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Info sull'Opera
Autore:
Tommaso Campanella
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

La Citta del Sole ( Seconda parte,1 )

di Tommaso Campanella

Se alcune di queste donne non concipeno con uno, le mettono con altri; se poi si trova sterile, si può accomunare, ma non ha l’onor delle matrone in Consiglio della generazione e nella mensa e nel tempio; e questo lo fanno perché essa non procuri la sterilità per lussuriare.
Quelle che hanno conceputo, per quindici giorni non si esercitano; poi fanno
leggeri esercizi per rinforzar la prole e aprir li meati del nutrimento a
quella. Partorito che hanno, esse stesse allevano i figli in luochi communi, per
due anni lattando e più, secondo pare al Fisico. Dopo si smamma la prole, e si
dona in guardia delle mastre, se son femine, o delli maestri., con gli altri
fanciulli; e qui si esercitano all’alfabeto, a caminare, correre, lottare e alle
figure istoriate; e han vesti di color vario e bello. Alli sette anni si donano
alle scienze naturali, e poi all’altre, secondo pare agli offiziali, e poi si
mettono in meccanica. Ma li figli di poco valore si mandano alle ville, e,
quando riescono, poi si riducono alla città. Ma per lo più, sendo generati nella
medesima costellazione, li contemporanei son di virtù consimili e di fattezze e
di costumi. E questa è concordia stabile nella republica, e s’amano grandemente e aiutano l’un l’altro.
Li nomi loro non si mettono a caso, ma dal Metafisico, secondo la proprietà,
come usavan li Romani: onde altri si chiamano il Bello, altri il Nasuto, altri
il Peduto, altri Bieco, altri Crasso, ecc.; ma quando poi diventano valenti
nell’arte loro o fanno qualche prova in guerra, s’aggiunge il cognome dall’arte,
come Pittor Magno, Aureo, Eccellente, Gagliardo, dicendo: Crasso Aureo, ecc.; o pur dall’atto dicendo: Crasso Forte, Astuto, Vincitore, Magno, Massimo, ecc., e dal nemico vinto, come Africano, Asiano, Tosco, ecc.; Manfredi, Tortelio dall’aver superato Manfredi o Tortelio o simili altri. E questi cognomi
s’aggiungono dall’offiziali grandi, e si donano con una corona conveniente
all’atto o arte sua, con applauso e musica. E si vanno a perdere per questi
applausi, perché oro e argento non si stima se non come materia di vasi o di
guarnimenti communi a tutti.
OSPITALARIO: Non ci è gelosia tra loro o dolore a chi non sia fatto generatore o quel che ambisce?
GENOVESE: Signor no, perché a nullo manca il necessario loro quanto al gusto; e la generazione è osservata religiosamente per ben publico, non privato, ed è
bisogno stare al detto dell’offiziali. Platone disse che si dovean gabbare li
pretendenti a belle donne immeritamente, con far uscir la sorte destramente
secondo il merito; il che qui non bisogna far con inganno di ballotte per
contentarsi delle brutte i brutti, perché tra loro non ci è bruttezza; ché,
esercitandosi esse donne, diventano di color vivo e di membra forti e grandi, e
nella gagliardia e vivezza e grandezza consiste la beltà appresso a loro. Però è
pena della vita imbellettarsi la faccia, o portar pianelle, o vesti con le code
per coprir i piedi di legno; ma non averiano commodità manco di far questo,
perché chi ci li daria? E dicono che questo abuso in noi viene dall’ozio delle
donne, che le fa scolorite e fiacche e piccole; e però han bisogno di colori e
alte pianelle, e di farsi belle per tenerezza, e così guastano la propria
complessione delle prole. Di più, s’uno s’innamora di qualche donna, è lecito
tra loro parlare, far versi, scherzi, imprese di fiori e di piante.
Ma se si guasta la generazione, in nullo modo si dispensa tra loro il coito, se
non quando ella è pregna o sterile. Però non si conosce tra loro se non amor
d’amicizia per lo più, non di concupiscenza ardente.
La robba non si stima, perché ognuno ha quanto li bisogna, salvo per segno
d’onore. Onde agli eroi ed eroisse la republica fa certi doni, in tavola o in
feste publiche, di ghirlande o di vestimenta belle fregiate; benché tutti di
bianco il giorno e nella città, ma di notte e fuor della città vestono a rosso,
o di seta o di lana. Abborreno il color nero, come feccia delle cose, e però
odiano i Giapponesi, amici di quello. La superbia è tenuta per gran peccato, e
si punisce un atto di superbia in quel modo che l’ha commesso. Onde nullo
reputa viltà servire in mensa, in cucina o altrove, ma lo chiamano imparare; e dicono che così è onore al piede caminare, come all’occhio guardare; onde chi è deputato a qualche offizio, lo fa come cosa onoratissima, e non tengono schiavi, perché essi bastano a se stessi, anzi soverchiano. Ma noi non così, perché in Napoli son da trecento milia anime, e non faticano cinquanta milia; e questipatiscono fatica assai e si struggono; e l’oziosi si perdono anche per l’ozio, avarizia, lascivia e usura, e molta gente guastano, tenendoli in servitù e
