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Info sull'Opera
Autore:
Emilio De Marchi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Demetrio Pianelli (III Parte,6,7 )

di Emilio De Marchi

Per alcuni giorni Beatrice visse nel pensiero e nella speranza di quella causa, che doveva rendere l'indipendenza a lei e ai suoi figliuoli. Non potendo piú resistere al desiderio di sapere quel che l'avvocato poteva aver detto in proposito al cavalier Balzalotti, una domenica, mentre i ragazzi erano a spasso nei giardini pubblici con Demetrio, uscí di casa, fece una corsa fino in via Velasca, trovò facilmente la porta dei bagni, chiese del cavaliere, le fu indicata una scala e suonò a un uscio del primo piano.
Dopo due minuti sentí un passo misurato accompagnato dallo scricchiolío delle scarpe e l'uscio si aprí.
«Oh chi vedo! la mia cara e buona signora Beatrice. Brava, arrivata a proposito. Avevo giusto detto alla signora Pardi di avvertirla. Venga avanti. Come sta? oh poverina, la trovo pallidina pallidina... Ma!» e tirò un sospirone. «Forse a venir dalla strada troverà un po' oscuro qua dentro... Per di qua, aspetti, chiudo l'uscio con un giretto di chiave, perché sono in casa solo e stando di là non si sente chi entra. Sicuro, io vivo sempre solo come un giovinotto, en garçon, con una vecchia Perpetua, che alla festa ha dieci messe da sentire e non so quante indulgenze da acquistare.»
Con tutte queste cose comuni il bravo signore procurò di confondere un improvviso affanno, da cui parve còlto nel trovarsi tutto a un tratto davanti una delle piú formose bellezze di Milano.
«Scuserà, cavaliere, se ho fatto la sfacciata» balbettò Beatrice anch'essa in soggezione di trovarsi alla presenza di una persona di tanto riguardo.
«Giusto, brava! si accomodi...» soggiunse il cavaliere, battendo tre colpetti sulla mano della signora Pianelli.
Il salotto dove l'introdusse era arredato con molto lusso, specialmente di cornici, e immerso in una calda e allegra penombra per via di due grandi trasparenti a fogliami colorati che ricordavano le foreste imbalsamate del lontano oriente. La fece sedere sopra un canapè, corse a prendere uno sgabellino che le mise ai piedi, con un fare cerimonioso come sempre, ma un po' piú timido e piú imbrogliato del solito.
Forse il buon benefattore non si aspettava cosí presto la visita. Forse non aveva ancora formato in testa un piano, e còlto cosí all'impensata era in paura o di far troppo, o di far troppo poco. Le donne! le donne non si sa mai come vanno pigliate. Sono un po' come le anguille. A dir la verità, coll'avvocato Ferriani non aveva ancora parlato. Non sapeva nemmeno dove stesse di casa questo signor avvocato. Se aveva anticipato una piccola somma (un centinaio di lirette), oltre che per le insistenze della Pardi, l'aveva fatto per un senso, diremo cosí, di carità.
«Io devo ringraziarla, cavaliere, di molte cose.»
«Di nulla mi deve ringraziare. Sarei venuto io stesso a casa sua, cara la mia signora, se non sapessi che Demetrio è contrario a questa causa. La Palmira - un bel tomo se ce n'è - mi ha contate le prodezze di questo signor Demetrio. Povera Beatrice! è stata una gran disgrazia.»
Il cavaliere si passò la punta delle dita sugli occhi per dissipare una certa nebbiolina.
«Ella ha avuta la bontà di parlare col signor avvocato.»
«Dovevo trovarmi ieri, ma c'è stato un contrattempo. Però prima di partire lo vedrò senza fallo. Sono chiamato a Roma dal Ministro per affari di ufficio e può essere che di là possa aiutare ancor meglio la faccenda. Conosco dei deputati....»
«Lei fa una grande opera di carità, cavaliere, ai miei figliuoli e al mio povero papà...»
«E non a lei? oh guarda che cattiva!.. e io che ci tenevo tanto alla sua riconoscenza....»
