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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
1. Il savio parla
Non una ma tre primavere erano passate dopo quell'autunno del 1855 senza la fioritura d'armi e di stendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Ticino. Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbe passata così la quarta. Grandi avvenimenti, annunciati debitamente da una splendida cometa, erano in cammino. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti e scricchiolii sordi, come nelle viscere d'un fiume gelato alla vigilia dello sgelo. Il freddo mortale, il silenzio pauroso di dieci anni erano per passare portati via in un fragor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti. Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guardie, che tacevano, di una prossima passeggiata militare a Torino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavuto bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dalla fine comica del «marsinon», aveva perduto ogni stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, tedescone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritissimo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco, gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio sott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di presentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo: Stare nostre crante ulane Qua fenute d'Ungheria, Ma franzose crante...! Fato tuti scappar fia! E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!» Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraio Luisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vestiva ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhi più grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dal giorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Uscita dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accompagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire il rosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupo che aveva posato le viole sopra la fossa di Maria. Parlò serena, ilare quasi, con l'una e con l'altra, domandò di una bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che andava al rosario con la nonna, le raccomandò di stare tranquilla in chiesa come sempre vi stava la sua Maria. Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre quelle donne rabbrividivano e anche stupivano perché adesso Luisa non andava in chiesa mai. Domandò a una ragazza se i giovanotti pensassero, come al solito, di recitare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerse aiuto per i costumi. Si accomiatò sul sagrato dell'Annunciata e nello scender soletta la Calcinera riprese il viso di spettro. Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. La felicità del professore, la sua adorazione per Ester vorrebbero un poema. Lo zio Piero diceva di lui ch'era diventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo e non gli permetteva, quando c'era gente, di prender davanti a lei certe pose estatiche. La sola persona per la quale non valesse questa proibizione era Luisa. Ma di Luisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sempre per lui un essere sovrumano; al rispetto per la persona s'era aggiunto il rispetto per il dolore e in presenza di lei egli teneva sempre un contegno riguardoso. Da due anni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ogni sera e, se qualche cosa poteva turbare la pace degli sposi, erano queste visite. Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico a Ester; ma Ester aveva un tale affetto per l'amica sua, una tale pietà della sua sventura e si sentiva fitto nel cuore un tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Maria nel giorno terribile, che non osava opporsi risolutamente ai desideri di lei né distogliere suo marito dall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua disapprovazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò che faceva di sera nello studio del professore; non andò più oltre. Il professore, invece, sarebbe stato felice di questi convegni ma soffriva del dispiacere di Ester. Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casa Gilardoni. Fu Ester che le aperse. Luisa non rispose al suo saluto che le parve imbarazzato, la guardò soltanto e quando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passar le sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente che l'altra si mise a piangere. «Abbi pazienza», le disse Luisa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a confortarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore, la riunione con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardia sarebbe libera, Franco ritornerebbe a casa. E allora... allora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe ritornare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò le mani. «No!», diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai! mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!» Ester non poté replicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il professore. Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di lagrime e che Luisa pareva sovreccitata. Salutò mogio mogio e sedette in silenzio accanto a Ester, immaginando che avessero parlato del solito argomento spiacevole a sua moglie. Questa avrebbe voluto mandarlo via, riprendere il discorso con Luisa, ma non osò farlo. Luisa fremeva contro quella immagine di futuro pericolo che di quando in quando le si era affacciata confusamente all'anima, che aveva sempre cacciata con orrore prima di considerarla, e che ora, per le parole dell'amica sua, le risorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, penoso silenzio, Ester sospirò e le disse sottovoce: «Va' pure, sai. Andate pure». Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò davanti all'amica sua, le posò il capo in grembo. «Sai», diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima credevo che ci fosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista; ma se vi fosse il Dio buono nel quale credi tu, non potrebbe condannare una madre che ha perduto la sua unica figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei vive ancora!» Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suo marito e Luisa evocavano la bambina morta. Il professore Gilardoni, strano miscuglio di libero pensatore e di mistico, aveva letto con moltissimo interesse le cose meravigliose che si raccontavano delle sorelle americane Fox, degli esperimenti di Eliphas Levi, aveva seguito il movimento spiritista propagatosi rapidamente in Europa come una mania che prendeva le teste e le tavole. Ne aveva parlato a Luisa, e Luisa, invasa, acciecata dall'idea di poter sapere se la sua bambina esistesse ancora e, posto che esistesse, di aver qualche comunicazione con lei, non vedendo altro in tutto il meraviglioso dei fatti e lo strano delle teorie che questo punto lucente, lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento con Ester e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannaturale che alla dottrina cristiana. Non pigliò quindi la cosa sul serio e acconsentì subito a posar le mani sopra un tavolino insieme all'amica e al marito, il quale, dal canto suo, mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. I primi esperimenti non riuscirono. Ester, molto annoiata, avrebbe voluto che si rinunciasse a continuare; ma una sera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, si chinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, si riabbassò, tornò ad alzarsi, con grande sgomento di Ester, con gran gioia del professore e di Luisa. La sera dopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il professore gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il tavolino rispose battendo il piede a terra secondo l'alfabeto suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo nome: Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, il professore tremava di commozione, voleva far sapere a Van Helmont che aveva in biblioteca le sue opere, ma Luisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. Van Helmont rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida come un cadavere, si alzò protestando che non voleva continuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero a persuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non aveva un sentimento religioso profondo, ma paura del diavolo e dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo non fu possibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo marito non osava contraddirla. Fu Luisa che a forza di scongiuri ottenne una transazione. Le sedute ricominciarono ma Ester non vi prese parte più. Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamente, quando vedeva sua marito preoccupato, distratto, gli gittava un'allusione crucciosa alle pratiche segrete dello studio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, ed era Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché, indirettamente, aveva capito che Luisa credeva di comunicare con lo spirito della bambina. Ella le aveva detto una volta: «Domani sera non vengo perché Maria non vuole». E un'altra volta: «Vado a Looch perché Maria vuole un fiore dalla Nonna». A Ester pareva incredibile che una testa lucida e forte come quella si smarrisse così. Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensa di persuaderla con le buone e la crudeltà di opporsele con le cattive. Il professore accese una candela e salì, seguito da Luisa, nello studio. Noi conosciamo lo studiolo simile a una cabina di bastimento, con gli scaffali pieni di libri, il caminetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona dove Maria s'era addormentata la notte di Natale. Adesso v'era di più, fra il caminetto e la finestra, un piccolo tavolino rotondo con un sol piede tripartito a un palmo da terra. «Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «di far tanto dispiacere a Ester.» Posò il lume sulla scrivania e invece di disporre, secondo il solito, il tavolino e le sedie, andò a guardar dalla finestra il chiaror vago dell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa rimase immobile e subito egli si voltò bruscamente come avesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di lei. Gliela vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva risoluto di troncare mentre ne aveva solamente avuta la tentazione e le prese, commosso, le mani, le disse che Ester era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui né lei avrebbero mai voluto recarle volontariamente un'afflizione. Luisa non rispose ma il professore durò fatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre egli collocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie, ella sedette sulla poltrona, come oppressa. «Ecco», fece il professore. Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera. «Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella «Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagina.» Il professore non intese queste ultime parole, si accostò al lume e lesse ad alta voce: Torino, 18 febbraio 1859. Luisa mia, Sai che non mi hai scritto da quindici giorni? «Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi si corresse. «No, legga pure, è meglio.» Il professore continuò: Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta la tua del 6. Sono stato forse, nella prima, troppo vivace e ti ho ferita. Benedetto temperamento il mio, che non solo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue mi si riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto sangue che a trentadue anni suonati si riscalda come a ventidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di ritornare sull'argomento onde riprendermi quelle parole che hanno potuto offenderti. Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti, non si discorre che di diplomazie e di guerra; ma gli anni scorsi se ne parlò moltissimo e parecchie persone che io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positivamente che erano illuse ma non ho mai dubitato, quando mi riferivano conversazioni avute con gli spiriti, della loro buona fede. Pare che l'immaginazione, eccitata, possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma io voglio credere che nel tuo caso non v'inganni l'immaginazione, che il vostro tavolino si muova e si esprima davvero come dici. Ho avuto torto di metter questo in dubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di non ingannarti e poiché conosco abbastanza l'onestà del professor Gilardoni. Ma vi è poi per me una questione di sentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio, io ho la speranza di andare un giorno, con altre anime a me care, dov'ella è. Se mi comparisse spontaneamente, se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua voce viva e vera, forse non potrei sopportare una gioia così grande; chiamarla, costringerla di venire non vorrei mai. Mi ripugna, è contrario a quel senso di venerazione che ho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io, Luisa, parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di me e anche di te, sapendo che ci vede, che ci ama, che potrà molto ancora, in questa vita stessa, sopra di noi. Tali vorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendo alla lettera in cui alludevi a una comunicazione di lei mi sono espresso con acerbità, perdonami in grazia non solamente del mio cattivo carattere ma delle idee altresì e dei sentimenti che sono come parte della mia natura. Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immensa in cui si vive qui. La mia gola sta bene; da quando si parla di guerra ho gittato canfora e acqua sedativa, ma i nervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarli dieno scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoro che abbiamo al Ministero, dove non c'è più orario e chi più gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più deve sgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà del conte di Cavour, mi pareva di mangiare il pane dello Stato a tradimento. Adesso non è così ma sto per togliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altro discorso che ho nel cuore da un pezzo e che adesso ti faccio con una commozione indicibile. Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo nell'esercito come volontari per la durata della campagna; Si entra nel 9° fanteria che ha il deposito a Torino. Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma io intendo di trovarmi istruito al reggimento quando entrerà in campagna e ho solamente preso l'impegno di non lasciar l'ufficio che un giorno prima di arruolarmi. Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci vediamo. Vero che tu sei sorvegliata dalla Polizia e che ti è proibito di venire a Lugano; però io ti ho proposto più volte più modi di venirmi a incontrare segretamente almeno al confine, sulla montagna, e tu non mi hai risposto. Ho creduto indovinare che tu non ti sapessi allontanare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pareva troppo e ti confesso che ne provai un'amarezza molto profonda! Poi mi pentivo, mi pareva d'essere egoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sono mutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibile di aver a restare sopra un campo di battaglia, ma impossibile non è. Prenderò parte ad una guerra che si annuncia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perché se l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, e forse anche l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuoco tutto. Si dice che passeremo l'inverno venturo sotto Verona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di morire senz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non posso venire al confine né a Lugano, né mi può bastare di star con te dieci minuti! Fatti portare a Lugano, in qualche modo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da Lugano in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da Luino non puoi passare. A Magadino piglierai il battello che parte di là circa al tocco e mezzo. Scenderai circa alle quattro a Isola Bella dove, presso a poco alla stess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a questa stagione, è un deserto. Vi passeremo la sera insieme e ripartiremo la mattina, tu per Oria, io per Torino. Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgo un giorno della tua compagnia. Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pensano che alle armi, la loro Polizia si lascia sfuggire migliaia di giovani che vengono a prenderle qui. Sarebbero terribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, per essi, viva Dio! non verrà. Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, che tu creda far piacere a Maria non venendo? Ma non sai, la mia Maria, la mia povera piccina, se le avessero detto corri a salutar il tuo papà che forse va a morire come... La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un singhiozzo. Luisa si nascose il viso fra le mani. Egli le posò la lettera sulle ginocchia e disse a stento: «Donna Luisa, può avere un dubbio?» «Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.» «Ma non gli vuol bene?» «Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.» «Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La commuove l'idea che potrebbe non vederlo mai più?» Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisamente in piedi stringendosi le tempie fra le mani, piantò in viso al professore due occhi dove non erano lagrime ma invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa», esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di contraddizioni, quante idee opposte che si combattono e prendono continuamente il luogo l'una dell'altra! Quando ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta: "sì, povero Franco, stavolta vado", e poi ecco una voce che mi dice qui nella fronte: "no, non devi andare perché... perché... perché...".» Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da bagliori di pazzia negli occhi che lo fissavano, non osò chiedere spiegazioni. Gli occhi strani sempre fissi ne' suoi vennero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani, gli disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria». Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il professore voltava le spalle al lume che batteva sul viso di Luisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo undici minuti di silenzio profondo il professore mormorò: «Si muove». Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando da un lato. Ricadde e batté un piccolo colpo. Il viso di Luisa s'illuminò. «Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito alfabeto.» Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poi diciotto, poi uno. «Rosa», disse il professore, piano. Rosa era il nome di una sorellina di sua moglie, morta nell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altre volte questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaci Maria.» Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté queste parole: «Son qui. Maria.» «Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con un'espressione, in viso, di beatitudine. «Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre ha scritto a tua madre?» Il tavolino rispose: «Sì». «Cosa deve fare tua madre?» Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino rimase immobile. «Rispondi», fece il professore. Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensibile di lettere. «Non abbiamo capito. Ripeti.» Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il professore quasi bruscamente. «No!», supplicò Luisa. «Non insista, non insista! Maria non vuol rispondere!» Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile», diceva, «che lo spirito non risponda. Lei lo sa, ci è successo altre volte di non intendere quel che dice.» Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di costringere Maria era contenta d'interrompere la seduta. Il professore rimase meditabondo al proprio posto. «Zitto!», diss'egli. Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi. «Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato col pensiero s'Ella deve andare e il tavolino ha risposto "sì". Ridomandi lei ad alta voce.» Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino si rimettesse in moto. Alla domanda di Luisa «debbo andare?» batté prima tredici colpi poi quattordici. La risposta era «no». Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con lo sguardo. Egli rimase lungamente muto, poi rispose sospirando: «Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spirito di menzogna». «E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente. «Impossibile. Non si può sapere.» «Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è certezza mai?» «Mai.» Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva essere così. Doveva mancarmi anche questo». E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela batteva sui capelli, sulle braccia, sulle mani di lei. Ella non si moveva, nulla si moveva nella camera, tranne la fiammella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un ultimo lume di speranza e di conforto stava morendo nella povera testa caduta sotto il colpo d'un dubbio amaro e invincibile. Che poteva fare, che poteva dire il Gilardoni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per opera sua, il desiderio di Ester. Tre o quattro minuti dopo si udirono passi al piano inferiore e la voce di Ester. Luisa, lentamente, si alzò. «Andiamo», diss'ella. «Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni, senza muoversi. «Bisognerebbe forse domandare agli spiriti se confessano Cristo.» «No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, anche con la mano, ostilmente. Il professore prese la candela in silenzio. Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposanto. Vi appoggiò la fronte, gittò verso la fossa di Maria un soffocato addio e ridiscese. Giunta sul sagrato andò ad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormentato nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pensiero per la sua china. Posò i gomiti sul parapetto, si piegò, si appoggiò il viso alle mani sempre guardando l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensiero veniva pigliando una forma precisa non dentro a lei ma laggiù nell'acqua. Essa lo considerò. Morire, finire. Lo conosceva, lo aveva veduto ancora questo pensiero guardando nell'acqua così, molto tempo addietro, prima di cominciare le evocazioni col professore. Poi era scomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero dolce e pietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace. Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fede negli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra volta molto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la immagine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era caduto, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasi completo che Luisa attribuiva a un principio di apatia senile. Ella non aveva capito come nell'animo del vecchio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni profonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite al cimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopra tutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fosse stata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intender meglio lo zio almeno in quest'ultimo punto della chiesa, perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, in chiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione di suo padre e di sua madre praticata sinora freddamente, per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pareva a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e che se ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbe altro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse che bastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Luisa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco? Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno e poi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di consolarsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo. Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al parapetto, Franco, passando in via di Po davanti a San Francesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo. Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero dominante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si era trasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armi e, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui era parso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide in mente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Si mise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore intenso. Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo, un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarla e non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima le disse: e se il professore si è ingannato? Se non è vero che il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa. Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano. «Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario.» «Di che cosa, zio?» «Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un occhio e che passerai.» Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei. «Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Non avrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco.» La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella. Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese il bicchiere e disse piano: «Non ho ancora deciso». «Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deciso?» «Se andrò all'Isola Bella.» «Euh! Che diavolo?» Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile. «E perché non andresti?» Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia: «Ho paura di non poter lasciare Maria». «Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.» Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore: «Cara Luisa, hai perso la bussola». E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò ricadere sulle ginocchia. «Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono. «Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando» (così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla, la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo.» Luisa trasalì. «Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!» «No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente. «Non dir queste cose. Non puoi capire.» «Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. «Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limiti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ci andrò io.» «Tu?», esclamò Luisa. «Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto anch'io a trovar la povera Maria.» Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Luisa fu vinta. «Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.» «Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono quarant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?» «E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. «Vuol proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!» E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda. 2. Solenne rullo Il venticinque febbraio, giorno della partenza, lo zio Piero si alzò alle sette e mezzo e andò alla finestra. Un denso nebbione pendeva sul lago biancastro e nascondeva le montagne per modo che se ne vedevano solamente due brevi liste nere, una a destra e l'altra a sinistra, fra il lago e la nebbia. «Ahimè!», sospirò lo zio. Non s'era ancora finito di vestire che Luisa entrò e lo pregò, col pretesto del cattivo tempo, di restare, di lasciarla partir sola. La Cia era in grande angoscia, e avea pregato Luisa di insistere sapendo ch'egli era stato côlto, il giorno venti, da forti vertigini e che il ventidue, senza dir niente a nessuno, era andato a confessarsi. Egli s'irritò, convenne tacere, lasciargli fare la sua volontà. Povero zio, aveva goduto sempre una salute di ferro ed era molto apprensivo, il menomo disturbo lo allarmava; ma ora non gli pareva bene che Luisa partisse sola in quelle condizioni di spirito, e si sacrificava per lei. Si vestì, ritornò alla finestra e chiamò trionfalmente Luisa che stava nel giardinetto. «Alza la testa!», diss'egli. «Guarda su in Boglia!» In alto, sopra Oria, attraverso la nebbia fumante, si vedeva l'oro pallido del sole sulla montagna e più in alto ancora una trasparenza serena. «Bella giornata!» Luisa non rispose e il vecchio discese allegro in loggia, uscì sulla terrazza a goder la battaglia magnifica della nebbia e del sole. Tutto il lago d'oriente fra la Ca Rotta, l'ultima casa di S. Mamette, a sinistra, e il golfo del Dòi a destra, pareva un mare immenso, bianco. La Ca Rotta traspariva appena, come un fantasma. Al golfo del Dòi cominciava la sottile lista nera scoperta fra il piombo del lago e il nebbione. A poco a poco quel nebbione si faceva turchiniccio, vaghi chiarori rompevano in cielo verso Osteno, in fondo al mare d'oriente tremavano luccicori nuovi, venivan liste, chiazze brune di brezza; un occhio di