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Opere pubblicate: 19994
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PARTE TERZA
PAOLINO DELLE CASCINE I Paolino delle Cascine da qualche tempo pensava di mettere il capo a partito e di prendere moglie una volta per sempre. Già, è un passo che bisogna fare, e piú ci si pensa, meno ci si riesce. Gli anni passavano anche per lui e ad aspettar troppo si arrischia poi di mettere i buoi dietro al carro. Era in questi riflessi, quando capitò, come s'è visto, improvvisamente la vedova Pianelli. Sulle prime non fu nulla; ma passata la sorpresa, e specialmente quando ella fu partita, egli cominciò a sentire il cuore in disordine, a vedere l'immagine di quella donna dappertutto, come un luminello bianco dopo che si è guardato nel sole, che ti resta nella pupilla, che vedi sempre anche nel buio, anche a chiudere gli occhi, anche a cacciare la testa sotto un cuscino. Quest'apparizione imbrogliò i suoi progetti. Tutte le altre ragazze dei dintorni, sulle quali da un pezzo in qua andava raccogliendo il pensiero, divennero, al confronto della bellissima vedova di Milano, figure scialbe di camposanto. Quella donna l'aveva commosso, gli aveva rotto il cuore con quel suo piangere sfrenato, con quelle scene di tenerezza e di dolore. Quando essa si tirava vicini i ragazzi, e se li stringeva al cuore, Paolino scappava sempre nei prati a piangere anche lui come un ragazzo. Ora che Beatrice non c'era piú, sentiva una specie di caverna di dentro. Prova a ragionare, se puoi, in queste faccende! Capiva anche lui che una cosa è prendere moglie secondo le regole di natura e un'altra è sposare una vedova con tre figliuoli. Per quanto un uomo sia ben provveduto del suo, per quante ragioni il cuore metta all'ordine del giorno, tre figliuoli son sempre tre figliuoli. La gente vuol parlare, e Paolino, animo già non troppo coraggioso, si sentiva impaurito dal pensiero delle ciarle che si sarebbero fatte. Ma ormai non sapeva pensare ad altro. Non mangiava piú, usciva la mattina col cappello tirato sugli occhi, prendeva una strada qualunque attraverso i prati, andava un gran pezzo, coi piedi nell'erba, col capo nelle nuvole, finché, sentendosi isolato nella silenziosa solitudine, si metteva a sedere sul margine di una riva o d'una gora, all'ombra d'un salice, cogli occhi fissi al bigio orizzonte, dove tra due fusti esili di pioppo si disegnava nello sfondo nebbioso di Milano la guglia sottile del Duomo. La sua esistenza era là, tra quei due tronchi, su quella guglia sottile. Non si può dire il bene che gli aveva fatto la letterina di Arabella. Se la teneva sempre con sé, nel portafogli, sul cuore, e nei momenti d'estasi la leggeva dieci volte di fila, a voce alta, provando quasi un senso di freschezza, un refrigerio ai suoi tormenti nelle parole dell'innocenza. Dio parla spesso per la bocca dei fanciulli. Anche Sant'Ambrogio, dice la storia, fu nominato arcivescovo per la bocca di un bambino. Ma a momenti di gioia succedevano altri momenti di sfinimento, di tristezza, di disperazione. Egli era un matto a credere che Beatrice volesse rimaritarsi, o anche, dato il caso, che volesse sposare un villano delle Cascine, prendere sul serio un Paolino qualunque, una donna come lei, abituata alla vita di Milano, una donna molto elegante, una donna ancor giovane e fresca, una donna, insomma, che poteva ben sposare un conte, un banchiere, un consigliere di prefettura. La nessuna voglia di mangiare in un uomo, che di solito divorava il suo pane di quattro soldi per antipasto, rese pensierosa la buona sorella Carolina, che una sera, coltolo solo nell'orto, lo tirò sotto un capanno di zucche e cominciò a dirgli colla sua flemmatica bontà: «Tu hai qualche dispiacere, Paolino.» «Io no.» «Sí, tu hai qualche dispiacere che non vuoi dire.» «Ti dico di no.» «C'è