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Info sull'Opera
Autore:
Antonio Fogazzaro
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Piccolo mondo antico (II Parte,11,12 )

di Antonio Fogazzaro

11. Ombra e aurora

Franco, appena ricevuto il telegramma, corse all'ufficio dell'Opinione in via della Rocca. Dina, vedendolo torbido, gli disse: «Oh! Lo avete saputo?». Franco si senti gelare il sangue, ma Dina, quando udì del telegramma, fece un atto di stupore. No no, non sapeva nulla di questo. Era stato informato da parte del Presidente del Consiglio che la Polizia austriaca aveva fatto perquisizioni ed arresti in Vall'Intelvi e che fra le carte di un medico si era trovato il nome di don Franco Maironi con indicazioni assai compromettenti. Dina soggiunse che in un momento così angoscioso per un padre non osava quasi dirgli perché il conte di Cavour si interessasse a lui. Gliene aveva parlato egli stesso, Dina, e il conte s'era mostrato dispiacente che un gentiluomo lombardo di così bel nome si trovasse a Torino in condizioni dure e oscure. Dina credeva ch'egli avesse intenzione di offrirgli un impiego al Ministero degli Esteri. Ora Franco doveva partire, certo. La bambina guarirebbe ed egli ritornerebbe nel più breve tempo possibile. Intanto si fermerebbe a Lugano, non è vero? in attesa di notizie; e se non fosse proprio necessario non si arrischierebbe mica di entrar in Lombardia. Con quest'affare di Vall'Intelvi sarebbe un'imprudenza enorme. Franco tacque e il suo direttore, nel congedarlo, insistette: «Abbia prudenza! Non si lasci prendere!», ma non ebbe alcuna risposta.
Dal momento in cui aveva ricevuto il telegramma, Franco aveva camminato su e giù per Torino come in sogno, senza udire il suono dei propri passi, senza coscienza di ciò che vedeva, di ciò che udiva, andando macchinalmente dove gli occorreva, in quella congiuntura, di andare, dove lo portava una facoltà inferiore e servile dell'anima, quel misto di ragione e d'istinto che ci sa guidare per il labirinto delle vie cittadine, mentre lo spirito nostro, fisso in un problema o in una passione, niente se ne cura. Vendette orologio e catena per centotrentacinque lire a un orologiaio di Doragrossa, comperò una bambola per Maria, passò dal caffè Alfieri e dal caffè Florio per far avvertire gli amici e, dovendo pigliar il treno delle undici e mezzo per Novara, fu alla stazione alle undici. Vi capitarono alle undici e un quarto il Padovano e l'Udinese. Essi cercarono di rincorarlo con ogni sorta di supposizioni rosee e di ragionamenti vani, ma egli non rispondeva parola, aspettava con una avidità immensa il momento di partire, di esser solo, di correre verso Oria, perché, qualunque ne fosse il pericolo, era ben deciso di andare a Oria. Entrò in una carrozza di terza classe e quando la locomotiva fischiò, quando il treno si scosse, mise un gran sospiro di sollievo, e si diede tutto al pensiero della sua Maria. Ma v'era troppa gente, troppo rozza e chiassosa gente intorno a lui. A Chivasso, non potendo resistere a quei discorsi, a quelle risate, passò in una carrozza vuota di seconda classe dove si mise a parlar solo, guardando il sedile di faccia.
Dio, perché non mettere nel telegramma una parola di più? Oh, Signore, una parola sola! Il nome della malattia, almeno!
Un nome orribile gli attraversò la mente: croup. Stese le braccia avanti, contro il fantasma, in uno stiramento convulso, aspirando aria con tutta la forza sua e le lasciò ricader con un soffio che parve vuotargli il petto d'anima e di vita. Perché doveva trattarsi di un male subitaneo, altrimenti Luisa avrebbe scritto. Altro lampo nella mente: congestione cerebrale? Egli stesso, da bambino, era stato a morte per una congestione cerebrale. Signore, Signore, questa era una luce buona. Era Dio che gliela mandava! Fu preso da singhiozzi nervosi, senza lagrime. Maria, tesoro, amore, gioia! Doveva esser questo, sì. La vide ansante, accesa, vegliata dal medico e dalla mamma, immaginò in un minuto lunghe lunghe ore al suo capezzale, lunghe angoscie, il rinascer della speranza, il primo sussurro della dolce voce:
«Papà mio».