Il cavaliere rise di gusto e sedette su un tombolo di velluto colle ginocchia contro le ginocchia di Beatrice, voltando le spalle alle finestre.
Dallo sfondo rosso-bruno della tappezzeria la figura della vedova Pianelli avvolta nel suo gran velo a larghe pieghe usciva con un non so che di maestoso e di regale, che poteva intimidire anche un vecchio marinaio molto navigato nelle acque dolci delle avventure. Ma il cavaliere sapeva che, al disotto di quella prospettiva, c'era una donna molto buona, molto fatua, molto bambola, molto bisognosa, timida forse per esperienza, ma non piú fortificata delle altre.
Questa donna aveva cominciato coll'accettare delle anticipazioni.
Ora non c'era piú il marito geloso a far la guardia, e quell'altro guardiano dell'abbaino era un povero balordo, furbo come una giraffa, già sfiduciato e stracco di portare la croce.
Queste riflessioni, uscendo da diverse parti, confluivano in un momento come allo sbocco di un usciolino, facendo tutt'insieme un ingombro che non ne lasciava uscire nessuna. Il cavaliere le pensò in blocco e tanto per tastare terreno, soggiunse:
«Demetrio le avrà parlato di quel mio buon amico di Novara.»
«Difatti.»
«Gli scriverò domani che l'ho servito da principe. Cospettina, non càpita a tutti di poter dormire uscio a uscio con una bella padrona, come la mia cara signora Beatrice.»
«Lei vuol scherzare» interruppe Beatrice con un sorriso di compiacenza.
Non era la prima volta che il cavaliere si permetteva queste galanterie, e non era nemmeno la prima lei a riderne e a pigliarle per quel che valevano.
«Mi farò pagare profumatamente la mediazione.»
Qui, posando una manina delicata sul ginocchio di lei, continuò pesando sulle parole:
«Per me... confesso... che non potrei chiudere occhio.»
Beatrice, che non vedeva piú in là dello scherzo, sorrise abbassando gli occhi e mormorò:
«Caro lei....»
«Non crede che ne perderei il sonno? sarei costretto a dir rosari tutta la notte... Non è la prima volta che la mia cara signora Beatrice non mi lascia dormire.»
«Oh... no» fece Beatrice, protestando per celia.
«Davvero, sa...» tirò dritto il cavaliere che mentre si avanzava per tastare terreno, non si accorgeva di sprofondare nel molle. «Naturalmente ho sempre saputo rispettare le convenienze. Una donna maritata, si sa, impone dei doveri, specialmente quando ha un marito vivo, geloso, che non dorme. Ma se avessi potuto parlare, come possiamo parlare adesso, qui, in camera caritatis senza far torto ai morti, ho avuto anch'io il mio poema. Si ricorda questo carnevale? Tornavo a casa qualche volta da quelle benedette feste che parevo un uomo matto. Lei ride... capisco che son ridicolo: ma di chi è la colpa? di chi sono certi occhioni, eh? Pensi l'effetto che mi ha fatto l'altro giorno a sentire dalla Pardi che la povera mia signora Beatrice era caduta in tante angustie, che non aveva quasi piú pane per i suoi figliuoli e che si disperava sotto la sferza di un villanzone...: tanto, non è qui a sentire e possiamo chiamarlo col suo nome. Povera martire, povera pecorella! io non so di che cosa sarei capace per toglierla da questo letto di spine. Oh, non mi crede niente?»
«Che cosa?» domandò quasi stupidamente Beatrice, come se non avesse ascoltato nulla.
«O crede che tutti gli uomini siano egoisti a un modo? cosí giovane, cosí bella...» sospirò il cavaliere.
Un singhiozzo breve e rotto, mescolandosi alle parole, tradí piú che non fosse nelle intenzioni, i sottintesi e l'agitazione dell'oratore.
Beatrice, che quasi rideva ancora, alzò le palpebre e credette di scorgere delle vere lagrime negli occhi lustri del suo benefattore, che sprofondando sempre piú nel molle, cercò di trarre a sé la bella manina, la imprigionò nelle sue colla tenerezza con cui si prende e si carezza una cosa viva.