qualcuno che ha detto male di te o che ti invidia?» «Chi vuoi, cara te?» «Hai venduto male le bestie?» «Tutt'altro.» «Ti fan male le scarpe?» «Mi vanno benissimo» disse Paolino, mettendo innanzi un piede grande come un basamento. «Allora è segno,» soggiunse la sorella, posando le mani giunte sul grembiale «è segno che vuoi prender moglie.» Paolino, appoggiate le due braccia ai ginocchi e il volto ai due pugni stretti, disse con un piglio sgarbato: «Nel caso, non sarei io il primo.» «Avresti dovuto già farlo. Hai fissato l'occhio su qualcheduna?» Paolino tentennò il capo e fissò gli occhi in fondo in fondo sopra una siepe di sambuco, che cominciava allora a vestirsi di verde. «È la Teresina dei Bareggi?» Paolino disse di no col capo. «Allora è la figlia del fattore di casa Prinetti.» «Perché dev'esser quella?» «Perché viene tutte le domeniche a messa alla Colorina.» «La voglio bella o niente.» «Che cosa vuol dire bella? Non è il manico d'oro o d'argento che fa bella una scopa.» «Ah brava!» gridò Paolino ridendo «tu paragoni una moglie a una scopa.» «No, faccio per dire che non bisogna guardare agli accessori, quando ci sia il principale, cioè salute, religione e voglia di lavorare. Queste signore della giornata, che escono dalle monache, che mettono le mani sotto il grembiale tutte le volte che hanno bisogno di traversare la corte, che svengono se vedono uccidere un cappone, che non sanno spennacchiare una gallina, sono buone per i signori milanesi, per i signori impiegati. Tu hai bisogno di legno forte e stagionato.» Paolino, stringendo tra i due indici la canna del naso, lanciò di sottecchi un'occhiata alla sorella, per indovinare se parlava a caso o di proposito. «È di Lodi questa tua bellezza?» «No.» «Di Melegnano?» «No, cioè no e sí.» «Di San Donato?» «Oibò.» «Di Milano?» «Sí, cioè....» Paolino tirò un sospirone. «La conosco io?» «Diavolo!...» «Uhm!» La Carolina, che, sotto alla sua pacifica bontà era avveduta e furba, finse di non sapere orientarsi, per rendere la sua meraviglia ancora piú meravigliosa, quando Paolino mettesse fuori il nome di Beatrice. Per la buona donna questo matrimonio sarebbe stato naturalmente una disgrazia. Paolino capí il significato della reticenza e tagliò corto: «Se non indovini, è segno ch'io son matto da legare. Non parliamone piú.» Lí in terra c'era un pezzo di mattone. Paolino lo raccolse, lo palleggiò un momento nelle mani e con un'energia vera da matto disperato lo tirò in una siepe di mortella, facendo correre e cantare tutte le galline che pascolavano nell'insalata nuova. Capiva benissimo che una donna saggia e prudente non poteva consigliare a un buon figliuolo di sposare una vedova con tre ragazzi. Capiva benissimo che il matto era lui e perciò si sarebbe lapidato colle sue mani. Voltò via e non si lasciò piú vedere per ventiquattro ore. Finalmente pensò di parlarne a Demetrio, il solo che poteva dargli un consiglio sincero e disinteressato. Demetrio gli voleva bene, si conoscevano da un pezzo, erano due fave dello stesso guscio. A parlare non si fa peccato, e le passioni bisogna tirarle fuori e metterle all'aria, se si vuole che perdano le pieghe. Senza dir nulla alla Carolina, il giorno preciso di Pasqua di Risurrezione, scappò a Milano. O sarebbe risuscitato anche lui: o se doveva essere sepolto, meglio morto e sepolto, che vivere infilato sopra uno spillo. II Lo stesso giorno di Pasqua, Demetrio, dopo aver scritte e riassunte le spese della sua azienda domestica, usciva di casa con animo scoraggiato. La sera prima aveva dovuto ancora alzare la voce con sua cognata, che non voleva permettere che Mario entrasse nell'Orfanotrofio, dove, diceva, non vanno che i figli dei ciabattini. Era stata una nuova scena dolorosa, disgustosa, in cui Demetrio aveva dovuto ingrossare la voce e quasi bestemmiare il nome di Gesú