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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
che aveva il cuore contento, prese un'orecchia di Naldo tra le dita e la tirò. Poi si voltò a guardar fisso in faccia all'Arabella, come se pretendesse una risposta a una domanda che non aveva fatto. Guardò in alto il cupolone, e una volta l'orologio del caffè che confrontò col suo: quella donna la vedeva in ombra davanti, la sentiva presente, la pensava, ma non avrebbe osato guardarla per paura... Paura di che? Lo sa Dio...
Finalmente arrivò un gran vassoio pieno di chicchere, di panetti, di paste dolci e lo zio ebbe a occuparsi a distribuire, a versare, a far le parti giuste. A Beatrice offrí una bella veneziana fresca e siccome essa esitava ad accettare: «Andiamo, andiamo,» disse con una certa furia screanzata, «che sciocchezze!» E nel dir queste parole sentí di nuovo una vampa di fuoco pigliargli il corpo, salire al collo, alle orecchie, alla radice dei capelli. Per fortuna capitò che Ferruccio lasciasse cadere un cornetto intero di pane nella chicchera. Ciò sollevò l'ilarità di tutti, anche di Beatrice, anche del sor Demetrio, e il tempo passò presto. Invece di chiamare il cameriere, il signor zio andò al banco a pagare, cosa che non si usa piú in un caffè rispettabile, e serví anche questo a divertire quei bravi giovinotti. «Bisogna che io me ne vada... finite con comodo» tornò a dire. «Ci rivedremo piú tardi, stasera....» I ragazzi gridarono: «Riverisco, zio, riverisco... grazie.» Egli uscí in fretta in fretta, senza capire ciò che gli diceva la cognata. Aveva bisogno d'aria... Passò davanti al cristallo, guardò nel caffè, vide un gruppo di gente, ma vide annebbiato, salutò colla mano, e col suo passo di bifolco che cammina nel molle, traversò verso Santa Margherita, portato come un pezzo di legno galleggiante dalla corrente dell'antica abitudine, non piú chiaro a sé stesso di quel che sia un pezzo di legno. Una sola parola con un senso umano, uscí da quel garbuglio di sentimenti che egli portò all'ufficio, e prese nel fondo del suo silenzio la cadenza di un bastone che picchia addosso a un sacco di cenci. Questa parola, ch'egli ripeté cento volte nel breve tratto di strada fino alla porta del Demanio, era il nome del suo migliore amico: Ah, Paolino! Ah, Paolino! IV Per tre o quattro giorni si sentí male e di malavoglia. Un vecchio disturbo di cuore, ch'egli credeva di aver superato colla regola, colla tranquillità, con una moderata cura di digitalina, sotto le scosse di tanti avvenimenti tornò a farsi sentire. Per qualche notte stentò a chiuder occhio. Stava in letto al buio, incantato a contemplare le stelle che brillavano nella cornice della finestra, senza pensare a nulla di preciso, come perduto in un gran deserto, sorpreso di trovarvisi, non sostenuto che da una segreta speranza di uscirne. Gli era capitato come a chi viaggia sui monti. Va e va, su e giú per greppi e bricche, arrivava colle scarpe e colle gambe rotte in cima a una rupe da dove improvvisamente gli era apparso uno stupendo panorama, una stesa senza fine di paesi, di fiumi, di laghi, di pianure verdi, ch'era bello, incantevole di contemplare, anzi valeva la pena di sedersi un poco a tirare il fiato davanti a quel quadro, ma non bisognava fermarsi troppo. Il luogo era scosceso, soffiavano venti cattivi, e stava per scendere la notte. Giú, giú in fretta, sor Demetrio... Paolino intanto, che non era uomo da stare un pezzo sulle punte di un pettine, passati alcuni giorni, lanciò a Milano questa lettera: "Caro Demetrio, "Poche parole. Io ti avevo detto di scrivermi un Si o un No e dopo una settimana non mi scrivi niente "Ho parlato anche con Carolina che s'è lasciata persuadere e m'incoraggia. "I miei interessi non mi permettono piú