Beatrice s'irrigidí un poco e si ritrasse con un movimento scontroso.
«Io vorrei essere un re per dare a questa bellezza il trono che merita.»
Sorpreso anche lui, assalito, trascinato come una pecora dalla potenza cieca della sua passione, il povero signore non ponderava piú, non connetteva piú. I consigli della vecchia prudenza, che aveva sempre predicato di prendere le lepri col carro, questa volta non arrivavano piú fino a due orecchie intontite dal sangue e dalla vertigine.
Beatrice impallidí e cercò di alzarsi. Ma, trattenuta delicatamente, ficcò i grandi occhi stupiti in quegli occhietti lucidi che la affrontavano con violenza, con sete, guardò paurosamente intorno a sé, si sentí sola, chiusa dentro, in casa altrui, in balía altrui, si smarrí, supplicò con un gemito...
«Senti... Non sei tu libera e padrona di te? non posso io fare del gran bene a te ed a' tuoi figliuoli?...»
Beatrice si coprí il volto colle mani. Le pareva di scendere in una gola tenebrosa e senza fondo.
«No, forse?» ripeteva la vocina rasente al suo orecchio.
Nell'impeto del ribrezzo essa ritrovò l'energia: si alzò, con un gesto duro del braccio respinse l'insistenza di quel bravo signore. Gli occhi le si riempirono di un'insolita vita, la bocca si contrasse a un tremito di sdegno e di sarcasmo. Poi, come vinta alla sua volta dall'eccesso nervoso della sua energia, cadde di nuovo a sedere e, con la faccia dentro il fazzoletto, si pose a piangere dirottamente come una bambina battuta.
Il cavaliere, squilibrato, pentito, vergognoso, ma non istupidito del tutto, capí d'esser fuori di strada. Il cavallo gli aveva tolto la mano e prima di ribaltare del tutto cercò di mettere avanti le mani. Aveva voluto fare della poesia, alla sua età: male. Beatrice non era certamente venuta per sentire a recitare dei sonetti. Bisognava pigliarla lunga, girare la posizione. L'amore non si accende come un pagliaio e non c'è nulla che mandi piú fumo di un fuoco mal fatto. Non volendo perdere tutti i frutti della sua carità e delle sue intenzioni, si mise a sedere a fianco della povera disperata e con un tono tra l'offeso e il sostenuto cominciò a dire:
«Ma che bambina! ho detto cosí per... Che diamine! capisco che ho torto. Metta che abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c'è da piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo bene gli obblighi di ospitalità per... Che diavolo! Là, via, non mi dia questo rimorso d'averla fatta piangere cosí. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che cosa si diceva? ah, della causa e dell'avvocato. L'ho visto e mi ha detto che oramai non c'è piú nulla a sperare. È una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti....»
Per spiegare come un uomo avveduto cadesse cosí subito in contraddizione con ciò che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il cavaliere parlava, sí, colla bocca, ma il pensiero correva dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina - una vespa, in lega col diavolo - aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano.
Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira.
Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire.
Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto...
Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla.
Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore.
Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere...
Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí.
Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse.
Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare...
Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina...
Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a' suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio?
E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

VII

Oltre alle novità che Demetrio osservava in sé stesso (vale a dire una continua distrazione e quasi sospensione di volontà), c'era qualche cosa anche fuori di lui, che non cessava di risvegliare la sua meraviglia. Lasciamo stare che l'aria gli pareva diventata piú lucida e trasparente: ma anche la gente mostravasi come per miracolo piú affabile, piú ossequiosa verso di lui.
Il Ramella, il portinaio dell'ufficio, che non si scomodava mai se non presso le feste di Natale, ora aveva cento cose da raccontare al signor Pianelli, e correva anche a tener l'uscio, quando lo vedeva passare. Sapendo che il cavalier Balzalotti doveva andare a Roma per la discussione del nuovo organico, il galantuomo si raccomandava al bravo signor Pianelli, perché vedesse, cercasse di mettere una buona parola. Quando si hanno cinque figliuoli da mantenere e la donna che allatta, va compatito anche un povero padre di famiglia se si raccomanda. Il sor Pianelli era quel tal uomo, che aveva col cavaliere, diremo cosí una entratura per la quale...