Cristo. La pazienza ha i suoi limiti. Anche a lui piangeva il cuore di dover mostrarsi duro e inesorabile, e magari avesse potuto mantenerli tutti a biscotti e gelatine! ma, davanti alla necessità, davanti al pericolo di morir di fame, benedetto l'Orfanotrofio, benedette le raccomandazioni dei benefattori! Scorrendo la lista delle spese fatte durante quella triste quaresima, sentiva scorrere l'acqua fredda nella schiena. Oltre al debito grosso verso il cugino, che un giorno o l'altro bisognava pur pagare, Demetrio nella sua miseria aveva dato fondo ad altre tre mila lire sue, messe in disparte per l'avvenire, frutto di pazienti e lunghe economie, vere gocce di sangue stillato da una vita povera, senza piaceri, senza passioni, senza capricci, economizzando il quattrino giorno per giorno, sul caffè, sul tabacco, sul companatico, sul filo e sui bottoni dei suoi vestiti. Pasqua era qui. Domani egli doveva trovarsi col padrone di casa e regolare un'altra scadenza, o il padrone avrebbe sequestrato il letto e la pentola della minestra. Dove trovarle cinquecento lire lí sulla mano? E s'adirava di piú, perché, mentre egli si struggeva il cuore in questa maniera per salvare un pagliericcio agli orfanelli, quella stupida donna, quella maledetta donna, continuava a congiurare sotto mano contro di lui, non capiva bene in che modo, ma era una congiura in cui entrava la Pardi, l'Elisa sarta, il sor Isidoro, il diavolo... E pazienza gl'intrighi! Essa faceva di tutto per rivoltargli contro l'animo dei figliuoli. Mario aveva già dichiarato con una strana insolenza che egli non voleva entrare in gabbia coi ciabattini. Essa metteva odio e antipatia dapertutto contro di lui, fin presso i bottegai e presso i vicini di casa che, incontrandolo sulle scale, si tiravano un passo indietro e lo guardavano in cagnesco come si guarda l'aiutante del boia. "Ah, Signore Iddio!" pensava col capo basso "ci vuol proprio una gran fede per resistere! Aveva ragione il cavaliere: io mi mangerò il fegato, mi ridurrò in camicia e mi farò maledire. Se non fosse per quei poveri ragazzi, che non hanno colpa, a quest'ora sarei già scappato in America." Veniva su verso la piazza Beccaria, urtando sotto le scosse del suo pensiero il muro, quando si sentí a un tratto arrestare da due braccia, che caddero dure e rigide sulle sue spalle come due timoni di carrozza. «Sei tu, a Milano, oggi?» «Sono venuto a confessarmi in Duomo» rispose Paolino ridendo. «Segno che hai dei peccati grossi.» «Hai fatto colazione?» «Non ancora.» «Allora vieni con me al Numero Cinque in piazza Fontana e la faremo insieme.» Paolino delle Cascine era vestito come un signore, con uno stiffelio di panno nero, aperto sopra un panciotto di velluto rossigno a fraschette, una cravatta bianca a bolle rosse, i suoi guanti neri, il suo cappello rotondo di feltro inglese, e una magnifica catena d'oro a grossi anelli che attraversava la bottoniera. «Ti sei già messo in abito d'estate e ti sei fatto radere come uno sposino» disse Demetrio. «Primavera innanzi viene...» cantarellò il buon Paolino, cacciando il suo lungo braccio nel braccio del cugino per tirarlo verso piazza Fontana. «Sono stato a casa tua e mi hanno detto che eri appena uscito... Che cosa mangiamo? s'intende, paga Paolino.» Entrarono nella trattoria. Un cameriere, che non aveva ancora finito di preparare le tavole, li fece passare in una salettina appartata, stese in fretta una tovaglia, e, mentre andava collocando i piatti e le posate, prese a recitare la litania, che comincia di solito dall'osso buco e va a finire agli scaloppini coi funghi. Paolino non era di quegli uomini che si contentano di ciò che viene offerto. Un uomo non fa un viaggio apposta sul fresco la mattina di Pasqua, non invita un caro parente per mangiare un osso buco qualunque. «Tu comincerai» disse al cameriere, «a