli si gonfiava e gli occhi s'imbambolavano. Crollando il capo, si mosse, andò fin sotto la finestra, appoggiò la fronte riarsa ai vetri, contro i quali batteva la pioggia fredda e sottile, e pianse col singhiozzo addolorato e rauco dell'uomo che non piange da un pezzo. «Perché piangete, voi?.. Non ne avete colpa, lo so. Anche voi avrete agito in buona fede... Io non vi accuso di questo, Demetrio. Abbiate pazienza.» Cosí sorse a dire con tono compassionevole la cognata. Quando fu dissipato quel gran fumo che gli velava il lume degli occhi, quando finalmente poté parlare, egli si voltò con un moto pronto e risoluto: «Sentite,» esclamò con una voce diversa di prima «è detto che io sono un povero imbecille» e siccome Beatrice voleva contraddire, egli gridò: «no, no, no: è vero, lo sono, lo sono. Se non lo dice nessuno, lo dico io: io sono un imbecille, un bestione,» insisté, portando i due pugni stretti alla fronte «un mammalucco, sono.» Beatrice voleva di nuovo protestare. «No, abbiate pazienza, lasciatemi dire. Io sono anche un imbecille presuntuoso, che dò pareri agli altri e non ne tengo per me. È giusto che porti la pena della mia asinità; ma sentite, Beatrice, com'è vero che stamattina ho fatto la santa Pasqua,» soggiunse alzando le due mani giunte «io sarei il piú vergognoso degli uomini, se questa ingiuria che vi hanno fatta non la ricacciassi in gola....» «Sentite....» «In gola, in gola...» tornò a ripetere quasi fuori di sé, mostrando i pugni alla terra «in gola a quell'impostore....» «Per carità, caro Demetrio» supplicava la malata, sollevandosi ancora un poco a sedere sul letto. «Ad uno ad uno gli farò ringoiare i buoni consigli che mi ha dato. Ah io sono un uomo ingenuo, io mi mangerò il fegato, mi farò maledire!?.. Glielo farò mangiar io il fegato a quel....» Ed aizzato dalla sua passione continuò a passeggiare su e giú per la camera come forsennato. Arabella, chiamata da quella voce stridula, corse e stette a sentire all'uscio col cuore in tempesta. Eravamo alle solite? Lo zio Demetrio non aveva mai gridato a quel modo. «Sentite una volta, Demetrio. Ora mi fate pentire d'aver avuto confidenza in voi. Abbiate pazienza, venite qua, sedetevi un momento, per l'amor di Dio. Non voglio che voi crediate il male piú grande che non sia.» Demetrio, quasi condotto da quella voce molle e insinuante, andò a sedersi su una scranna appoggiata al muro, e si raccolse in sé, con aria sdegnosa e spossata, curvò il corpo sulle gambe, appoggiando la faccia ai due pugni stretti. Beatrice, con un candore pieno di umile contrizione, prese a raccontare distesamente la sua visita al cavaliere, e perché vi era andata, e come avesse risposto alle sue insistenze, e come, tornata a casa, si togliesse d'addosso quel braccialetto che le bruciava le carni, e come finalmente ricorresse a lui, Demetrio, non per essere vendicata, ma soltanto per restituire al suo adoratore i denari ed il regalo, perché di questa roba non ne voleva piú sapere. E rigirando l'avventura un poco allo scherzo, mettendo nella voce un filo sottile d'ironia, finí col dire: «Io per me, me ne rido di quel vecchio sciocco e galante, del quale non ho mai cercata la protezione: ma voi potreste avere dei dispiaceri grossi. Egli è potente, è vostro superiore, e, non potendo vendicarsi su di me, avrebbe gusto di vendicarsi su di voi.» «Si vendichi...» sentenziò Demetrio, alzandosi sulla persona. E voleva dire: "Se vuole anche il mio sangue, se lo pigli..." ma la vista quasi improvvisa di quella donna che lo guardava cogli occhi grandi, l'abbagliò: tornò ad abbassare il capo, si restrinse, si contorse nella sua scontrosa debolezza, e sentendosi quasi morire, mandò col cuore un'ardente invocazione a quel