«Che entratura?» esclamava Demetrio ridendo.
Capiva i bisogni: ma che entratura? Il suo mestiere era di copiare e basta.
Un altro giorno s'incontrò nel Quintina, il gobbetto noto per la sua lingua lunga, che non era nemmeno della sua sezione.
«Oh, caro Pianelli, come sta?» prese a cantare colla sua voce chiara quel simpaticone, andandogli incontro e fermandolo a metà della scala. «Lei è bene il fratello del povero Cesarino?! Oh, guarda! eravamo tanto amici! Oh dica: è vero che il cavaliere va a Roma?»
«Sí.»
«Vorrebbe farmi la gentilezza di ricordargli una certa istanza che gli ho presentata? sa, senza farsi scorgere, dica cosí: Il ragionier Quintina chiede se ella ha ricevuto quella tal carta... Mi fa un gran favore. E in quello che posso anch'io, comandi: son qui alla terza sezione.»
«Bella anche questa!» ruminò Demetrio nell'andar su. «Si accorge ora ch'io sono al mondo, e pare che m'abbia tenuto a battesimo. Vuol diventare cavaliere, lo so; e incarica me di toccare il tempo al meccanismo.»
Quel giorno stesso, o il giorno dopo, ricevette la visita del Bianconi, durante le ore in cui il cavaliere era a far colazione al Caffè Sanquirico.
«Come va, Bianconi? Non ci vediamo mai. Che miracolo?»
Era costui un buon diavolo sulla cinquantina, tutto bianco di capelli, col viso ancora colorito e fresco, lavoratore instancabile, ma pieno di una grande soggezione per tutto ciò che riguardava un po' da vicino i superiori, il ministero, quelli che comandano. Non aveva osato presentarsi al cavaliere, e anche adesso, sebbene l'avesse veduto uscire dalla porta, temeva sempre di averlo alle spalle.
Avanzandosi in punta dei piedi, con un dito sulla bocca posto come un uncino, disse con un fiato spento di voce:
«Va a Roma il...?»
E segnò coll'indice mezzo nascosto dall'altra mano la poltrona vuota del cavaliere, verso la quale non osava quasi volgere il capo.
«Sí, perché?» chiese Demetrio, la voce del quale impaurí il pover'uomo, che si volse a dare un'occhiata all'uscio.
«È perché,» continuò, senza distaccare il dito dalla bocca «vorrei che gli dicessi una parolina....»
«O bravo, poiché ci sei, spiegami un po' questo bel giuoco. A sentirvi, io ho l'organico in saccoccia....»
«No, no, non si sa mai... Una parolina...» e, colle due mani congiunte come due ali, pareva che il Bianconi volesse covarla quella parolina cosí miracolosa.
«Per me, se mi capita, la dirò: ma non capisco....»

A toglierlo d'imbarazzo il cavaliere non si lasciò vedere per qualche giorno, o comparve un momento in gran furia, tutto occupato del suo fascio di carte da portare a Roma, e in continui colloqui con questo e quest'altro pezzo grosso dell'amministrazione. Del Pianelli non si curò piú che della gamba del tavolo. Ciò avvenne il lunedí dopo il tenero colloquio con Beatrice. La sera il bravo signore partí col diretto e buon viaggio!
Demetrio rimasto solo e con poco da fare si preparò a godere una mezza vacanza. Egli aveva sempre davanti un bel panorama e nessuno poteva proibirgli ora di stare seduto coi ginocchi nelle mani o coi pollici tuffati nei taschini del panciotto, in estasi dietro la processione de' suoi pensieri.
L'intensità di questa contemplazione era tale, che qualche volta dimenticava l'ufficio, il tavolino, la sedia, e zufolando, senza accorgersi, un'arietta, facendo saltare una gamba sull'altra, non si svegliava da quei sogni che alle acute trafitte che gli dava il cuoio duro della sedia, o a un certo dolore duro delle mascelle.