di aspettare. Non dico di combinare subito, lasciamo pure tempo al tempo, ma avrei piacere che tua cognata venisse a cognizione della qui allegata lettera che ho fatto vedere anche alla Carolina, e dice che va bene. Per ora mi contento di una Promessa, di una Speranza. Se invece è colpo di spada venga colpo di spada. Ma in ogni Contiguità non posso continuare in questo stato letale anche per la salute dell'anima e quella del corpo." La lettera allegata diceva: "Stimatissima signora Beatrice! "Non è uno sconosciuto che osa rivolgersi a Lei per esprimere i sentimenti che da molto tempo nutre il suo Cuore in vista e in riguardo alla Sua Persona. Mio cugino Demetrio è incaricato di esporre per me di che si tratta, donde non istarò a ripetere le ragioni e le speranze, che mi conducono oggi a scriverle una lettera, la quale, se sarebbe accolta con Indulgenza, sarà il giorno piú bello della mia vita. "So che io non avrei dovuto essere tanto temerario d'innalzare gli occhi fino alla Sua Persona circondata da tante attrattive, al confronto della quale io non sono che un uomo indegno; ma...." E sempre su questo tono apriva tutte le porte del cuore. Esponeva le sue oneste intenzioni, la gioia dei parenti, ove si fosse potuto stringere un nodo indissolubile, e le cure, le tenerezze di cui avrebbe circondati i poveri orfanelli. La buona sorella Carolina, alla quale lesse la minuta della lettera, suggerí una frase, "porgere grato orecchio", che le era rimasta in mente fin dal tempo del collegio. Non contento ancora, Paolino volle far sentire lo scritto anche a don Giovanni, curato di Chiaravalle, un vecchietto di molto buon senso pratico, che propose una chiusa: "voglia dunque alla stregua di queste considerazioni perdonare la mia improntitudine". Per quanto Paolino non entrasse molto bene nel significato di questa "stregua" accettò e introdusse anche la frase del buon vecchietto, per dare anche a lui la sua parte di responsabilità. Trascrisse la lettera su un bel foglio quadrato coll'aiuto della falsariga, senza una macchia, senza una cancellatura e mandò il suo letterone aperto a Demetrio, perché vedesse e giudicasse anche lui. Demetrio lesse una volta con una faccia tra l'irritato e l'indifferente. Ognuna di queste parole scritte colla calligrafia commerciale del cugino era un chiodo che egli doveva ribadire nel cuore di Beatrice. E non se ne sentiva piú voglia. Gli parve che il signor cugino avrebbe potuto sbrigarsi da sé, senza bisogno d'ambasciatori. Egli non faceva il portalettere per nessuno. In un atto subitaneo e irragionevole di stizza fece volare i fogli, che andarono a finire sotto la sedia. Capí subito però che era fuori di casa. Si stupí egli stesso della sua impazienza. Che diavolo aveva indosso? Raccolse i foglietti, li nettò dalla polvere soffiandovi sopra, e nel metterli sotto un calamaio disse a mezza voce: "vedremo" : quel tal "vedremo" con cui di solito i nostri buoni superiori procurano di non farci veder nulla. V Una mattina Beatrice vide entrare in casa Palmira tutta spaventata. «Che cosa c'è?» «Taci, lasciami sentire» disse la Pardi, ansando, porgendo l'orecchio all'uscio. Quando fu sicura che nessuno l'inseguiva, trasse un sospiro. «Jesus,» disse, «che corsa! quel bestione è capace di farmi una figura in istrada.» «Chi?» «Mio marito, Secco. Mi fa la guardia. Vengo dalla Posta dove ho ritirata una lettera. Eccola qui, non ho avuto tempo di leggerla.» «È sempre Altamura?» «Già, mi scrive da Barcellona. Fa furore anche là... Stavo per aprire la lettera, quando vidi sbucare Secco dal portone della Corte. Era là in sentinella. Ci deve essere della gente che gli soffia nelle orecchie. Non mi sono fermata ad aspettarlo, naturalmente: ma giú per la via del Pesce, su per i Visconti, giú per San Satiro, volta