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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
IV
Demetrio abitava tre stanzucce poste all'ultimo piano d'una vecchia casa di via San Clemente, alle quali si accedeva per una scaletta semibuia a giravolte, come quella di un campanile. Una volta giunti lassú si aveva il compenso dell'aria e d'una grande occhiata sopra i tetti. Una piccola ringhiera menava a un terrazzino esterno, sul quale dal giorno che il nuovo padrone era venuto ad abitare in quella casa si distingueva una giovine vite del Canadà, che teneva il piede in un barile. Nella bella stagione verdeggiavano e serpeggiavano avviluppati ai ferri alcuni rami di fagiolo, che aprono i bei campanelli bianchi, rossi, violetti, e mandano i filamenti a carezzare il muro; da alcuni trespoli piovevano sul tettuccio sottostante dei ciuffi spessi di garofano. Ma piú che i fiori, Demetrio amava le erbe, le erbe semplici, vestite soltanto di verde, le tredescansie, che sembrano capelli sciolti d'una bella donna, le felci magre e lunghe, i muschi morbidi come il velluto, l'edera coi suoi capricci, ed anche il rosmarino, anche l'insalata dalle coste dure..., il verde, insomma, in tutte le sue modeste e ricche varietà, quel benedetto verde, che par fatto per il riposo del corpo e dell'anima. Nato anche lui nel bel mezzo dei prati lombardi e da una gente abituata chi sa da quanti anni a rovistare nell'erba, aveva nel sangue l'istinto fantastico della natura verde e silenziosa, della quale sapeva intendere le voci piú misteriose; era un vero appetito d'erba, che gli faceva costruire in tre o quattro cassette di legno sopra le tegole bruciate un campionario di quella natura, ch'egli sognava quasi tutte le notti. Quando voleva poi pigliarsi una boccata d'aria, andava a passare la domenica alle Cascine Boazze, poche miglia fuori di porta Romana, quasi sotto il campanile di Chiaravalle, la terra classica del verde, delle marcite, delle praterie color smeraldo, lunghe, larghe, distese a perdita d'occhio, sprofondate tra i filari dei salici grigi e dei pioppi tremolanti. Suo cugino Paolino Botta, presso il quale si era ricoverata la famiglia di Cesarino dopo la disgrazia, era figlio d'una sorella di sua madre. Si volevano un gran bene, fin dal tempo che i Pianelli abitavano a San Donato, un fondo limitrofo: e ora si rivedevano sempre volentieri senza bisogno di dirselo. Nei lunghi pomeriggi domenicali, i due cugini, colle spalle appoggiate al muro di un pollaio e coi prati distesi davanti fin che l'occhio poteva correre, stavano a discorrere un gran pezzo di coltivi, di concimi, di piante, di riforme agrarie, che non c'era nessun obbligo di eseguire. Oppure pigliavano la canna e andavano a pescare nei canali o nello stagno presso la chiesa, finché, fatto quasi buio, il regio impiegato pigliava il treno a Rogoredo e rientrava in città stracco e colla testa piena di erba come una cascina. Al taglio dei fieni il delicato profumo dell'erba secca lo accompagnava fin sotto le lenzuola, e svegliandosi la mattina, ne trovava ancora dei fascetti nelle scarpe. La prima stanza dietro l'uscio, che serviva d'anticamera e da salotto, conteneva un canterale, un tavolino, alcune sedie e una vecchia poltrona di vacchetta, a schienale diritto, a grosse borchie d'ottone, ridotta magra anch'essa dall'età e dall'astinenza. Nell'altra stanza c'era un inginocchiatoio di vecchio stile con su un crocifisso vecchio vecchio anche lui. Erano i pochi avanzi salvati dal naufragio della sua casa. La tetra stanzuccia serviva di ripostiglio e a un caso di cucina; ma di solito Demetrio usciva a mangiare, d'inverno a una trattoria in via degli Spadari, e d'estate, col bel tempo, ora qui, ora là fuori di porta, o alla Samaritana, o all'Orcello, o al Ginepro, e qualche volta fino a Sesto o alla Cagnola. Dalle tre finestre e dalla ringhiera si guardava in un cortile stretto e profondo come una torre, di cui non vedevi la fine; ma davanti l'occhio spaziava sopra una moltitudine di tetti e di tettucci, sovrapposti, accavallati l'uno all'altro, d'un uniforme colore bruciaticcio, con una moltitudine di abbaini