portare un bel piatto di salame misto scelto; intanto dirai al cuoco che faccia andare un risottino coi funghi, ma...» e finí con una scrollatina delle dita in aria, che diceva tutto. «Poi potremo discorrere di scaloppini, se piacciono a questo signore...» e rivolgendosi a Demetrio dimandò: «Che te ne pare?» «Me ne intendo cosí poco» rispose Demetrio con un atto raccolto di umiltà. «Scaloppini dunque e una frittatina rognosa doré? E vino?» chiese di nuovo, rivolgendosi a Demetrio che si schermí. «Mi garantisci il Valpolicella?» «Valpolicella vecchio, Barolo, Caneto...» esclamò il cameriere con una serietà superficiale, che nascondeva la voglia di scherzare. «Ma forse è meglio il bianco la mattina... C'è del Montevecchia? porta quello....» Il cameriere uscí. «Caro il mio caro Demetrio!» esclamò Paolino, quando furono seduti l'un contro l'altro, mettendo ancora le braccia sulle spalle al di sopra del tavolo. «Avevo paura di non trovarti.» «Ti ringrazio ancora di quel libretto della Banca che hai messo a mia disposizione.» «Senti, Demetrio, se fai di questi discorsi a tavola, me ne vado.» «Se non vuoi essere ringraziato, amen. La carità resta....» «Io sono in collera con te. Tu navighi in un mare di difficoltà, e non hai confidenza nell'unico nipote di tua madre.» «Vedi se non ho avuto confidenza....» «Io ti ho portato un altro libretto della Banca Popolare e mi devi giurare che lo adoprerai come se fosse tuo....» «Caro te, non posso accettare....» «Stia quieto, signor Pianelli, che non intendo di regalare il mio denaro a nessuno. Servizio per servizio, aspetta un poco, che metterò fuori il mio conto. Intanto farai piacere a trovarmi un buon impiego per una ventina di mille lire, che riceverò dopo la riscossa del frumento. Sento parlar bene delle Azioni zuccheri... Fai tu; mi contento anche di poco, quando sia un impiego sicuro. In secondo luogo verrai una festa alle Cascine e mi aiuterai a fare il bilancio... Quei numeri a me fanno venire il balordone... In terzo luogo... ma di questo discorreremo dopo il salame.» Paolino riempí il bicchiere del cugino e il suo d'un vinetto trasparente color dell'ambra. «Alla tua salute, Demetrio....» «Alla tua.» Paolino vuotò tutto il bicchiere d'un fiato come uomo che ha bisogno o di smorzare la polvere o di riscaldare il coraggio. Sul punto di fare un gran discorso al suo confidente, sentiva che il cuore gli sfuggiva da tutte le parti. Tuttavia fece un bell'onore al piatto di salame, versò un altro bicchiere, stendendo ancora una volta le braccia al di sopra del risotto fumante, e quando giunti a mezzo degli scaloppini gli parve di essere sicuro in sella, uscí fuori di punto in bianco con questa bomba: «Che cosa direbbe mio cugino Demetrio se gli dicessi che ho voglia di prender moglie?» «Bravo!» esclamò Demetrio con una vivacità, alla quale non era estranea l'allegria del vin bianco. «Ben fatto! e perché hai aspettato tanto? ne' tuoi panni, co' tuoi denari....» «Colla mia bellezza...» esclamò Paolino con uno scoppio d'ilarità, abbandonandosi con tutta la persona sul dosso della sedia e alzando le lunghe braccia in aria. «Lasciamo stare la bellezza, che per gli uomini non conta: ma tu sei nato per essere papà.» «Assassino di strada!» soggiunse l'altro guardandolo nel bianco dell'occhio. «Chi è? chi è?» si affrettò a chiedere Demetrio. «La conosco anch'io?...» «Io non ho detto che ho trovata la sposa, ma che voglio trovarla.» «È una parabola, si sa.» «No, no, Demetrio, non è una parabola; e devi aiutarmi tu a cercarla.» «Io?» Demetrio lasciò cadere la forchetta sul tondo e guardò fisso in viso il suo compagno. «Sissignore, lei, signor Demetrio Pianelli...» confermò Paolino, movendo a guisa d'ariete un dito lungo a grossi nodi, come se volesse conficcare il cugino sulla sedia. «Io, volentieri: tu sei un galantuomo, un ricco signore, non