Si alzò in piedi, giunse e strinse le mani in uno sforzo muto di preghiera. Poi ricadde a seder esausto, volse gli occhi senza sguardo alla campagna fuggente, sentendo quasi un legame fra le grandi Alpi velate, ferme all'orizzonte di settentrione e il pensiero dominante, fermo, assopito, nell'anima sua. Ogni tanto lo strepito del treno lo toglieva dal suo torpore suggerendogli l'idea di una corsa angosciosa, richiamando il suo cuore a correre, a batter così. Egli chiudeva poi gli occhi per vedersi meglio arrivare a casa. Subito gli venivan immagini su dal cuore alle palpebre, ma si muovevano, mutavano continuamente, non poteva arrestarle più d'un momento. Era Luisa che gli correva incontro sulle scale, era lo zio che gli stendeva le braccia sull'entrata della sala, era il dottor Aliprandi che gli apriva l'uscio dell'alcova e gli diceva «bene bene», era, nella camera buia, un moto di ombre silenziose, era Maria che lo guardava con gli occhi lucidi di febbre.
A Vercelli, parendogli già essere a mille miglia da Torino, l'impero della realtà lo riprese. Quando sarebbe a Lugano, come, per qual via andrebbe a Oria? Scopertamente, per il lago, facendosi vedere alla Ricevitoria? E se non lo lasciassero passare perché non aveva sul passaporto il visto dell'uscita, o se, peggio, vi fosse un ordine di arresto per quest'affare del medico di Pellio? Meglio prendere la montagna. Poteva venire arrestato dopo, ma con la pratica dei luoghi che aveva fatto prima del 1848, cacciando, era quasi sicuro di arrivare a casa. Questo faticoso lavoro di fare e disfare piani lo distrasse alquanto, gli tenne occupata la mente sin oltre Arona, sul battello del Lago Maggiore. Aveva fatto il conto di arrivare a Lugano nel cuore della notte. Se vi fosse qualcuno ad aspettarlo? Se non v'era nessuno, poteva darsi che alla farmacia Fontana, dove andavano molte valsoldesi, si sapesse qualche cosa. Se Iddio volesse fargli trovare a Lugano notizie rassicuranti potrebbe rimettere all'indomani ogni decisione circa l'andata a Oria. Prese dunque il partito di non far progetti sino a Lugano e pregò fervorosamente Iddio che gli facesse trovare queste buone notizie. Il cielo era coperto, le montagne avevano già una tinta autunnale triste, il lago era leggermente nebbioso, le campane di Meina suonavano; sul vapore non c'era quasi nessuno e la preghiera di Franco gli morì nel cuore sotto una tristezza pesante, gli occhi suoi si smarrirono dietro uno stormo di gabbiani bianchi che volavan lontano verso le acque di Laveno, verso il paese nascosto dov'era l'anima sua.
Arrivò a Magadino dopo le sette, fece il monte Ceneri a piedi, per il sentiero che mette alla Cantoniera, prese una vettura a Bironico e arrivò a Lugano dopo la mezzanotte. Discese in piazza presso il caffè Terreni. Il caffè era chiuso, la piazza deserta, scura; tutto taceva, anche il lago di cui s'intravedeva un palpitar lento nell'ombra. Franco si fermò un momento sulla riva con la speranza che qualcheduno fosse venuto ad aspettarlo e comparisse da qualche parte. Non poteva veder la Valsolda nascosta dietro il monte Brè; ma quella era l'acqua stessa che rispecchiava Oria, che dormiva nella darsena della sua casa. Gli si allargò un poco il cuore in un sentimento di pace, gli parve essere ritornato tra familiari suoi. Tacendo ogni voce umana, gli parlavano le grandi montagne oscure, sopra tutte il monte Caprino e la Zocca d'i Ment che vedevano Oria. Gli parlavano dolcemente, gli suggerivano un presentimento buono. Diciannove ore eran passate dalla data del telegramma; il male poteva esser vinto.