Signore che aveva ricevuto nel petto la mattina. Il colloquio fu interrotto da Arabella che entrò leggermente con una medicina. La fanciulla era pallida, sconvolta, e le sue mani tremavano come se avesse indosso la febbre. Dietro di lei entrò anche la signora Grissini; cosí, dopo qualche sconnessa parola di complimento, Demetrio prese congedo e uscí, graffiando l'uscio, promettendo che si sarebbe lasciato rivedere presto. Aveva bisogno di respirare l'aria libera. Fece le scale, trovò la solita strada di casa sua quasi per miracolo, come se camminasse in sogno, sollevato una spanna dal suolo. La testa girava come un arcolaio che gira al sole, proiettando ombre strane e sgangherate sul fondo della sua coscienza. "Che talento, sor Pianelli!" andava declamando una voce in fondo a quel testone enorme che gli pesava sulle spalle, "che bel talento! e che furberia, Meneghino! valeva la pena di scendere dall'abbaino a predicare la morale agli altri e di credersi quasi l'incarnazione del buon senso, per fare in fondo queste belle figure!" E i bei consigli del suo benamato superiore? qui il bello toccava il sublime. "Povero Pianelli, lei è troppo ingenuo" la voce carezzevole e insinuante del cavaliere gli rinasceva nelle orecchie e gli dava la baia; "lei ha troppo buon cuore e il cuore è buono per i merli. Io le parlo come padre, come superiore: non sta nemmeno della sua dignità...." «Ah, sí, proprio?» esclamava, fermandosi sui due piedi in mezzo alla gente. Per fortuna e per grazia di Dio il cavalier Balzalotti non era a Milano e forse in quel momento lí dava a sua eccellenza il Ministro i suoi preziosi consigli: altrimenti egli sentiva che avrebbe fatto uno scempio, e poi finis mundi. Che gli importava adesso della sua vita? si poteva cadere piú basso di cosí, anche andando in prigione? "Non sta della mia dignità il patire la fame e la miseria coi disgraziati, ma è della dignità tua, o birbone, tendere la trappola a una povera donna, tirarla in casa colle belle, chiudere la chiave dell'uscio, far le moine del gattone, tentarla un po' colle dolci, un po' colle brusche, provarne la virtú coi regalucci? Ah birbonaccio!" Durante le ore che rimase all'ufficio, nei primi due giorni che tennero dietro al colloquio con Beatrice, non fece che ripetere quest'orazione, sogghignando dal suo posto alla poltrona vuota del cavaliere, la quale nella sua matronale tranquillità pareva rispondere: Io non c'entro. Lavorò poco, confusamente, evitò d'incontrarsi coi colleghi - birbonacci anche loro! "Vengano adesso a implorare la parolina! Venga il signor Bianconi, caro anche lui con quel fare di gattamorta! Non c'è piú da fidarsi in questo mondo, nemmeno dei piú vecchi amici." Una volta il Ramella, vedendolo passare, corse ad aprire la porta e a far le riverenze. «Stia comodo,» gli disse Demetrio con un sorriso amaro e gonfio «adesso è finita l'entratura.» «Cosa?» domandò il portinaio, che non aveva capito. «Uuh!» rispose con voce nasale Demetrio, rincagnando la faccia. "Non c'è piú da fidarsi di nessuno... Cara anche quella signora Palmira co' suoi buoni consigli, co' suoi segreti protettori. Bel regalo che ha fatto all'amica del suo cuore! e adesso bisogna trovare subito cento lire da restituire al buon benefattore, e bisogna farlo subito, per telegrafo se occorre, perché certi denari bruciano le mani. Dove trovarle cento lire? non le avrebbe chieste certamente a Paolino questa volta... A proposito. Non doveva egli consegnare una lettera di costui a Beatrice? L'aveva collocata sotto il calamaio... anzi l'aveva presa una volta con sé, ma la lettera non c'era piú, né qui, né là, né in fondo alle tasche. Che l'avesse perduta? La sua testa aveva ora ben altro da pensare che