per l'Unione. Il pancione non può correre tanto e io sfido un cervo. Ma è capace d'aver presa una carrozza. Taci, senti: non si è fermata una carrozza davanti la tua porta? Scusa, va a vedere.» Beatrice andò alla finestra. Alla porta non c'era niente. «Mi rincrescerebbe anche per te, perché Secco se si monta la testa non ragiona piú. Ma la deve pagare, lo stupidone. Oggi gli faccio una scena da far correre le guardie.» «Scusa, Palmira,» provò a dire Beatrice «se però ti trovasse la lettera di Altamura? non ti parte che avrebbe ragione?» «È per questo che son corsa. Ma non voglio scene in istrada, non ne voglio. Non mi lascio imporre, veh! Se non dimanda scusa, faccio fagotto e me ne vado.» «Dove vuoi andare, cara te?» «In nessun sito, si sa» rispose con un gorgheggio di mascherina la moglie del buon Melchisedecco. «Quando mi vede fuori dei gangheri, abbassa subito le arie, diventa un agnello. Bisogna fare cosí cogli uomini. Non mostrare mai d'aver paura. È perché noi donne non andiamo d'accordo; ma, se ci mettessimo, non sai che in ventiquattro ore cambiamo la legge del mondo?» Beatrice stava a sentire incantata, quasi impaurita di queste famose massime. Il coraggio e lo spirito di Palmira l'intimidivano. Non capiva come vi potessero essere donne cosí temerarie, da tentare la pazienza e le furie di un povero uomo a quel modo. «Scrive che, finita la stagione di quaresima, tornerà in Italia... Oh, bravo!...» Palmira agitò nell'aria il foglio e se lo portò alla bocca. «Sí, sí, va bene, ma tu sei troppo...» provò di nuovo a dire con lento accento di rimprovero la buona Beatrice, che faceva con Palmira la parte del buon Angelo. «Troppo che cosa?» saltò su la Palmira, guardandola cogli occhi socchiusi. «Cara la mia innocentina! non tutte hanno l'arte di spennacchiare la gallina viva senza farla gridare. O che tu sei diversa dalle altre?» «Che cosa credi?» esclamò Beatrice, arrossendo. «Io non voglio saper niente, non sono il tuo confessore. Lasciami vedere se non è giú ancora a far la guardia.» Palmira andò a spiare dietro le gelosie socchiuse e guardò a destra e a sinistra. Quando fu certa che Melchisedecco non c'era, stracciò in cento pezzetti la lettera, che seminò per la stanza, e soggiunse: «Vado intanto che ho la furia addosso. Son passata di qui anche per dirti una cosa che ti riguarda. Ieri ho trovato il cavaliere, che mi ha detto di dirti che ha visto l'avvocato, che la causa è a buon punto, che tuo padre ha cento ragioni, che ha bisogno di parlarti.» «Davvero?» esclamò Beatrice con un piccolo grido e con un saltino di gioia. «Questa è una bella notizia.» «Verrebbe egli da te, ma ha paura di trovare qui quel tuo, come si chiama?.. quel del redingotto. Che cosa fa quella tua bellezza?» «Dove posso trovarlo?» «A casa sua, forse... Sai dove sta? in via Velasca, nella porta dei bagni. Se ci vai domenica, lo trovi certo. Ci sarà anche l'avvocato....» Palmira era già a mezzo della scala, ricacciata dalla furia che l'aveva condotta. Uscí nella via nel momento che passava il tram di Porta Genova. Fece segno colla mano al conduttore, saltò su svelta come una gatta, sedette a sinistra, e trasse il portamonete per pagare. Quando alzò le palpebre si trovò seduta in faccia al signor Melchisedecco Pardi, fabbricante di nastri con ditta al ponte dei Fabbri, che in una posa di Napoleone a Sant'Elena la divorava cogli occhi. Palmira aveva ragione di dire che suo marito le faceva la guardia. Dal giorno che Cesarino Pianelli, o per leggerezza o per vendetta, aveva buttata fuori la prima parolina ironica, il buon Pardone non era stato cogli occhi chiusi. Conosceva le tendenze di sua moglie e non s'illudeva. Egli l'aveva levata da un telaio di nastri col vestito di cotone, coi piedi negli zoccoli; l'aveva sposata, l'aveva