vecchio... Sei piú giovane di me.» «Son del quarantotto? io non mi ricordo nemmeno.» «Sei anche un bell'uomo.» Paolino tornò a sghignazzare, mostrando tutti i suoi trentadue denti bellissimi e sani. «Non dico con ciò che tu sia un astro...» aggiunse Demetrio ridendo. Da quanto tempo non rideva piú il meschino! Quel poco focherello di gioia, che l'educazione, il mestiere, i casi e l'invidia degli uomini avevano quasi soffocato sotto la cenere, si rianimava oggi al soffio dell'amicizia. Nella gioia semplice e calda di Paolino, Demetrio sgranchiva l'anima intirizzita; dimenticava i suoi guai, i suoi debiti, il padrone di casa, sua cognata..., tutto, per un momento, e sollevando il bicchiere sopra la tavola, esclamò: «Allora, bevo alla salute della sposa!» «Piano, bisogna prima sapere se lei è contenta.» «Dunque c'è una lei.» «C'è e non c'è. Per fare gli gnocchi ci vuole la farina, si sa; ma bisognerebbe sapere prima se lei è contenta di sposare uno scarafaggio simile.» «È una contessa?» «Cosa mi vai contessando....» «Perché non devi essere sicuro?» «È ciò che vado dicendo anch'io; ma ho paura....» «Segno dunque che sei in... innamorato.» «Corpo del diavolo!» esclamò Paolino, picchiando un gran pugno sul tavolo, «ho fin vergogna a dirlo. È vero. E dire che non ho mai creduto che si potesse perdere la testa per una sottana. Va là, farfallone, brucia anche tu le ali dorate, birbonaccio!» La faccia di Paolino delle Cascine, illuminata anche dai riverberi del vino bianco, s'era fatta lucida e rubiconda. Demetrio, lontano le cento miglia dall'immagine dove sarebbe andato a finire quel gran discorso, soggiunse: «Difatti sei diventato magro.» «Quando ti dico che è una birbonata. Io scherzavo gli altri, mi parevano cose impossibili, cose che si scrivono sui romanzi, o che si mettono sul teatro tanto per fare il duetto: di quell'amor, di quell'amor, ch'è palpito... Riverisco, grazie del palpito. Provassi, è una scottatura che non si guarisce col chiaro d'uovo sbattuto. Tu perdi la fame, perdi il sonno, ti muoiono le gambe, sudi sotto il cappello, vai di qua, di là, come un matto, parli senza pensare, senza capire, e ti viene fino in nausea il vino. Chi me l'avrebbe detto in principio di quaresima quando tu me l'hai condotta alle Cascine? E veramente fin che restò a casa mia, io non so, non mi accorsi. Quando ricevi una fucilata non la senti cosí subito: il dolore, la botta venne fuori dopo la sua partenza. Io la vedo in tutti i cantoni quella donna! Pare che Dio mi abbia levata l'aria respirabile. Mi dò del matto, del cento volte matto; ma non c'è verso che io possa togliermi dagli occhi la sua figura. Cominciai a sentire un dolore, qui, sotto le costole, e una mancanza, come se mi avessero tagliato un braccio, poi una voglia di nulla, un affanno di respiro, una palpitazione di cuore, una voglia di piangere....» A questo punto gli occhi di Paolino si velarono di lagrime, inghiottí un singhiozzo, picchiò un gran pugno sulla tavola e voltò la faccia dall'altra parte. Demetrio, non sicuro d'aver ben udite le parole del cugino, aprí la bocca a un oh! che non venne, e restò come incantato. «Lo so che sono uno scarafaggio in suo confronto,» continuò Paolino guardando in aria «e voglio che tu glielo dica. Se è no, addio! mi sarò strappato il dente. Ma se le buone intenzioni di un galantuomo valgono ancora qualche cosa, tu potrai dimostrarle che Paolino Botta non ha mai ingannato nessuno, e che se promette di dare un padre ai poveri figli di Cesarino, è come se giurasse sul calice della messa. Dille pure che venendo alle Cascine non dovrà fare la massaia: grazie a Dio ho di che far fare la signora a mia moglie e mandarla in carrozza. In quanto ai suoi figliuoli saranno miei e hai una prova in questa lettera di Arabella che tengo sempre nel portafogli e che avrò baciato cento