povertà, o fandoli partecipi di lor vizi, talché manca il servizio publico, e
non si può il campo, la milizia o l’arte fare, se non male e con stento. Ma tra
loro, partendosi l’offizi a tutti e le arti e fatiche, non tocca faticar quattro
ore il giorno per uno, sì ben tutto il resto è imparare giocando, disputando,
leggendo, insegnando, caminando, e sempre con gaudio. E non s’usa gioco che
si faccia sedendo, né scacchi, né dadi, né carte o simili, ma ben la palla, il
pallone, rollo, lotta, tirar palo, dardo, archibugio.
Dicono ancora che la povertà grande fa gli uomini vili, astuti, ladri,
insidiosi, fuorasciti, bugiardi, testimoni falsi; e le ricchezze insolenti,
superbi, ignoranti, traditori, disamorati, presumitori di quel che non sanno.
Però la communità tutti li fa ricchi e poveri: ricchi, ch’ogni cosa hanno e
possedono; poveri, perché non s’attaccano a servire alle cose, ma ogni cosa
serve a loro. E molto laudano in questo le religioni della cristianità e la vita
dell’Apostoli.
OSPITALARIO: E’ bella cosa questa e santa; ma quella delle donne communi pare dura e ardua. S. Clemente Romano dice che le donne pur sian communi, ma la glosa intende quanto all’ossequio, non al letto, e Tertulliano consente alla glosa; ché i Cristiani antichi tutto ebbero commune, altro che le mogli, ma queste pur furo communi nell’ossequio.
GENOVESE: Io non so di questo; so ben che essi han l’ossequio commune delle
donne e ‘l letto, ma non sempre, se non per generare. E credo che si possano
ingannare ancora; ma essi si difendono con Socrate, Catone, Platone e altri.
Potria stare che lasciassero quest’uso un giorno, perché nelle città soggette a
loro non accommunano se non le robbe, e le donne quanto all’ossequio e all’arti, ma non al letto; e questo l’ascrivono all’imperfezione di quelli che non han filosofato. Però vanno spiando di tutte nazioni l’usanze, e sempre migliorano; e quando sapranno le ragioni vive del Cristianesimo, provate con miracoli, consentiranno, perché son dolcissimi. Ma fin mo trattano naturalmente, senza fede rivelata; né ponno a più sormontare.
Di più questo è bello che fra loro non ci è difetto che faccia l’uomo ozioso, se
non l’età decrepita, quando serve solo per consiglio. Ma chi è zoppo serve alle
sentinelle con gli occhi; chi non ha occhi serve a carminar la lana e levar il
pelo dal nervo delle penne per li matarazzi; chi non ha mani, ad altro
esercizio; e se un solo membro ha, con quello serve; ma questi stanno, se non
furo illustrissimi per la città, nelle ville, e son governati bene, e son spie
che avvisano alla repubblica ogni cosa.
OSPITALARIO: Di mo della guerra; ché poi dell’arti e vitto mi dirai, poi delle
scienze, e al fine della religione.
GENOVESE: Il Potestà tiene sotto di sé un offiziale dell’armi, un altro
dell’artellaria, un delli cavalieri, un delli ingegneri; e ognuno di questi ha
sotto di sé molti mastri di quell’arte. Ma di più ci sono gli atleti, che a
tutti insegnano l’esercizio della guerra. Questi sono attempati, prudenti
capitani, che esercitano li gioveni di dodici anni in suso all’arme; benché
prima nella lotta e correre e tirar pietre erano avvezzi da mastri inferiori. Or
questi l’insegnano a ferire, a guadagnar l’inimico con arte, a giocar di spada,
di lancia, a saettare, a cavalcare, a sequire, a fuggire, a star nell’ordine
militare. E le donne pure imparano queste arti sotto maestre e mastri loro, per
quando fusse bisogno aiutar gli uomini nelle guerre vicine alla città; e, se
venisse assalto, difendono le mura. Onde ben sanno sparar l’archibugio, far
balle, gittar pietre, andar incontro. E si sforzano tor da loro ogni timore, e
hanno gran pene quei che mostran codardia. Non temono la morte, perché tutti credono l’immortalità dell’anima, e che, morendo, s’accompagnano con li spiriti buoni o rei, secondo li meriti. Benché essi siano stati Bragmani pittagorici, non credono trasmigrazione d’anima, se non per qualche giudizio di Dio. Né s’astengono di ferir il nimico ribello della ragione, che non merita esser uomo.
Fanno la mostra ogni dui mesi, e ogni giorno ci è l’esercizio dell’arme, o in
campagna, cavalcando, o dentro, e una lezione d’arte militare, e fanno sempre
leggere l’istorie di Cesare, d’Alessandro, di Scipione e d’Annibale, e poi dànno
il giudizio loro quasi tutti, dicendo:—Qui fecero bene, qui male—; e poi
risponde il maestro e determina.
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