vestita di seta, coperta d'oro e l'amava ancora dopo dieci anni di matrimonio, colla forza lenta, costante, vigorosa dei temperamenti linfatici. Palmira non negava mica che il suo Secco fosse buono: anzi in certi momenti guai a toccarglielo! non amava il male in sé, ma per la varietà, colpa dell'argento vivo che aveva indosso e della sua nessuna educazione di famiglia. Il buon Pardone portava pazienza, la compativa fin dove può arrivare un marito. Lasciava che andasse in maschera, che gettasse i coriandoli dal balcone, che ridesse, scherzasse pure cogli uomini; andava anche lui a divertirsi, quando avrebbe preferito dormire nel suo letto. Non rifiutava nemmeno di infilare il frac e di dormire in piedi alle feste da ballo dove Palmira faceva il diavolo... Ma, ohe! non voleva che la gente dicesse che il signor Pardi dormiva troppo della grossa. Scherzare, fare il diavolo, fin che si vuole: ma il signor Pardi era lui... Se bisognava, c'erano anche dei buoni pugni... Queste cose all'incirca scattavano fuori da quel paio d'occhi, con cui cercava di divorare sua moglie, se la signora Palmira avesse avuta la compiacenza di lasciarsi divorare. Egli sapeva che c'era un tenore di mezzo. Lo aveva visto alla festa a far le smorfie del Trovatore a Palmira, e fin qui, pazienza! è il loro mestiere di far le smorfie. Ma egli aveva ogni ragione di credere che tra Barcellona e la via dei Fabbri continuasse una corrispondenza segreta. Una volta sulla scala aveva trovato per caso una fascetta di giornale con un bollo spagnuolo... o almeno gli parve spagnuolo. Certo non era dei nostri. Seppe poi da un impresario, a cui aveva garantita una cambiale, che il signore "di quella pira" mandava in visibilio gli spagnoli col suo famoso do. Niente di male, era questo il suo mestiere; ma corrispondenze segrete, no, per Dio!, non ne voleva di corrispondenze segrete. Anzi l'amico impresario era incaricato d'avvertirlo nel caso che l'altro passasse da queste parti: piacere per piacere, siamo al mondo per aiutarci. Ma il buon Pardone si fidava ancora piú degli occhi suoi. A tempo perso pedinava la moglie, alla lontana, senza farsi scorgere, e la colse proprio sul punto che usciva dal portone della Posta. Che cosa andava a fare alla Posta la signora Pardi? e non ci sono i portalettere pagati per questo? C'era una lettera, l'aveva vista cogli occhi suoi, c'era... Doveva essere in una di quelle due tasche. E ingrossava ancora di piú gli occhi, come se volesse guardare sotto i panni. Palmira, rigida, fredda, indifferente, colse il momento che il tram rallentò la corsa per ingombro, si alzò, non aspettò che la carrozza fosse ferma, con un salto andò giú, e infilò subito una via a sinistra, verso casa, mentre il signor Melchisedecco andava sonando e risonando il campanello per farlo fermare. Non era uomo da far salti; del resto non c'era bisogno di correre. Forse era meglio che gli passasse un poco la scalmana..., ma sentiva che questa volta erano pugni. Non ne voleva di corrispondenze. Per la corrispondenza di fabbrica bastava lui. Palmira capí che il temporale era grosso: affrettò il passo, s'infuriò piú che poté, corse su per la scala, passando in mezzo al frastuono dei duecento telai che lavoravano al primo piano, spinse l'uscio, entrò come una bomba, facendo trasalire la donna di servizio, passò in camera e cominciò a spogliarsi, strappandosi di dosso la roba come se si facesse a brani colle mani e, quando il signor Pardi, con comodo, comparve sull'uscio e cominciò a guardarla ancora con quegli occhioni di bove, non gli lasciò il tempo di aprire la bocca, ma, già quasi mezza svestita e spettinata, attraversò la stanza, trascinandosi dietro la roba, e lo investí con tale uragano di ignominie, che Pardone chiuse gli occhi e si appoggiò colle