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Opere pubblicate: 19994
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7. È giuocato
Tre giorni dopo, alle cinque della mattina, in Milano, il professore Gilardoni usciva, inferraiuolato fino agli occhi, dall'Albergo degli Angeli, passava davanti al Duomo e infilava la buia contrada dei Rastelli dietro una fila di cavalli condotti a mano dai postiglioni, entrava nell'ufficio delle diligenze erariali. Il piccolo cortile dove ora è la Posta era già pieno di gente, di bestie, di lanterne. Voci di postiglioni e di conduttori, passi di cavalli, scosse di sonagliere; all'eremita della Valsolda pareva un finimondo. Si stavano attaccando i cavalli a due diligenze, quattro per ciascuna. Il professore andava a Lodi perché aveva saputo che la marchesa era in visita presso un'amica di Lodi. La diligenza di Lodi partiva alle cinque e mezzo. Faceva un freddo intenso e il povero professore girava inquieto intorno al carrozzone mostruoso pestando i piedi per riscaldarsi; tanto che un altro viaggiatore gli disse argutamente: «Freschino, eh? Freschinetto, freschinetto!». Quando Dio volle si finì di attaccare i cavalli, un impiegato chiamò i viaggiatori per nome e il buon Beniamino sparì nel ventre del carrozzone insieme a due preti, a una vecchia serva, a un vecchio signore con una natta enorme sul viso e a un giovine elegante. Gli sportelli furono chiusi, un comando fu dato, le sonagliere tintinnarono, il carrozzone si scosse, i preti, la vecchia, il signore dalla natta si fecero il segno della croce, i sedici zoccoli dei cavalli strepitarono sotto l'androne, le ruote pesanti lo empirono di fragore, poi tutto questo fracasso si smorzò e la diligenza svoltò a destra verso Porta Romana. Adesso le ruote correvano quasi silenziose e i viaggiatori non sentivano più che il pestar disordinato dei sedici zoccoli sulle pietre. Il professore guardava passar le case scure, il raro chiaror dei fanali, qualche piccolo caffè illuminato, qualche garetta di sentinella. Gli pareva che il silenzio della grande città avesse qualche cosa di minaccioso e di formidabile per quei soldati, che le stesse mura delle case nereggiassero d'odio. Quando la diligenza entrò nel corso di Porta Romana, così allagato di nebbia che dai finestrini non si vedeva quasi più nulla, chiuse gli occhi e si abbandonò al piacere d'immaginar le persone e le cose che aveva nel cuore, di conversar con esse. Non era più il viaggiatore della natta che gli sedeva in faccia, era donna Ester tutta chiusa in un gran mantello nero e col cappuccio in capo. Ella lo guardava fiso; i begli occhi gli dicevano: «Bravo, Lei fa una bella azione, mostra molto cuore, non l'avrei creduto. L'ammiro. Ella non è più né vecchio, né brutto per me. Coraggio!». A questa esortazione di aver coraggio gli veniva una stretta di paura, gli scattava in mente la immagine della marchesa; e il rumor sordo delle ruote si trasformava nella voce nasale della vecchia dama che gli diceva: «Si accomodi. Cosa desidera?». A questo punto la diligenza si fermò e il professore aperse gli occhi. Porta Romana. Qualcuno aperse lo sportello, domandò le carte di sicurezza, e, raccoltele, si allontanò, ricomparve dopo cinque minuti, le restituì a tutti fuorché al giovine elegante. «Lei scenda», gli diss'egli. Quegli impallidì, discese in silenzio e non ritornò. Dopo un altro minuto fu chiuso lo sportello, una voce ruvida disse: «Avanti!». Il signore dalla natta collocò la sua borsa da viaggio sul sedile rimasto vuoto; nessun altro viaggiatore diede segno di accorgersi dell'accaduto. Solo quando i quattro cavalli ebbero ripreso il trotto, Gilardoni domandò al prete suo vicino se conoscesse il nome del giovine e quegli rispose bruscamente «off!», girò verso il professore due occhi sgomentati e sospettosi. Il professore guardò l'altro prete che subito trasse di tasca una corona e fattosi il segno della croce si mise a pregare. Il professore tornò a chiudere gli occhi e l'immagine del giovane sconosciuto si perdette per sempre nella nebbia come parevano perdervisi i rari fantasmi d'alberi, di pioppi e di salici, che passavano a destra e a sinistra della via. «Come incominciare?», pensava il Gilardoni. Dalla notte di Natale in poi non aveva fatto che immaginare e discutere fra sé il modo di presentarsi alla marchesa, di entrar nell'argomento e di svolgerlo, la capitolazione da offrire. Non aveva chiara in mente che quest'ultima; ove la signora marchesa facesse un largo assegno al nipote, egli distruggerebbe le carte. Queste carte non le teneva seco; ne aveva una copia. Dovevano produrre un effetto fulmineo; ma come incominciare? Nessuno dei tanti esordi pensati lo accontentava. Anche adesso, fantasticando ad occhi chiusi, si poneva il problema partendo dal solo termine conosciuto: "Si accomodi. Cosa desidera?". Immaginava una risposta che poi gli pareva o troppo ossequiosa o troppo ardita o troppo lontana dall'argomento o troppo vicina ad esso e ricominciava la via dal solito principio: "Cosa desidera?". Un livido chiaror d'alba, pieno d'uggia, di tristezza e di sonno, entrò nella diligenza. Adesso che l'ora del colloquio stava per giungere, mille dubbi, mille incertezze nuove mettevano in iscompiglio tutte le previsioni del professore. La stessa base de' suoi calcoli improvvisamente crollò. Se la marchesa non gli dicesse né «si accomodi» né «cosa desidera?». Se lo accogliesse Dio sa in quale altro modo imbarazzante? E se non lo volesse ricevere? Santo cielo, se non lo volesse ricevere? L'improvviso strepitar dei sedici zoccoli sopra un ciottolato gli fece battere il cuore. Ma non era ancora il ciottolato di Lodi; era il ciottolato di Melegnano. A Lodi arrivò circa alle nove. Scese all'Albergo del Sole, ebbe una stanza dove non c'era né sole né fuoco. Non osando affrontare la nebbia delle vie, né le vampe della cucina, osò invece porsi a letto, mise il berretto da notte che sapeva le sue angustie, aspettò, con la sigaretta di canfora in bocca, qualche buona idea e il mezzogiorno. Salì, al tocco, le scale del palazzo X., col savio proposito di scordar tutte le frasi meditate, di rimettersi alla ispirazione del momento. Un domestico in cravatta bianca lo introdusse in uno stanzone scuro, dal pavimento di mattoni, dalle pareti coperte di seta gialla, dal soffitto a stucchi, e, fatto un inchino, uscì. Poche antiche sedie a bracciuoli, bianche e dorate, con la stoffa rossa, stavano in semicerchio davanti al camino dove tre o quattro ceppi enormi ardevano adagio dietro la grata di ottone. L'aria aveva un odor misto di vecchie muffe, di vecchie pasticcerie, di vecchie mele cotte, di vecchie stoffe, di vecchia pelle, di decrepite idee, una sottile essenza di vecchiaia che faceva raggrinzar l'anima. Il domestico ritornò ad annunciare, con grande emozione del Gilardoni, il prossimo ingresso della signora marchesa. Aspetta e aspetta, ecco aprirsi un grande uscio a fregi dorati, ecco un campanellino corrente, ecco Friend che trotta dentro fiutando il pavimento a destra e a manca, ecco una gran campana di seta nera sotto un cupolino di pizzo bianco, ecco fra due nastri celesti la