Non comparendo nessuno, si avviò alla farmacia Fontana, suonò il campanello. Egli conosceva da molti anni quell'ottimo, cordiale galantuomo del signor Carlo Fontana, passato anche lui col mondo antico. Il signor Carlo venne alla finestra e si meravigliò molto di vedere don Franco. Non aveva alcuna notizia della Valsolda, era stato due giorni a Tesserete, n'era ritornato da poche ore, non sapeva niente. Il suo assistente, il signor Benedetto, era partito anche lui da poche ore, per Bellinzona. Franco ringraziò e si avviò verso Villa Ciani, risoluto di andare subito ad Oria.
Poteva scegliere fra due vie: o salire da Pregassona il versante svizzero del Boglia, toccar l'Alpe della Bolla, attraversare il Pian Biscagno e il gran bosco dei faggi, uscirne sul ciglio del versante lombardo, al faggio della Madonnina, calare ad Albogasio Superiore e Oria; o prendere la comoda via di Gandria verso il lago, e poi il sentiero malvagio e rischioso che da Gandria, ultimo villaggio svizzero, taglia la costa ertissima, passa il confine a un centinaio di metri sopra il lago, porta alla cascina di Origa, cala nei burroni della Val Malghera e ne risale alla cascina di Rooch, vi trova la stradicciuola selciata che passa sopra il Niscioree e discende a Oria. La prima via era assai più lunga e faticosa ma in compenso migliore per eludere al confine la vigilanza delle guardie. Partendo dalla farmacia Fontana, Franco decise di appigliarsi a quella. Ma quando fu a Cassarago, dove mettono la strada di Pregassona a quella di Gandria, quando vide la punta di Castagnola così vicina e pensò che da Castagnola si va a Gandria in meno di mezz'ora, che da Gandria si può andare a Oria in un'ora e mezza, l'idea di salire il Boglia, di camminare sette od otto ore gli divenne intollerabile. Salendo il Boglia sarebbe poi anche arrivato di giorno; questo era, per la sicurezza, uno scapito grande. Prese risolutamente la via di Castagnola e Gandria. Il cielo era tutto coperto di nuvole pesanti. Sotto i grandi castani ove passava il sentiero di Castagnola, non si sapeva dove mettere il piede; ma che sarebbe poi stato nel gran bosco del Boglia, se Franco avesse presa quella via? Così fu dentro Castagnola e peggio di così nel labirinto delle viuzze di Gandria. Dopo averle fatte e rifatte più volte, sbagliando, Franco riuscì finalmente sul sentiero del confine e si fermò a riposare. Sul punto di cimentarsi nel fitto delle tenebre ai pericoli di un sentiero difficile, di un incontro con le guardie austriache, per giungere poi a quell'altro pauroso passo dell'entrar in casa, del far la prima domanda, dell'udir la prima risposta, alzò la mente a Dio, raccolse tutti i suoi pensieri in un proposito di fortezza e di calma.
Si ripose in cammino. Gli occorreva ora dare tutta la sua attenzione al sentiero per non smarrirlo, per non precipitare. I campicelli di Gandria finiscono presto. Poi vengono fratte folte, pendenti sopra il lago, valloncelli franosi, mascherati dal bosco, che ruinano diritti al basso. In quei passaggi bui Franco era costretto di menar le braccia alla cieca per abbrancar un ramo, poi un altro, cacciar il viso nel fogliame che almeno aveva l'odore della Valsolda, trascinarsi di pianta in pianta, tastar coi piedi il suolo, non senza terrori di sprofondare, cercar le tracce del sentiero. Il suo fardello era piccino ma pure gli dava impaccio. E gli dava noia quello stormir delle frasche al suo passaggio; gli pareva che dovesse udirsi lontano, sui monti e sul lago, nel silenzio religioso della notte. Allora si fermava e stava in ascolto. Non udiva che il remoto rombo della cascata di Rescia, qualche lungo ululato di allocchi nei boschi di là del lago e talvolta giù nel profondo, sull'acqua, un secco tocco, Dio sa di che. Non impiegò meno di un'ora per arrivare al confine. Là, fra la valle del Confine e la Val Malghera, il bosco era stato tagliato di recente, il pendio sassoso era nudo, maggiore perciò il pericolo di precipitare, maggiore il pericolo di venire scoperto. Attraversò quel tratto pian piano, fermandosi spesso, mettendosi carponi. Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lieve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passava qualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran le guardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là era coperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese la costa occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra parte senza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli martellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivi mette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante volte con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendo violette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ricordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola disputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualità che dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agricoltore e Luisa un ingegnere meccanico.
Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicelli scaglionati sul monte che fanno una chiara piccola macchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sotto, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nel portichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sulla viottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso. Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci son pochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parlare sommessamente nella cascina.
Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuori del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Non udì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo e stette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermò quasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietro adagio e disse ad alta voce, con accento forestiero: «Non c'è niente. Sarà stata una volpe».
Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il quale non osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discorrere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore, di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro la cascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stava per muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, uscire dalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne intese una dire: «Non resta qui nessuno?», e un'altra rispondere: «È inutile».
Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altra senza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevano di cose indifferenti. Uno diceva che si può restare sott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribatteva che dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passò in silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbrividì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese la pipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò ai compagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati, scendevan la costa di Val Malghera.
«Quanti anni aveva?»
Uno di coloro rispose, pure forte:
«Tre anni e un mese».
Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi, all'udir «tre anni e un mese», l'età di Maria, si alzò sulle braccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor dei passi si perdeva già in Val Malghera.
«Dio, Dio, Dio, Dio!», diss'egli. Si rizzò ginocchioni, ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola terribile: «aveva». Si torse le mani, gemette ancora: «Dio, Dio, Dio, Dio!».
Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza. Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventato sordo, con un gran tremito nel braccio che portava la bambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò il paese e invece di scendere per la scalinata del Pomodoro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scorciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa scaletta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della catastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror debole che usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse l'uscio.
Era aperto.
Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che la luce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odor d'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento, non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udiva qualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta: «Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la tua mamma, in terra con te?». «Luisa! Luisa!», singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccia l'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuziale che aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto.
«Vieni, caro, vieni vieni», diss'ella e lo trasse dentro.
Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea fragrans, e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tanto caro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondi erano sparsi anche sul viso.
Franco s'inginocchiò singhiozzando: «Dio, Dio, Dio!», mentre Luisa prese due roselline, le pose in una manina di Maria e poi la baciò sulla fronte.
«Tu puoi baciarla sui capelli», diss'ella. «Sul viso no. Il dottore non vuole.»
«Ma tu? Ma tu?»
«Oh, per me è un'altra cosa.»
Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che trasparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve le posò lievemente, come per un addio tenero, non disperato, alla veste caduta e vuota della diletta creatura sua partita per altra dimora.
«Maria, Maria mia», sussurrò fra i singhiozzi, «che cosa è stato?»
Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso delle guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo.
«Non lo sai?», gli chiese la moglie senza sorpresa, pacatamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato; ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Lugano per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arrivata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dormire.
«Povero Franco!», diss'ella baciandolo sul capo, quasi maternamente. «Non c'è mica stata malattia.»
Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: «Come? Non c'è stata malattia?»
La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu, entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco, rimase sbalordita. «Va'», le disse Luisa, «posa il fuoco lì fuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi, povera Leu.» Quella obbedì.
«Non c'è stata malattia?», ripeté Franco.
«Vieni», gli rispose sua moglie, «ti racconterò tutto.»
Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimoniale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno di no, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a terra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloroso con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dramma che diceva, con una voce simile a quella della sorda Pasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese le mosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse, sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i sentimenti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse i fatti sino al momento in cui s'era convinta che Maria non aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò a baciar la sua morta e le sussurrò: «Il tuo papà ha in mente che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non è vero».
Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senza nome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non renitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardose, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con un braccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, bagnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quando gli rompevan la voce: «Povera Luisa mia, no, non l'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh, no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fatto per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, ti benedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir più quella cosa! La nostra Maria...» Un violento singhiozzo gli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere, si vinse, continuò: «Non sai cosa dice la nostra Maria in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dice così?».
Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti violenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo voleva alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano e gliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poi gli sussurrò: «Rispondimi».
«Tu sei buono», rispose Luisa con voce accorata e debole, «tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici. Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io, che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, non sarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succedeva niente, Maria sarebbe viva.»
«Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi credere che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu potevi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbe successa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa. Ascolta invece quello che ti dice Maria.»
«Povero Franco! Poveretto, poveretto!», disse Luisa, con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare il sangue. Franco tacque, tremando, non valendo a immaginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Si sciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la prima. Ella riprese però la mano di suo marito, volle accostarsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente a sé quella di lei, tentò un'ultima parola:
«Perché non mi vuoi rispondere?»
«Ti farei troppo male», diss'ella, sottovoce.
Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancare ogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come se Maria, chiamata inutilmente, fosse morta una seconda volta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori della camera poterono tanto sopra di esso che dovette uscire per non venir meno.
Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura, fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dalla luce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le braccia sul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito. E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettesse di piangere ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre? Ah quella sera, quella ultima sera che Maria gli aveva detto «papà mio, un bacio» e tante altre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, come come aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spasimo di ricordarlo. «Signore, Signore», diss'egli verso il cielo, «Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito secondo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesoro con Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu ne congiungerai!» Non fu amaro il dirotto pianto in cui le parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ultima sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo a Maria, di averla ingannata. «Maria, Maria mia», supplicò piangendo, «perdonami!» Dio, come gli pareva impossibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva di andar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suo lettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aperte abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E invece vi era, sì, ma!... Oh che cosa! non poteva, non poteva essere fine al pianto.
Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'aveva mandata la signora. Egli ebbe un movimento di tenera gratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infelicità nera la sua! E quali spaventose apparenze di castigo per lei nel colpo che le piombava sopra in quel momento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compreso, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davvero e aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva inteso pure. E queste spaventose apparenze di castigo non frutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio più che mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa! Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva bisogno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, da sperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta in Dio.
Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece raccontar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udito della cosa terribile. «La voreva propi el Signor la Soa tosetta», disse la Leu per ultimo. «Bisoeugnava vedèlla in gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccin seri. La somejava on angiol tal e qual! Propi.» Poi domandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, preferiva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe? La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quando cominciava a discorrere, non smetteva facilmente e forse aveva anche paura di starsene soletta in cucina: «El so papà!», diss'ella ancora prima di andarsene. «El so car papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì a portagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che la parlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai, Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a trovarlo". Ciào, l'è ona gran roba!»
Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punito Luisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribile castigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì, quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propria vita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal rispondente alle credenze che professava, tale da renderlo responsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giudicava buono per le qualità di cui non aveva merito alcuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva sopra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato e frutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umiliò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore, nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Iddio lo ricongiungesse con Maria.
Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza. Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne del lago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminente soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si levaron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Teresa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco spontanea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le campane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e più bianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungo l'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distese dell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra le grandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondi della passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano silenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspettazione della luce, della gloria immensa che scendeva in oriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dalle campane.
Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! La luce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, portarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Italia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia, Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slancio di desiderio.
Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udirle, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, che venisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiata presso il corpicino della sua creatura le promise che ogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlarle, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera. Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva voluto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso di ventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita da lungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, un dato momento, dalla corrente del sangue, divampata con fulminea violenza.
Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza di Dio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'anima tendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non essere affatto in colpa della morte di Maria. Se realmente esisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padrona degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua. Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visita della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Maria le persone che potevano custodirla in assenza della madre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, e uccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, proprio nel momento in cui stava per compiere un atto di giustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giustizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invece l'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tutte le ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'iniqui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì, in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse, sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malvagia!
Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esistesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che una parte dell'essere umano continuasse a vivere, non miracolosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò era forse più facile a concepire, che la esistenza di un tiranno invisibile, di un Creatore feroce contro le proprie creature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, meglio un padrone cieco ma non nemico, non deliberatamente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcun modo né in questa vita né in una vita futura, se vi fosse, al fantasma vano, Giustizia.
La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri come a quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosa per lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di collera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di un punto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava una ribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Il pensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di lei poteva parere più forte; ma Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza; Colui che consente venire onorato da ciascuna generazione secondo il poter suo e che gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli, servendosi per il governo della terra, nel tempo opportuno, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essendo la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio degli eserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhi spenti.

Al levar del sole una barca comparve alla punta della Caravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna alla chiamata di Luisa.