grosse spalle all'uscio, quasi volesse impedir alla voce di uscire. Il rumore dei duecento telai non riusciva a coprire quella voce irritata di furia francese. Essa gli buttò sul viso un guanto, lasciò cadere e passeggiò sul vestito, lo fulminò senza pietà con quei suoi grandi occhi di carbone, pieni di scintille e di sangue, finché, disfatta quasi dalla sua stessa convulsione, si aggrappò colle braccia nude al collo del suo buon Pardone, rovesciò tutta la testa indietro col gran volume dei capelli lisci e neri sciolti sulle spalle, e sospirò, atteggiandosi a vittima. «Son qui, ammazzami, ma dimmi prima che cosa ti ho fatto. Ammazzami qui, in casa tua, ma non voglio che tu mi faccia delle figure in istrada. Se non vuoi che io esca di casa, legami alla gamba del letto, chiudimi dentro a chiave, ma non rendermi ridicola in faccia alla gente. Sono stufa, stufa, stufa; e se dura un pezzo ancora questa vita, mi butto nel Naviglio. Non sono una stupida per non capire che tu mi vieni dietro ad ogni passo... Ebbene, parla... chi è il mio amante?» «Quella lettera...?» chiese il povero uomo, soffiando la sua grossa emozione e tremando in tutto il corpo. «Vedi, come sei stupido? è tutto qui? eccola la famosa lettera. To', leggila, c'è ancora il bollo fresco. È arrivata ieri, guarda... Modena... Leggi e guarda come sei imbecille colla tua gelosia.» Il buon Melchisedecco voltò e rivoltò la letterina, che Palmira trasse dalla tasca del suo vestito rimasto in terra in mezzo alla stanza. Era una lettera di Eloisa, una cugina, maritata a un tenente di guarnigione a Modena, una lettera di complimenti e di piccole commissioni. Melchisedecco chinò il capo e stette un momento pensoso. Poi, dissimulando la sua incredulità e il suo profondo affanno, soggiunse con un tono raddolcito di tenerezza e d'indulgenza: «Se anche sono un poco geloso, non ti faccio torto. Se mi volessi bene....» «E non te ne voglio forse? senti, adesso... cose da far piangere di rabbia. E non sono sempre qui in casa con te come un cagnolino, a fare i conti dei rocchetti e delle matasse? e quando mi lamento io di questa vita? e non dico sempre che il Signore mi ha voluto bene e che sono stata fortunata? e non conservo forse sempre per memoria l'ultimo paio di zoccoli che ho lasciato ai piedi della scala quella notte che tu mi hai detto che mi volevi bene? Ti ricordi? tua madre non voleva che tu mi sposassi, e noi ci siamo sposati lo stesso... ti ricordi? quella notte, in quella stessa stanza... Oh no! non meriti nemmeno che io te ne parli. Allora sí mi volevi bene; ora perché sono diventata vecchia, sono la vespa, la biscia, l'ingrata, l'infame... Oh, è troppo! io morirò di crepacuore....» E la povera Palmira piangeva davvero un fiume torrenziale di lagrime, ingannando quasi sé stessa. Le spalle, il collo, il viso s'infiammarono sotto la violenza di quel piangere dilagato, a cui il buon Melchisedecco non sapeva come porre un argine. Egli mormorò qualche parola, cercò di giustificare ancora una volta piú dolcemente la sua condotta, promise di non farlo piú, docile, mortificato come un bambino, e tornò in fabbrica col corpo rotto dal pentimento. "Mi sarò ingannato" diceva dentro di sé, "ma corrispondenze non ne voglio." Il frastuono dei duecento telai in mezzo ai quali egli cercava un sollievo all'affanno che gli gonfiava il polmone, non valse a rompere nella sua testa lo stampo di quella frase imperativa ch'egli seguitava suo malgrado a ripeter coi denti stretti. Dovette dare degli ordini, scrivere una fattura, ma i denti dopo quasi un'ora vibravano ancora della scossa ricevuta, e della frase rotta e stritolata egli masticava ancora, dopo quasi un'ora, qualche estremo monosillabo. "Non ne voglio io delle...."
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