parrucca nera, la fronte marmorea, gli occhi morti della marchesa. «Che miracolo, professore, a Lodi?», disse la voce sonnolenta, mentre il cagnolino fiutava gli stivali del professore. Questi fece un profondo saluto e la dama che pareva appunto l'ampolla dell'essenza di vecchiaia, andò a porsi in un seggiolone accanto al fuoco e fece accomodare la sua bestiola in un altro; dopo di che accennò al Gilardoni di accomodarsi pure. «Suppongo», diss'ella, «che avrà qualche parente alle Dame Inglesi.» «No», rispose il professore, «veramente no.» La marchesa era faceta, qualche volta, alla sua maniera. «Allora», disse, «sarà forse venuto a far provvista di mascherponi.» «Neanche, signora marchesa. Sono venuto per affari.» «Bravo. È stato disgraziato col tempo. Mi par che piova, adesso.» A questa impreveduta diversione il professore ebbe paura di perdere la tramontana. «Sì», diss'egli sentendosi diventare sciocco come lo scolaro cui l'esame piega male: «pioviggina». La sua voce, la sua fisionomia dovettero tradire l'imbarazzo interno, apprendere alla marchesa che egli era venuto per dirle qualche cosa di particolare. Ella si guardò bene dall'offrirgliene il bandolo, continuò a parlargli del tempo, del freddo, dell'umido, di un raffreddore di Friend che infatti accompagnava di frequenti starnuti il discorso della sua dama. La voce sonnolenta aveva un placido tono quasi ridente, una blanda benevolenza; e il professore sudava freddo al pensiero di fermare quella melliflua vena per offrir in cambio la pillola amara che aveva in tasca. Egli avrebbe potuto approfittar d'una pausa per metter fuori il suo esordio, ma non seppe farlo; e fu invece la marchesa che ne approfittò per metter fuori la sua chiusa. «La ringrazio tanto», diss'ella, «della visita, e adesso La congedo perché Ell'avrà le Sue faccende e, per dire il vero, ho un impegno anch'io.» Qui bisognò saltare: «Veramente», rispose il Gilardoni, tutto agitato, «io ero venuto a Lodi per parlare con Lei, signora marchesa.» «Questo», osservò la dama, gelida, «non lo avrei potuto immaginare.» Il professore trascorse avanti, nello slancio del salto. «Si tratta di cose urgentissime», diss'egli, «e io debbo pregare...» La marchesa lo interruppe. «Se si tratta di affari, bisogna ch'Ella si rivolga al mio agente di Brescia.» «Scusi, signora marchesa; si tratta d'un affare specialissimo. Nessuno sa e nessuno deve sapere che sono venuto da Lei. Le dico subito che si tratta di Suo nipote.» La marchesa si alzò e il cane accovacciato sul seggiolone si levò pure, abbaiando verso il Gilardoni. «Non mi parli», disse solennemente la vecchia signora, «di quella persona che per me non esiste più. Andiamo, Friend.» «No, signora marchesa!», ripigliò il professore. «Ella non può assolutamente immaginare cosa Le dirò!» «Non m'importa di niente, non voglio saper niente, La riverisco!» La inflessibile dama si mosse, così dicendo, verso l'uscio. «Marchesa!», esclamò alle sue spalle il professor Beniamino, mentre Friend, saltato dal seggiolone, gli abbaiava disperatamente alle gambe: «Si tratta del testamento di Suo marito!» Stavolta la marchesa non poté a meno di fermarsi. Tuttavia non si voltò. «Questo testamento non Le può piacere», soggiunse rapidamente il Gilardoni, «ma io non ho l'intenzione di pubblicarlo. Mi ascolti, La supplico, marchesa!» Ella si voltò. La faccia impenetrabile tradiva una certa emozione nelle narici. Neppure le spalle eran del tutto tranquille. «Che storie mi conta?», rispose. «Le pare una bella convenienza di venire a nominarmi, così senza riguardi, il povero Franco? Cosa c'entra Lei negli affari della mia famiglia?» «Perdoni», replicò il professore frugandosi in tasca. «Se non c'entro io, ci potrebbero entrare altri con meno riguardi di me. Abbia la bontà di vedere i documenti. Queste...» «Si tenga i suoi scartafacci», interruppe la marchesa vedendogli levar di tasca delle carte. «Queste sono le copie fatte da me...» «Le dico che se le tenga, che se le porti via!» La marchesa suonò un campanello e si avviò da capo per uscire. Il professore, tutto fremente, udendo venir un domestico, vedendo lei aprir l'uscio, gittò le sue carte sopra una seggiola, disse sottovoce in fretta e furia: «Le lascio qui, non le veda nessuno, io sono al Sole, ritornerò domani, le guardi, ci pensi bene!», e prima che arrivasse il domestico, scappò per la parte ond'era venuto, tolse il ferraiuolo, infilò le scale. La marchesa rimandò il domestico, stette un poco in ascolto, poi ritornò sui suoi passi, prese le carte, andò a chiudersi nella sua stanza e, inforcati gli occhiali, incominciò a leggere presso la finestra. La faccia era oscura e le mani tremavano. Il professore stava per andare a letto nella sua camera gelata del Sole, quando due poliziotti vennero a recargli l'ordine di recarsi immediatamente all'ufficio di Polizia. Egli sentì bene un certo rimescolamento interno ma non si smarrì e partì con essi. Alla Polizia, un piccolo Commissario insolente gli domandò perché fosse venuto a Lodi e avutone risposta che c'era venuto per affari privati, fece un atto d'incredulità sprezzante. Che affari privati pretendeva avere a Lodi il signor Gilardoni? Con chi? Il professore nominò la marchesa. «Ma se nessuna Maironi sta a Lodi!», esclamò il Commissario, e perché l'altro protestava, lo interruppe subito: «Basta, basta, basta!». La Polizia sapeva di certo che il signor Gilardoni, quantunque I. R. pensionato, non era un leale austriaco, che aveva degli amici a Lugano e ch'era venuto a Lodi con un fine politico. «Lei ne sa più di me!», esclamò il Gilardoni soffocando a stento la collera. «Faccia silenzio!», gl'intimò il Commissario. «Del resto Ella non deve credere che l'I. R. Governo abbia paura di Lei. È libero di andare. Solamente deve lasciar Lodi entro due ore!» Qui Franco avrebbe capito subito di dove veniva il colpo; il filosofo non capì. «Son venuto», diss'egli, «a Lodi per un affare urgente che non ho finito, per un interesse privato gravissimo. Come posso partire dentro due ore?» «Con una vettura. Se, trascorse due ore, Ella è ancora in Lodi, La faccio arrestare.» «La mia salute», replicò la vittima, «non mi permette di viaggiare di notte in dicembre.» «Ebbene, La farò arrestare subito.» Il povero filosofo prese in silenzio il suo cappello e uscì. Un'ora dopo egli partiva per Milano in un calessino chiuso, con i piedi nella paglia, con una coperta sulle gambe, con una gran sciarpa al collo, pensando che aveva pur fatto una bella spedizione e inghiottendo saliva ogni momento per sentir se gli doleva la gola. Notte infame davvero; ma non la passò sulle rose neppur la signora Marchesa. 8. Ore amare L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo le minutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua moglie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lo zio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storia della diocesi di Como, Luisa uscì a passeggio con Maria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bisgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso il cimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lì faceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma di alloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise che Maria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolar sull'erba secca dietro a lei, e pensò. Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la notte di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capo la storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontare il suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato, per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinione del professore. Poiché il testamento era stato distrutto, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. La curiosità di Luisa non era però una fredda curiosità di osservatrice. La condotta di suo marito l'aveva gravemente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come aveva fatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che anche il silenzio serbato con lei fosse un peccato grave contro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sentirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaro alla vigilia della sua partenza e in un momento in cui egli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere che quando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte vi era stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto si era sollevato almeno un momento nell'anima sua. Si alzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico. Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Maria di andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma la bambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle persone grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrò nell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare al professore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere. Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Per fortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un libro d'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. Allora Luisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sapeva tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disapprovato suo marito, di aver provato e di provare ancora un gran dolore... «Perché perché perché?», interruppe il buon Beniamino. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Ho fatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tutto acceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dica niente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosa aveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il testamento non era stato distrutto? Allora il professore, rosso come una bragia, facendo degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma per carità, neh? - ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi segreti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi. Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinse forte forte il viso fra le mani. «Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato. «Ho fatto male, signora Luisina?» «Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avuto l'aria di andare a proporre una transazione, un mercato! E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!» Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avesse voluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa professorale più quadra. Il povero professore, costernato, andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh che asino!», senza tuttavia comprender bene quale asinata avesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso il lago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté il dorso della destra sul palmo della sinistra, il suo viso s'illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss'ella. «Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì e l'accompagnò, tutto palpitante, nello studio. Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente: «Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ottimo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disapprovato per l'uso inopportuno di un documento destinato a sorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si attende né si desidera da parte della signora marchesa». Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al professore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto. «Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suo marito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, per Lei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Luisa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui, pensando a Franco, pensando che forse la marchesa potrebbe prendere quella lettera per un artificio, per uno spauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il professore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella protestò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo aveva fatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esacerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripeteva col cuore amaro. E né lei né il professore si accorsero che Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, la piccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinella l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'aveva aperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspetto di sua madre, si fermò a fissarla con una espressione di sgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare «ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la prese tra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime parole del professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silenzio!». «Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madre non le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ripeté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando finalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un poco e poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolina ridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silenzio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passando sotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò da capo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tutta raccolta nello sforzo di comporsi una maschera indifferente, le diede solo una strappata, che però bastò a farla tacere. Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scherzando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati a passeggio, la guardò sottecchi col solito risolino timido e provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa, silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistette. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolitamente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse piano piano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh povero me!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovava sua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogò addosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via che strillava come un'aquila. «Meglio ancora!», esclamò lo zio. «Bravissimi!» «Lasci un po' fare, Lei», gli disse la Cia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbidire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone, «mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si azzittì tutta ingrugnata. Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alcova, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far piangere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò alla sua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimosa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Maria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati per una ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale si mise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo serii mezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di sole in viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasi che teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile e prese Maria con sé, la interrogò benignamente, vedendola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. «Che significava questo cosa, silenzio?» «Non lo so.» «Ma perché la mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so. Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sempre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a passeggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facilitato il nome del professore così.) «E hai cominciato in casa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è stato il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.» «Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha detto: per carità, silenzio!». Franco non parlò più. «La mamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladroni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto maggior piacere a suo padre quante più cose gli raccontava di questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo, perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guardò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita se dovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suo marito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se le foglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno al tronco fossero in ordine perché la notte si annunziava rigida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramente che se avessero avuto senso e parola, gli si sarebbero mostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per la sua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di essergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli venne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'avergli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi al collo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuore l'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a' suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar in chiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbucciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stette un momento in forse, lottando con se stessa, poi balzò fuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale. «Franco!», diss'ella. Franco non rispose, parve respingerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nella vicina camera dell'alcova. «Cosa vuoi?», diss'egli, scosso ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non gli rispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, gli piegò il viso sul petto e disse sottovoce: «Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni». Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dal collo le braccia di sua moglie e rispose asciutto: «Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiunse, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardoni di tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio». Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettato di me», diss'ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fatto questo?» «Ebbene», diss'egli, «e se avessi fatto questo? Del resto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda, non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lo dirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza rimordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendo poi anche Luisa disposta a parlare, non volle assolutamente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore traboccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Si dolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più stata con lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Lo aveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli aveva capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale! Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? No certo; egli era un povero disutile e niente altro. Non era naturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amasse meno? Perché certo certo lo amava meno di una volta. Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco, no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia bastante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato una smentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allora fu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamente fra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!». S'intesero sino al fondo con una comunicazione magnetica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un muto sforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'uno dell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamente riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsi per un momento con la volontà e con l'amore malgrado la intima disunione delle loro idee e della loro natura; tutto senza una parola, senza una sola voce. Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitar Luisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facesse spontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che gli fosse gradito. La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Piero fece chiamare Franco. Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non potendo riscaldare la stanza e non volendo, per economia, accendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però il freddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mezzo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte. «Ciao», diss'egli quando Franco entrò. Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole insolite. Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse il più solenne dei suoi esordi: «Sètet giò». Franco sedette. «Dunque parti domani?» «Sì, zio.» «Bene.» Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiò le guance, gli uscì piena e sonora. «Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora, dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto. Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi. Adesso...» Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuò lo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che sei fermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisogno c'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia incominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il più difficile. Ecco.» Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto a ritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare. «Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.» Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirando l'anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, cose che bisogna dire. Lascia stare.» Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce il suo tono grave. «È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti domando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E per voi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo.» Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi. «Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e il prefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.» Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella tal crepada!». «Oh e adesso contami!», diss'egli. «Che lavoro speri di trovare?» «Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo.» Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?», diss'egli. Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più. «Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!» Qui lo zio aperse le braccia. «Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco alzandosi commosso da quell'abbraccio. «Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti.» «E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.» «Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici.» «Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?» Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buon giorno, zio. Mi dici l'Ombretta Pipì?» Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe. «Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire: Ombretta sdegnosa Del Missipipì, Non far la ritrosa E baciami qui.» Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei. «Papà», diss'ella facendosi seria, «perché piangi? Sei in castigo?» Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di stare in un turbine magnetico. Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s'era più veduta, anche la signora Peppina. «Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?» Adesso è il Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché ha l'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèss con sto vioròn chì ch'el capiss nagott?», pensa il Paolin, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «Andèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, piglia la sua sulle scale. Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!» Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo. Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb'essere l'I. R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa. Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell'orto. L'aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lago scendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, de' suoi amori. «Addio, Valsolda», pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.» Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l'olea sinensis, il nespolo del Giappone, il pinus pinea, che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui. Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te". Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dalla riva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Franco! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello. I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che «dò ôr! dò ôr in barca!» mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma sta benone!». La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!» Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l'interrogavano. «Come l'ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signora Peppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?». Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla e di venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto di lavare. La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!». Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa. I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nella camera dell'alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?». La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa: «La marchesa!». Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. «L'è a Lod», diss'ella sottovoce. «El Controlòr l'è staa a Lod. Speri comè!» E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito. Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me», gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermirsi. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente necessario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss'egli. «Si tratta del tuo viaggio di domani!» Appena partiti i Pasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questo colloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pasotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri se non avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Franco era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in che modo? L'amico di Torino poteva essere stato imprudente. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse in aria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti non era l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel voltafaccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a Torino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona, un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commissari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Temeva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasotti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue supposizioni. Insomma non c'era che andare e udire. Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più affettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua moglie ch'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle assolutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombano e una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco dovette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni di amicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio e di lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto, il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in materia. Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pasotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seggiola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo di foulard, lo andava palpando. «Dunque», diss'egli, «caro Franco, come ti dicevo, si tratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi a casa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io non ti porto un affare anche più grosso di quello che hai a Milano.» Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque. Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare di maneggiarlo e riprese: «Il mio caro amico don Franco Maironi si può immaginare che se io entro in argomento intimo e delicato, ho una ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo e sono autorizzato a farlo». Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alzarono a quelli torbidi e diffidenti di Franco. «Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuo avvenire.» Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da banda. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolino entrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhi su Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spalliera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di difesa. «È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia verso la tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa onde metter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo padre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che bene mi voleva!» (Franco sapeva che suo padre aveva una volta minacciato Pasotti col bastone perché s'intrometteva troppo nelle faccende di casa sua.) «Basta. Avendo saputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mi son detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Maironi, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. E sono andato.» Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli era capitato? E chi aveva chiesto intercessioni? «Debbo dirlo», riprese Pasotti, «sono contento. Tua nonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmente si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, ma insomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è una lotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoi principii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi risentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere come soffre; ma insomma piega, piega. Certamente non bisogna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino a spezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire: sopra tutto i suoi principii politici.» Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussulto di tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questo punto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto in mente il bastone del fu don Alessandro. «Ti capisco», riprese. «Credi che non ti capisca? Io mangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nel cuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro il momento in cui certi colori cederanno il posto a certi altri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarla com'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisogna pigliarla com'è. Si può combattere come ho combattuto io, ma...» «Tutto questo discorso mi pare inutile», esclamò Franco, alzandosi. «Aspetta!», riprese Pasotti. «Il diavolo non sarà poi forse tanto brutto! Siedi, ascolta!» Franco non volle saperne di sedersi ancora. «Sentiamo!», diss'egli con voce vibrante d'impazienza. «Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matrimonio...» «Grazie!», interruppe il giovane. «Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente; per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanziche all'anno. Non c'è male, eh?» «Avanti!» «Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una condizione umiliante non sarei venuto a proportela. La nonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certa guarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è un modo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lo devo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessi proposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia era ch'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne avevi abbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anche l'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinotti che pensano come te e che sono nella carriera giudiziaria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata. Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale.» «Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu... e tu... e tu...» Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi. «Fermati!», esclamò. «Che maniera è questa?» «Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un momento!», diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non e un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!» Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortito dal colpo. «Che testamento?», diss'egli. «Via!», riprese Pasotti freddo e beffardo. «C'intendiamo bene!» Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. «Ma no!», diss'egli. «Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamenti?» «Ah!», fece Pasotti con ironica dolcezza. «Adesso va benissimo.» Franco l'avrebbe strozzato. «Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so.» Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente. «Oh già!», riprese Pasotti, beffardo più di prima. «Lo informerò io il signore. Sappia dunque che il signor professore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si è recato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato alla marchesa con una copia senza valor legale di un preteso testamento del povero Suo nonno. In questo testamento Ella, signor don Franco, è istituito erede universale con accompagnamento di offese atroci alla moglie e al figlio del testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signor Gilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esser venuto di suo capo, senza farne saper niente a voi.» Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosi oscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forze per non smarrirsi, per dare una risposta degna. «Hai ragione», diss'egli. «Anche la nonna ha ragione. Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostrato quel testamento tre anni sono, la notte del mio matrimonio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto che l'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se si è recato a Lodi per quella bella impresa che dice, ha commesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilo bene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il danaro del Governo: e siccome questa signora ha la fortuna di essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, e adoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte le perfidie che vuole, mai non userò una carta che la disonora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo a nome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché le sdegno! Buona sera.» Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante di sovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sua lanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo né curando affatto dove mettesse i piedi, esclamando di tempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro di rovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusa contro Luisa. Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettava Franco nel salottino con Maria che teneva alzata perché suo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La povera Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi, a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a domandar con una vocina dolente: «Quando viene, papà?». Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per consolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzo scarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, costavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi? Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gli scalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in granaio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie sciarpe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo nonno. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fatta prestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabile stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sulla tavola. «Adesso gli reciteremo l'orazione funebre», diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustia mortale poteva toglierle, se le bisognava. «Prima, però, domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di prenderti il suo stivale.» Ella fece che Maria giungesse le mani e recitasse questa filastrocca guardando comicamente il soffitto: Caro signor bisnonno benedetto, Questo stival, se Lei non se lo mette, Lo doni alla Sua Ombretta, Che aspetta con gran fretta Un paio di scarpette E Le scocca su in cielo un bel bacetto Alla pianta del piede con rispetto. Venne poi una poco riverente fantasia come ne nascevan tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storia dell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che un giorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto di pan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mamma con cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimasto in Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? La mamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicato per di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giù dal cielo, se ve lo incontrava. In quel momento entrò Franco. Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano tempesta. «Dunque?», diss'ella. Franco rispose concitato: «Metti a letto Maria». Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò «ti dico di metterla a letto» tanto aspramente che Maria si mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Accese un lume, prese la bambina in braccio, la porse silenziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e la portò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quello stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomiti sulla tavola, si strinse il capo fra le mani. L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardoni gli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti parlava, col ricordo di quel «cosa, silenzio?», di quel «basta!» e del racconto della bambina. Egli aveva dentro a sé come un vortice dove questa idea spariva girando e ricompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuore. «Dunque?», tornò a chiedere Luisa, rientrando. Franco la guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzò e le afferrò le mani. «Dimmi se sai niente!», diss'egli. Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offesero. «Come, se so niente?», esclamò accesa in volto. «Me lo domandi così?» «Ah tu sai!», gridò Franco, gittando da sé le mani di lei e levando le braccia in alto. Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua complicità col professore, la propria smentita, l'offesa mortale, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira, non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spaventata. «No, Franco, no, Franco», diss'ella sottovoce e gli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le labbra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse domandar perdono e la respinse. «Lo so, sì, lo so», diss'ella tornando appassionata al suo petto, «ma l'ho saputo dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegno come te, più di te!» Ma Franco aveva troppo bisogno di sfogarsi, di offendere. «E come vuoi che ti creda?», esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece ancora un passo incontro, gli stese le braccia. «No», supplicò straziata, «dimmi che mi credi, dimmelo subito subito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!» «Cosa, non so?» «Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto ma non cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più?» Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinse le mani da rompergliele e disse con voce soffocata: «Ti crederò, sì, ti crederò». Luisa che lo guardava lagrimosa chiese una parola migliore. «Ti crederò», disse, «ti crederò?» «Ti credo, ti credo.» Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgoglio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accento fu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo convinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per le mani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via via con un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolcemente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncar quel silenzio, parole calde non ne trovava, parole fredde non ne voleva, si mise a raccontare senz'altro come avesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio a Lodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamente fredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suo marito. Mentre riferiva le confidenze del professore, Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente: «E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello? - Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?». La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Aveva già detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilardoni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse! Franco si chetò ma di mala voglia. Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora contro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era un amico, aveva errato gravemente, gravissimamente, ma con buona intenzione. Dove andavano a finire le massime di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'egli non perdonava neppure a chi aveva voluto fargli del bene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò che Franco perdonava moltissimo quando a perdonare c'era follia e gloria e perdonava pochissimo quando c'erano semplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsi parlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentiva superiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosamente il colpo. «Ecco!», esclamò con una reticenza piena di sottintesi. «Tu lo difendi! Già!». Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque. «E perché non parlare, tu?», riprese Franco. «Perché non raccontarmi tutto subito?» «Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosse inutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande. L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, volevo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidato Gilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente voluto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha detto alla nonna che noi non ne sapevamo niente.» «Non lo ha creduto! Naturale!» «E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti avrà ben capito che tu non sapevi niente!» Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccontarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ciglio. Ella indovinò, con l'acume de
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