sole appariva e scompariva sopra Osteno nei vapori turbinanti, ingrandiva rapidamente, splendé vincitore. La nebbia fuggì da ogni parte, a brani e fiocchi. Molti ne passarono davanti a Oria, grandi e veloci, altri si buttarono alla costa, il grosso ripiegò verso l'ultimo levante; colà, dietro e sopra un pesante sipario bianco, le montagne del lago di Como sorsero gloriose nel sereno. Lo zio Piero chiamò Luisa perché vedesse lo spettacolo, l'ultima scena splendida del dramma; il trionfo del sole, la fuga delle nebbie, la gloria delle montagne. Egli ammirava patriarcalmente, senza finezze di senso artistico ma con calor giovanile, con sincera enfasi di voce, da vecchio che ha vissuto castamente, che non ha sciupata la freschezza del cuore, che conserva una certa innocenza d'immaginazione. «Guarda, Luisa», esclamò, «se non bisogna dire: Gloria al Padre, al Figliuolo, allo Spirito Santo!» Luisa non rispose, si allontanò subito per non veder quel recinto bianco, di là dall'orto, che l'attirava con violenza, con una tacita voce di rimprovero e di dolore. Ella vi era andata alle sei, vi aveva passata un'ora nella nebbia, seduta sull'erba fradicia. Lo zio rimase in contemplazione sulla terrazza fino al momento di partire. S'egli fosse stato un poeta presuntuoso avrebbe supposto che la Valsolda gli desse il buon viaggio con uno spettacolo d'addio, volesse mostrarglisi bella come forse non l'aveva veduta mai; ma queste fantasie poetiche a lui non venivano e poi si trattava di un viaggio così breve! No, gli passò invece nella mente l'immagine di Maria, l'idea di vedersela capitar correndo fra le gambe, di prenderla sulle ginocchia, di recitarle la canzonetta antica: Ombretta sdegnosa Del Missipipì. «Basta!», sospirò. «È stata una gran cosa!», e, chiamato dalla Cia, si avviò lentamente verso il giardinetto dove l'attendeva Luisa, pronta a scendere in barca. «Oh, son qui», diss'egli, «e voi guardate bene, mentre staremo via, di non lasciar cadere la casa nel lago.» Durante il tragitto sul Lago Maggiore, a bordo del San Bernardino, Luisa stette quasi sempre nella sala di seconda classe. Ne salì una volta onde persuadere lo zio Piero a discendere anche lui; ma lo zio Piero, chiuso nel suo zimarrone grigio, non volle muoversi, malgrado l'aria fredda, dal ponte dove stava pacificamente a guardar montagne e paesi, e far un po' di conversazione con un prete di Locarno, con una vecchierella di Belgirate e con altri viaggiatori di seconda classe. Luisa dovette lasciarvelo e ridiscese, preferendo star sola con i propri pensieri. Più si avvicinava all'Isola Bella più le cresceva dentro un'agitazione sorda, una incerta attesa di tante cose. Come avverrebbe l'incontro con Franco? Quale contegno terrebb'egli con lei? Le farebbe i discorsi che le aveva fatto lo zio? Le lettere erano molto pietose e tenere, ma chi non sa che si scrive in un modo e si parla in un altro? Come, dove, passerebbero la sera? E poi l'altra cosa, la cosa terribile a pensare...? Tutte queste preoccupazioni salivano, salivano, tendevano a diventar dominanti, a porsi in antagonismo con l'immagine del Cimitero di Oria che ogni tratto ritornava impetuosa, come a riprendere il suo. Alla stazione di Cannero, Luisa si udì sul capo un grande strepito di passi, un grande chiasso di voci e di grida, salì a vedere dello zio. Erano militari richiamati alle bandiere, venuti al battello con due grandi barche. Altre barchette portavano donne, bambini, vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, la maggior parte bersaglieri, bei giovinotti allegri, rispondevano ai saluti, gridando: «Viva l'Italia!» promettevano regali da Milano. Una vecchia, che aveva tre figli fra quei soldati, gridava loro, tutta scarmigliata ma non piangente, che si ricordassero del Signore e della Madonna. «Sì», brontolo un vecchio sergente che li accompagnava, «ca s'ricordo del Sgnour, d'la Madonna, del Vescov e del prevost!» I soldati molto pratici del «prevost», la prigione militare, risero della barzelletta e il battello partì. Grida, sventolar di fazzoletti e poi un canto, un canto potente di cinquanta voci gagliarde: Addio, mia bella, addio, L'armata se ne va. I soldati si erano tutti ammucchiati a prora su cataste di sacchi e barili, quale seduto, quale sdraiato, quale in piedi, e cantavano a squarciagola, con l'accompagnamento cupo delle ruote del vapore che filava diritto giù verso lo sfondo di cielo cui le sottili colline d'Ispra dividono dall'immenso specchio dell'acque, verso il Ticino. Quei giovinotti avevano a passarlo presto, il Ticino, probabilmente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate. Molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno, dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumor cupo delle ruote del vapore pareva saperne qualche cosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali filava il battello parevano fiere e paghe, benché nell'ombra, di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombarde, tragiche nell'aspetto benché illuminate dal sole. Luisa si sentì un lieve formicolio nel sangue, un palpito del suo patriottismo ardente d'una volta. E quelle madri che avevan visto partire i loro figli così? Prevenne il proprio pensiero, si disse subito che anche lei avrebbe donato volentieri un figlio all'Italia, che quelle madri non potrebbero in nessun caso paragonarsi a lei. Ma com'era diverso di leggere in Valsolda una lettera che parlava di guerra e di sentir veramente il soffio e il rumor della guerra intorno a sé, di respirarla nell'aria! Nella quieta della Valsolda era un'ombra senza realtà: qui l'ombra pigliava corpo. Qui il dolore privato di Luisa, il dolore immenso che le riempiva intorno l'aria morta di Oria, s'impiccioliva a fronte della emozione pubblica, ed ella lo sentiva e ciò le recava una molestia, un malessere indefinibile. Era paura di perdere