12. Fantasmi

La sera di quello stesso giorno una conversazione fiorita si raccolse nella sala rossa della marchesa. Pasotti vi portò seco a forza la sua disgraziata moglie e quasi a forza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai capricci dispotici del Controllore gentilissimo. Vennero pure il curato di Puria e il Paolin, curiosi di veder l'effetto della tragedia di Oria sulla vecchia faccia di marmo. Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente riluttante anche lui come un pecorone. Venne il curato di Cima, devoto alla marchesa, venne il prefetto della Caravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato, come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loro nemica.
Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col solito flemmatico saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè, la signora Barborin alla quale il padrone aveva proibito il menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiare dagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paolon circa le rispettive loro dame e soddisfatta d'aver appreso che la Paolina e la Paolona stavano bene, incrociò le mani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al semicerchio de' suoi cortigiani. Pasotti, non vedendo Friend, s'informò subito di lui con ossequiosa premura: «E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse avuto nelle granfie, solus cum solo, quel brutto diavolaccio ringhioso che sciupava i calzoni a lui e le sottane a sua moglie, lo avrebbe strozzato con gioia. Friend era infermo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamentò il caso con la segreta speranza che il maledetto mostro fosse per crepare. La Pasotti vedendo tante bocche parlare, tante facce diventar contrite, e non udendo una parola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse al Paolon suo vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancando la bocca, indicando col dito la direzione di Oria. Il Paolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu», diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso, un'aria compunta.
Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'una malattia schifosa. Il Paolin e il curato di Puria diedero premurosi consigli. Il prefetto della Caravina aveva espresso altrove la temperata opinione che fosse da buttarlo nel lago con la sua padrona al collo. Mentre si parlava con tanto interesse della bestia di casa, egli pensava a Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la mattina, quando s'era opposta come una forsennata, prima alla chiusura della bara, poi al trasporto, e quando nel cimitero aveva gettato lei con le sue proprie mani la terra sulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbe presto discesa a giacer con lei e che quello doveva essere il loro paradiso.
Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fantasmi della bambina morta e della madre disperata erano però nella sala. Quando nessuno seppe più che dire del cane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmi squallidi furono uditi da tutti domandar che si parlasse di loro; e ciascuno li vide negli occhi della persona che li amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò subito una diversione, propose al signor Giacomo un problema di tarocchi. Uno scartante che ha tre cartine, tutte figure, una dama e due cavalli, e ha pure il matto, cosa deve fare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il signor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfiando le gote rosse e il cravattone bianco: «Apff! No. Controllore gentilissimo, no, La me dispensa. Da le dame no digo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Gli altri tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fantasmi non furono più uditi e ciascuno respirò.
Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entrava con due candele accese e apparecchiava il tavolino del tarocco in un angolo della sala, fra il gran camino e il balcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e diceva con la sua flemma sonnolenta:
«Se creden».
I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incominciava l'entro in tre o la partita in quattro.
Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco, esitò, quella sera, a portare i lumi. Non gli pareva possibile che la padrona e i signori avessero il coraggio di giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo entrare, ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, prima di entrar in casa, aveva sostenuto contro il prefetto che non si sarebbe giuocato. Egli guardò trionfante il suo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendosi, per una solidarietà di Paoli, che avesse ragione il Paolin. Pasotti, che si era tenuto sicuro di giuocare, cominciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette minuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campanello. Quegli restituì al Paolin l'occhiata trionfante e vi aggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia, che poté.
«Apparecchiate», diss'ella al cameriere.
Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in fondo agli occhi suoi crucciosi si vedeva il fantasma della bambina morta. Mentr'egli disponeva sul tavolino le candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fece nella sala quel silenzio di aspettazione che soleva precedere l'alzarsi della marchesa. Ma la marchesa non diede segno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti e gli disse:
«Controllore, se desideran giuocare Loro...»
«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di mia moglie non deve impedirle di fare la Sua partita. Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo a guardare.»
«Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce era molle ma il no era duro.
Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuocare a tarocchi, credette aver finalmente trovato una parola ossequiosa e savia da metter fuori.
«Già!», diss'egli.
Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra lui?», ma non osò parlare. La marchesa non parve accorgersi della scoperta del Paolon e soggiunse:
«Posson giuocare Loro».
«Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!»
Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefetto», diss'egli facendo spiccare le sillabe e alzando un poco la mano aperta con una presa tra il pollice e l'indice, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesa lo desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.»
La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiato da quel silenzio, borbottò a mezza voce:
«È un lutto di famiglia, infine».
Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non era mai stato pronunciato nelle conversazioni serali della sala rossa, la marchesa non aveva mai fatto allusione a lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio di quattro anni.
«Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suo padre e sua madre è un castigo di Dio.»
Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a voce bassa, in tono solenne:
«Fulmineo».
E il curato di Cima soggiunse più forte:
«Evidente».
Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e allora il Paolon osservò: «Proprio!». Il signor Giacomo soffiò.
«Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato di Cima. «E anche, date le circostanze, un segno della Sua protezione sopra qualche altra persona.»
Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono la marchesa come se la Mano protettrice dell'Onnipotente fosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece quella Mano Divina stava sopra il cappellone della Pasotti e le teneva ben chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvi contaminatrici parole d'iniquità. «Curato», disse Pasotti, «poiché la signora marchesa lo propone, facciamo una partitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.»
I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lasciarono subito dolcemente andare, nel loro angolo, alle comode mollezze della conversazione sbottonata, alle vecchie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi come l'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pasotti dopo la prima giuocata, ridendo forte per far suonare la sua vittoria e la sua allegria.
Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no.
La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sofferto angosce mortali aspettando un gesto del marito che le imponesse di giuocare. Oh Signore, dovrebbe toccarle anche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto non venne fatto e la sua prima impressione nel veder i quattro prender posto al tavolino fu di sollievo. Ma poi le riprese subito un disgusto amaro. Che insulto, quel giuoco, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara Ombrettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva attenzione a lei: ella si mise a recitare mentalmente una fila di Pater, Ave e Gloria, per la cattiva creatura seduta all'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina a comparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per la conversione dei peccatori che soleva dire mattina e sera per suo marito da quando aveva scoperto certe sue familiarità con una bassa persona di casa.
Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò e prese congedo. «Aspetti», gli disse la marchesa, «di prender un bicchier di vino.» Alle nove e mezzo soleva capitare una bottiglia preziosa di San Colombano vecchio. «Stasera non bevo», rispose il prefetto, eroicamente. «Son troppo sottosopra da questa mattina in poi. Il Puria sa perché.»
«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tragedia, già.»
Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò la Pasotti con l'espressione del «c'intendiamo» e partì.
Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studiava la marchesa senza parere. Era ella tocca o no dai fatti di Oria? L'essersi astenuta dal giuoco gli pareva un indizio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al proprio sangue in astratto. Osservandola bene il curato notò che le sue mani tremavano: cosa nuova. Ella dimenticò di domandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa nuova. La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qualche contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò il curato. Siccome ella taceva, la Pasotti taceva, il Paolon taceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò lui di rompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltar quelle teste verso il tavolino del giuoco e commentare le apostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin, i «no digo» e gli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse un poco, si compiacque di osservare che i giuocatori si divertivano. La Pasotti non udì né disse mai parola e gli altri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si dolse che fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' di conversazione. Gli altri due dissero di lei tutto il gran bene che meritava e che dice ancora chi la ricorda. Ella stava lì malinconica e muta, non sospettando affatto d'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore proteggeva la sua profonda, ingenua umiltà, non le lasciava penetrar negli orecchi le lodi della gente ma solo le strapazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi neri si ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone». È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi. «Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Egli e il Paolin discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolin per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolin andò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. «Che gran mond mincion!», fu il suo riassunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'è quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopo una sentenza tanto logica nulla restava più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno.

Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari, mal confessata e quindi mal perdonabile, le dava una molestia sempre compressa a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remissione de' suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, la sua superbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per debiti, oltre la tomba.
Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis, annunciò tre Avemarie nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva, definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo spettro nel suo cammino.
La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta; forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la bambina non sarebbe morta.
Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello.
La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi.
La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: «Ma non sa che si è annegata da sé?». Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No, non l'ho uccisa». Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. «Badi», rispondeva il giudice. «La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva: «Lo dice». Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: «Entrate!». Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.
Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna.»
Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah... ah...» mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'Apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra.
La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere.
La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!»

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