volte a quest'ora. Se anche stentasse a rassegnarsi a vivere in una cascina, l'anno venturo scade il mio affitto e io posso andare a vivere dove voglio... Io non so che cosa non son pronto a fare per quella... per quella celeste.» Un altro singhiozzo troncò a mezzo la frase che Paolino finí con un gesto della mano in aria, simile a una benedizione. «Tu vuoi parlare di Be... Beatrice...» chiese trepidando Demetrio per paura d'ingannarsi ancora. «Eh!...» gridò Paolino, alzando le due mani. «O santa pace! tè, tè....» «Son matto?» «No, no, tutt'altro, anzi... ma guarda, tè, tè....» «Non è possibile?» «Io non avrei mai pensato; oh, giusto! Una vedova con tre figliuoli....» «Ma se ti dico....» «Sí, sí, magari, e sia lodato Dio! non sai che farei cantare una messa a San Celso coi rivestiti?» «Ah tu trovi?» «Che c'è una Provvidenza... tè, tè. Ma tu conosci bene Beatrice? Capisco che nelle tue condizioni scompariscono certi difetti. Magari, Jesus!» «Tu mi dài qualche speranza?» «Dammi la mano, Paolino.» «Tutte e due, Demetrio.» «Se tu non sei l'angelo mandato dal cielo, io non so che cosa sono gli angeli....» Demetrio colla voce piena di lagrime strinse al disopra della tavola le due mani di Paolino, che dopo riempí i bicchieri e fece rinnovare il liquido. I discorsi divennero subito piú fitti, piú caldi, piú intimi. Demetrio, man mano che vedeva la possibilità e l'opportunità del progetto, si sentiva alleggerire lo stomaco da un gran peso, da quel gran peso che minacciava di schiacciarlo. Sí, sí, vedeva proprio nella mano lunga di Paolino la mano di quella Provvidenza, di cui non aveva mai disperato. Non era un matrimonio che si potesse fare dall'oggi al dimani: bisognava preparare il terreno, e concedere tempo al dolore della vedovanza. Intanto però era per Demetrio un bellissimo aiuto l'alleanza di un uomo come Paolino delle Cascine; e questi dal canto suo nell'alleanza di Demetrio si sentiva tolto dal cuore quel sasso anche lui, che non lo lasciava piú vivere. I due cugini se la intesero. Demetrio avrebbe scritto alla prima occasione propizia; ma prima dovette promettere d'accettare un altro migliaio di lire come anticipazione delle future spese. Non accettò veramente che cinquecento lire per far tacere il padrone di casa. Intanto era venuto mezzodí. Paolino pagò il conto, salutò Demetrio, che rimase solo a prendere il caffè. Il signore delle Cascine, coll'anima gonfia di contentezza, traversò svelto come un uccello piazza Fontana, lasciando svolazzare le falde del suo abito di panno, piegò verso porta Romana fino alle Due Spade dove aveva lasciato il cavallo. Era felice d'aver parlato e si godeva quella felicità come un'anticipazione del resto. Demetrio, rimasto seduto davanti alla chicchera del caffè, seguitò un pezzo a rimestare nella bevanda cogli occhi fissi ai vetri, assorto in un pensiero senza contorni - tè, tè - nel quale si moveva un'altra idea piú piccina e piú lucente, da cui prendeva lume tutta la riflessione. "Tè, tè." In mezzo alle sue tribolazioni egli non aveva mai disperato; però non se l'aspettava cosí presto. Ma che diavolo aveva in sé quella benedetta donna, perché gli uomini dovessero diventar matti per lei? E senza cessare dal girare il cucchiaino nella chicchera, seguitò, cogli occhi fissi ai vetri: "Che diavolo?" Cesarino, una testa fantastica, un romantico, si capiva! ma Paolino delle Cascine bastava guardarlo in faccia per vedere che non era un poeta, tutt'altro, anzi era un uomo positivo, quadrato nella base: eppure anche lui, a sentirlo, aveva perduto l'appetito, il vino gli pareva cattivo, gli si velavano gli occhi, gli dolevano le costole, gli tremavano le gambe, e quella donna gli toglieva l'aria. Anche lui, tè, tè... Collo sguardo quasi cieco, sperduto nei fumi della bella colazione, col pensiero inchiodato a quel punto interrogativo che