parte del dolore proprio, come dire parte di se stessa? Era desiderio di sottrarsi ad un paragone che le ripugnava di fare? In pari tempo l'idea che Franco andrebbe a questa guerra, l'idea onde poco ella si era commossa in Valsolda, prendeva pure una realtà nuova nella sua mente, le dava delle scosse al cuore, lottava essa pure con l'immagine del Camposanto di Oria. Per la prima volta l'immagine del passato non era più sola, assoluta, onnipotente signora dell'anima sua; ne avesse pure sdegno quest'anima e rincrescimento, nuove immagini, immagini del presente e del futuro, le facevano assalto. Lo zio cominciò ad aver freddo e discese sotto coperta. «Fra poco più d'un'ora», diss'egli, «saremo a Isola Bella.» «Sei stanco?» «Niente affatto. Sto benone.» «Però andrai a letto presto questa sera?» Lo zio, distratto, non rispose. Invece dopo un poco esci a dire: «Sai cosa pensavo? Pensavo che dovrebbe capitare un'altra Maria». Luisa, che gli era seduta accanto, si alzò di botto, fremente, e andò a guardar fuori dal finestrino in faccia, voltando le spalle allo zio. Questi non capi affatto, credette a un senso d'imbarazzo e si addormentò nel suo angolo. Il battello tocca Intra. Adesso prima dell'Isola non c'è che Pallanza. Il battello rade la costa; Luisa guarda dal finestrino ovale passar le rive, le case, gli alberi. Come si corre, come si corre! Pallanza. Il battello resta fermo cinque minuti. Luisa sale sul ponte, domanda quando si arriverà all'Isola Bella. Il battello non toccherà Suna né Baveno. Sarà un viaggio di pochi minuti. E il battello di Arona, quando arriva? Pare che sia in ritardo. Ella scende e sveglia lo zio che sale sul ponte con lei. L'ultimo tratto del viaggio è fatto in silenzio: lo zio sta a guardar Pallanza che si allontana e Luisa ha fissi gli occhi sull'Isola che s'avanza, non vede altro. Il battello giunse all'approdo dell'Isola Bella alle tre e quaranta minuti. Nessun indizio del battello di Arona. Un inserviente disse a Luisa che quel battello era sempre in ritardo per colpa del treno di Novara che non aveva quasi più regola, causa i movimenti militari. Nessuno discese all'Isola, nessuno era sulla riva tranne l'uomo addetto allo sbarco. Partito il battello, accompagnò egli stesso i due viaggiatori all'albergo del Delfino. Era un caso, diss'egli, che trovassero il Delfino aperto a quella stagione. Ci svernava una grossa famiglia inglese. Pareva l'isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intorno immobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle povere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra un bastione rotondo del giardino e l'albergo, non si vedeva persona viva. Gl'inglesi erano fuori, in barca; l'albergo taceva come la riva e l'acqua. I nuovi venuti ebbero due camere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, di fronte al malinconico stretto fra l'isola e la costa boscosa che va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull'angolo di ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S. Vittore, che sorge a fianco dell'albergo, e l'isolotto lontano dei Pescatori. Lo zio Piero si piantò a quella finestra contemplando l'isolotto, il mucchietto di case sporgente dallo specchio del lago e appuntato in un campanile, le grandi montagne di Val di Toce e di Val di Gravellone, mezzo nascoste da una nebbiolina penetrata di sole. Luisa, visto che lì v'eran due letti, passò rapidamente nell'altra camera dov'era un'alcova con due letti pure. «Ecco», disse lo zio Piero entrandovi un momento dopo, «questa va bene per voialtri.» Luisa domandò sottovoce all'albergatore se non si potessero avere tre camere invece di due. No, non si potevano avere. «Ma se così va bene! Ma se così va benone!», ripeteva lo zio. «Voi qui e io là.» Luisa tacque e l'albergatore se n'andò. «Non vedi che hai l'alcova come a casa?» Non gli veniva in mente, all'uomo patriarcale, che per Luisa la sola vista di quell'alcova fosse un tormento. Ella gli rispose che preferiva l'altra camera, più chiara, più allegra. «Amen», disse lo zio, «fate vobis. M'inalcoverò io.» Anche quell'angolo dell'albergo ritornò nel silenzio. Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona doveva esser vicino, l'uomo di prima s'incamminava lentamente verso lo sbarco e poco dopo si udì un rumor lontano di ruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rimaneva in camera. Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò presso una casupola che toglieva di vedere il battello di cui udiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo le uscì davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suo marito fra un gruppo di persone che gli facevano un grande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte, corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono, egli muto, cieco d'emozione, ridente e lagrimoso, pieno di gratitudine e anche trepido, incerto circa l'animo di lei, circa il modo di regolarsi; ella più composta, pallidissima e seria. «Addio», ripeteva, «addio», e s'incamminò verso l'albergo. Venne allora da Franco una furia di domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine, prima; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzò il viso e disse: «Guarda!». Lo zio era lassù alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. «Oh!», fece Franco, stupefatto; e prese la corsa. Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino nel ventre pacifico. «Ciao, neh», diss'egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti, ma non poté difendersi dall'impeto di Franco. «Figurati», diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane, «se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!» E l'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo. Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio», non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi più contro se stessa che contro Franco. «Sai», disse, «ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tu avessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa.» Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza: «Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai più». In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante, ma pure abbastanza forte per significargli ch'era una commossa risposta. A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoi riuscire tu?», gli diceva. «Cosa farai senza la canfora, l'acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il più robusto soldato del 9°. «Sarà!», brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?» Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suo marito. «N'occor alter!», fece lo zio. «Evviva!» Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco, non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: «Nous allons supprimer l'Autriche». Certo, bisognava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l'Isonzo. «Scusi, signore», disse il cameriere che serviva. «Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9° reggimento!» «Sì!» «Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.» «Faremo il possibile.» Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora di broncio e di tormento. «Sì», rispose Luisa. «Mi ricordo.» Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Un suono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste! «E ti ricordi poi?», mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce: «Sì, caro». Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbe una scossa di gioia ma si contenne. «Penso», riprese, «alla lettera che t'ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te le ricordi?» «Sì.» Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. «Ti ringrazio ancora», diss'egli, «per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?» «Sì.» «E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, tocca a Lei di sostenere me"?» Luisa non rispose, gli strinse la mano. «Non sono stato buono a nulla», diss'egli tristemente. «Non ti ho saputo sostenere.» «Hai fatto tutto quello che potevi.» La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: «E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?» Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: «No, resta». Franco non intese, domandò: «Cosa?». Non udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: «Le dirò che hai promesso...». «No», mormorò Luisa, accorata, «quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile.» «Cosa, non è possibile?» «Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi dir tu.» Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. «Luisa!», diss'egli, severo, quasi impetuoso. «Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?» Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. «Per me sarebbe meglio finirla nel lago», diss'ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. «Tu?», esclamò con sdegno. «Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare...» Sentì la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l'anima?». Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell'albergo. «Tu! tu!», sussurrò. «E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: «Ti amo tanto». Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergo del Delfino. Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l'ultima bottiglia. «Signora», disse il primo che si presentò a Luisa. «Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d'omaggio alla signora. «El più sapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. «Vualtri fe' bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora», disse un bel giovane, «è, com'Ella ben intende, l'asino sapiente della compagnia.» «Tasi, Fante!» «Signora!», fece il Padovano avanzandosi e salutando. «Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?», disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: «Lei dev'essere il signor Caval di spade». «No xe vero, signora», esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, «che se vede la bestia?» Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore de' suoi inglesi, di non far tanto «rabello». Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n'andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9° fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pistapauta» nazionali nel presente e nell'avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!» Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. «Ghe pàrele teste da far l'Italia?», disse il Padovano a Luisa. «Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, ma par far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà, "che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!"» I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere lo zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cinquanta pezzi da venti lire. «Capisci» ,le disse, «che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tasca una lettera suggellata. «E questo è il mio testamento», soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella e una crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. «Tienle tu», diss'egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati.» Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo. Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente. Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: «Avanti chi parte!». Un bacio ancora: «Dio ti benedica!», disse Franco e saltò sul battello. Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: «Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio». Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce. Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: «Benedicat vos omnipotens
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