alle scalmane del signor Paolino. E perché non veniva lui a proteggere l'onore della sua fiamma, ma stava comodamente alle Cascine ad aspettare la manna dal cielo? oltre al resto doveva toccare anche a lui la parte del mediatore, per farsi odiare forse anche dal cugino? perché questa è la regola: piú un uomo si strugge per fare del bene e piú diventa antipatico e odioso. È meglio nascere con un ramolaccio al posto del cuore, guardare a sé, pensare a sé, fare il proprio interesse, pigliarsi i propri comodi, soddisfare i propri appetiti. Egoisti, egoisti, viva la vostra faccia!" Per due o tre giorni non fece che predicare a sé stesso, dentro di sé a questo modo con una violenza morbosa, fuggendo la faccia degli uomini, finché una volta si domandò, stringendo la testa nelle mani, se aveva il cervello a posto. Naldo aveva voluto tornare dalla sua mamma. Rimasto ancor solo in cima alle scalette, nella morta solitudine dei tegoli, Demetrio aveva tutto il tempo di torturarsi da sé, vittima di una forza alla quale non sapeva resistere. Ma il dispetto furioso, a poco a poco vinto dalla stanchezza stessa dei nervi, cominciò a cedere il posto a un'altra riflessione se pure meritava questo nome un lembo di sereno, che usciva or sí or no in mezzo alla nuvolaglia di tante brutte cose. Quel lembo di sereno era Beatrice. In fondo all'aspra battaglia, nell'abisso della sua vergogna, il pover'uomo si sentiva avvicinato non uno ma cento passi a quella donna. Qualche cosa che non si sa definire, qualche cosa che ti piglia e ti stringe i sensi del cuore, dandoti in mezzo alle sofferenze dell'agonia una goccia di dolcezza, seguitava a invadere l'anima. Egli viveva di quella goccia. Capiva come si possa accettare anche di morire per inebriarsi una volta di quella dolcezza e come si possa morire volentieri una volta gustata. Essa lo aveva chiamato una volta caro Demetrio; aveva steso verso di lui le braccia, supplicando ancora la sua protezione. Aveva con due parole perdonate tutte le amarezze sofferte da lui e le offese a cui l'aveva esposta la sua grossolana ignoranza. Beatrice nella sua bontà semplice e mite era passata in mezzo alle calunnie, come uno spirito che le cose del mondo non possono toccare. Non era una donna sublime, né per ingegno, né per arte di stare al mondo, né per tante altre cose che dànno poi il frutto che s'è visto: era una buona creatura, onesta per indole, affezionata alla sua gente, che chiedeva soltanto un po' di pace e un sorriso; ed egli aveva visto questa donna, coi capelli scomposti, cogli occhi lucenti verso di lui, nel suo gran letto bianco, mentre cercava di intenerirlo, con una voce supplichevole da rompere in due pezzi un ciottolo del selciato... Ah no! non si potevan covar idee d'odio e di vendetta con quella voce nel cuore... Questa voce lo svegliava nel pieno della notte. Si metteva a sedere sul letto, nel buio, cogli occhi fissi alle stelle e procurava di ricrearsi davanti il bianco e stupendo fantasma. Finí col non poter dormire piú. Il mattino lo sorprese piú d'una volta pallido, intirizzito sulla sponda del letto. O se la eccessiva prostrazione gli faceva posare un momento il capo sul cuscino e gli velava la pupilla, quanti fantasmi lividi e lucenti assalivano il suo spirito! Visioni morbide e morbose avviluppavano il suo pensiero, gli toglievano la forza di raccapezzarsi. "O Signore Iddio, abbiate misericordia di un povero uomo!..." esclamava in mezzo ai sogni nell'ombra. Da quelle visioni cadde in un letargo febbrile, che divenne ben presto una febbre bella e buona, poi un febbrone bruciante, che gl'impiombò le palpebre e lo tenne inchiodato in letto quasi una settimana.
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