Intanto la lettera di Paolino continuava a rimanere schiacciata da un calamaio e da un "vedremo". Egli non intendeva di rubare a nessuno, ma credeva lecito di aggiornare la pratica, come si dice, nello stile del mestiere.
In mezzo alle gioie delle dolci visioni e tra gli indugi della volontà, respinta ma non strozzata parlava però sempre la voce della coscienza onesta e ragionevole. "Che diavolo aveva indosso? e che gli saltava in mente? che nuova bestia ruggiva in lui? che cosa intendeva di fare? tagliare le gambe a Paolino? opporsi alla bontà della provvidenza? tradire una povera donna, rovinare lei, sé, gli innocenti? rendersi stupido, ridicolo? far ridere i polli colle sue contraddizioni? e che cosa erano queste scalmane? ohè, signor Demetrio, dove si va? si diventa matti? mancherebbe anche questa; oltre al tradimento farsi dei carichi di coscienza...." E il piú bello era questo, che si accorgeva soltanto adesso che sua cognata era una donna e una bella donna per giunta. Che talento! aveva avuto bisogno che venissero dalle Cascine per dirglielo. Una commedia da burattini addirittura...
E nella evidenza del contrasto si metteva a rider forte, come se si trattasse di un babbeo fuori di lui. Il suono della sua voce lo richiamava alle cose e alle idee di questo mondo. Si alzava, aggiustava colle due mani la testa e le gambe ingranchite, dava una giravolta per la stanza, e via, pigliava il cappello, via a sciorinare la malinconia all'aria e al sole di piazza Castello, a cercare una salutare distrazione alle baracche del Tivoli, dove si mostrano le piú grandi meraviglie dell'universo. Le piante vestivano il primo verde. Sull'orlo dei viali, ancora umidi e freschi, cresceva un'erba tenera che faceva piacere al cuore, come se quel poco verde, serpeggiante nell'arido anfiteatro di una grande città tutta polvere e sassi, fosse un ricordo della buona madre natura, che comincia fuori dei bastioni. Nello sfondo nitido di piazza d'Armi spiccava l'arco della pace, co' suoi cavalli neri sul marmo bianco, e dietro l'arco uscivano le cime nevose delle prealpi lontane e del Monte Rosa, che nei giorni asciutti si rivela ai milanesi come l'idea un po' confusa d'un mondo migliore.
Demetrio si distraeva volentieri dietro le evoluzioni dei cavalli, che manovravano davanti il castello, e stava a sentire le leggende dei saltimbanchi, delle sonnambule che vendono la fortuna che non hanno, degli spacciatori di mastici e di quanti concorrono e cooperano alla grande fabbrica del buon appetito. Quante miserie ha il mondo! che pietà gli facevano quei poveri bambini dei saltimbanchi, scialbi di fame, e tremanti sotto il sole di maggio! E c'è della gente che prende gusto a popolare il mondo di morti di fame, di tisici, di ladroncelli, di pidocchiosi... Anche lui aspirava a questa gloria della propagazione degli stracci! che amore? egoismo, niente altro che egoismo! "Con questa logica si può giustificare il ladro e l'assassino che ti pianta il coltello nel cuore. Approfittare della confidenza di un amico per tradirlo, per tagliargli le gambe... beh! azione infame, azione da ragazza che dice: dammi indietro la mia pigotta, che non gioco piú. Egoismo, passionaccia sporca, desiderio bestiale. L'amore è grande, l'amore è bello, l'amore è poetico, è generoso l'amore...".
E via sempre di questo passo a voltare e a rivoltare la questione. Ed ebbe la pazienza di continuare due o tre giorni in questa strana, maledetta battaglia. Ma il buon senso c'è per qualche cosa: passata la terzana, un dopopranzo, prese la lettera di Paolino, la mise in una bella busta di carta, e con passo risoluto, di prussiano ch'entra in Parigi, andò in Carrobio a perorare la causa del piú onesto, del piú buono, del piú generoso degli uomini.
Le tentazioni non bisogna allattarle, ma cercare di strozzarle in cuna. Dente strappato non duole piú.
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