gli era spuntato per la prima volta in cuore, tornò a chiedere: "Che diavolo ha questa donna?" In mezzo alle sue tribolazioni, in mezzo ai suoi parenti, con un morto da portar via, con tanti debiti da pagare, con tante amarezze da inghiottire, in una lotta d'ogni minuto colla miseria, col pane, coi creditori, colle prevenzioni, coi pregiudizi, colle antipatie, egli non aveva avuto tempo di cercare in sua cognata la donna. Per lui essa non era che un debito, il piú grosso, il piú pesante, quello che non si poteva pagare in nessuna maniera e che tirava con sé tutti gli altri: ma al disotto del debito c'era la donna. Che diavolo aveva dunque mai questa donna...? Il tocco profondo e vibrato d'un orologio che gli stava sul capo lo svegliò dalle sue meditazioni e gli richiamò alla mente che non aveva ancora sentita la messa. Uscí in fretta, traversò in quattro passi la piazza Fontana, e presa la via dell'Arcivescovado, per la porticina secondaria, dalla gran luce esterna si rifugiò nell'ombra alta e solenne del Duomo, in fondo alla quale uscivano i colori sanguigni e violetti di una vetriata, tocchi e animati delicatamente dal sole. Lo spirito alquanto scosso ed esaltato di Demetrio si raccolse in quella grande cornice di ombre e di colori profondi, e sotto quelle alte vôlte intrecciate, nelle quali il pensiero corre senza perdersi. Là dentro anche l'anima prende la forma di tempio: si svolge e si esalta, giganteggia, fortificandosi nelle solide basi della fede. Demetrio si appoggiò a un pilastro, e si raccolse per ascoltare una messa ch'egli vedeva da lontano tra una selva di colonne. Ma, un poco per l'eccesso del bere, un poco per la novità delle cose udite, stentò a formulare un atto di fede con attenzione. Se Paolino gli toglieva questa spina dal cuore, egli avrebbe fatta cantare non una ma dieci messe. Questo matrimonio sarebbe stato la liberazione di un povero uomo incatenato. In quanto a Beatrice non era donna da pensarci troppo. Una buona vita in campagna, al di sopra degli stenti, con buona tavola, bei vestiti, cavalli e carrozza, un buon papà per i figliuoli, e poi la pace, la sicurezza per sempre... altro che! non sono fortune che càpitano a tutte. Anzi di solito càpitano a chi le merita meno. Se c'è una povera ragazza brava, onesta, di talento, non trova un cane: invece queste sans-souci, queste belle pigotte coll'anima di stoppa trovano sempre chi le veste e chi le fa ballare... «Orate, fratres» disse il prete, voltandosi indietro colle braccia aperte. Demetrio si accorse di essere in chiesa e cercò di raccogliere la mente al mistero della Santa Elevazione. Ma non era colpa sua se la testa usciva dai finestroni. "Che diavolo hanno addosso queste benedette donne?" Pensandoci un poco, e cercando di dare lí per lí una risposta alla questione, gli pareva di non aver mai guardata bene sua cognata, e di conoscerla soltanto attraverso a un velo di dolore e di antipatia: e allora si guastano anche le piú belle cose. Se invece avesse potuto considerarla con animo sereno, come Paolino; se invece di torturarsi l'animo e il corpo per risolvere tutti i giorni la questione della fame avesse potuto anche lui darsi il lusso e il buon tempo di fare all'amore... «Et ne nos inducas in tentationem» recitò la voce sonora del celebrante, come se rispondesse direttamente al soliloquio di Demetrio. Questi tornò da capo a rimproverarsi e cercò di ripigliare sé stesso, che usciva troppo di chiesa per correre dietro a pensieri senza costrutto. Ma prima che la messa fosse terminata, una strana, irresistibile dialettica che spettegolava dentro di lui, lo condusse un'altra volta a cercare la risoluzione d'un quesito, che s'imponeva alla sua volontà e a tutti i suoi proponimenti: "Che diavolo aveva dunque quella benedetta donna?" ,2
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