e di soffitte sporgenti, di altane aperte, di comignoli di tutte le fogge, di tutti i colori, colle bocche nere, spalancate, sbadiglianti, con cappelletti in capo, di ferro, a guisa d'elmi, di visiere, di cuffie, di ombrelle: una folla insomma di figure che nella luce del crepuscolo e nelle notti chiare di luna parevano assumere un atteggiamento, un sentimento di vita. Eravamo già alla seconda domenica di quaresima e la stagione favorita da un marzo galantuomo si avviava allegramente a braccio della primavera. Il sole entrava vivo e festante per le tre finestrelle. Su per le tegole scorreva l'aria fresca mattutina e, qua e là, da qualche balcone alto o da qualche terrazza usciva un ramettino verde di sambuco. Demetrio, infilato l'ago, stava rattoppando una delle tasche de' suoi calzoni della festa, ingegnandosi da sé come deve fare chi ama la roba e non può spendere, canticchiando sottovoce e sollevando di tratto in tratto gli occhi al magnifico campanile delle Ore, che gli stava davanti, di un bel colore rossiccio, colle sue leggiere e vaghe ornamentazioni di terra cotta, che usciva da un mucchio di tetti disordinati come un bel soldato diritto. Oppure si arrestava incantato a contemplare la magnificenza del Duomo, di cui vedeva una membratura, un ricamo di marmo sul fondo celeste, che sfumava tremolante, per cosí dire, nella nebbiolina rosea del mattino. Sonarono le sei, quando entrò Giovann dell'Orghen col solito pentolino del latte e col pane fresco della colazione. Era detto Giovann dell'Orghen, perché tirava i mantici a Sant'Antonio e in altre chiese. D'origine era svizzero tedesco. Venuto a Milano dietro la carriola del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un ciottolone delle sue montagne che l'acqua abbia menato in giú. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche reminiscenza del suo vecchio terteufel, che Demetrio fingeva di capire tanto per fargli piacere. Il nostro galantuomo aveva fatto nella sua vita il giardiniere, l'arrotino, il guattero, il sacrestano, e, divenuto vecchio, sordo, debole di gambe, s'era ridotto a tirare i mantici e a trasportare i contrabassi e i violoncelli degli allievi che vanno al Conservatorio... Era insomma una specie di artista anche lui, ridotto dalla miseria dei tempi a vivere in una soffitta sotto il colmo del tetto, due scalette piú in alto di Demetrio. «A che ora c'è la messa a Sant'Antonio?» gridò costui. «Alle dieci e mezzo» rispose il sordo, che sapeva pigliare le parole al volo. «Viene a dirla un vescovo missionario chinese colla coda, che è a Milano per la liberazione dei moretti.» Giovann dell'Orghen rise all'idea di quel vescovo colla coda. «Oggi non tiro i mantici, perché sto sul campanile a suonare le campane a festa. Sentirà tra poco che concerto. Altro che Verdi!» E il buon diavolo tornò a ridere, alzando la faccia pulita colla barba appena fatta e colla pelle quasi lucente, sotto un magnifico cappellino di paglia, o magiostrina, come dicono, preludio di primavera. «Gli ho portato il latte bianco e il pane cotto nel forno» disse ancora collocando la roba sulla tavola «e vado subito perché il prete m'ha promesso anche la cioccolata.» «Addio, uomo felice!» gridò Demetrio e pensò, quando l'altro fu uscito: "Che gli manca per essere felice? Se avesse una camicia di piú, forse gli nascerebbero in cuore dei pensieri d'ambizione. Se anche gli manca un paio di scarpe, non ha rispetti umani lui: va in ciabatte... Chi si contenta è beato, ricco, è tutto quello che vuole. In fondo è il mio sistema: e non c'è mestiere piú stupido che il pretendere di raddrizzare le gambe ai cani." Dopo la gran predica del cavalier Balzalotti si era persuaso anche di piú che a lavar la testa agli asini si butta via ranno e sapone. In Carrobio non s'era piú lasciato vedere. Venne qualche creditore in ritardo ed egli lo mandò difilato a Melegnano, dal sor Isidoro Chiesa, da quel talentone. "Che! che! voleva giusto mangiarsi il fegato, perderci salute e denari, compromettere la sua dignità e il suo onore per gli occhi di uno... di una bella pigotta! Bel nome se si vuole; bisogna proprio dire che c'è della gente che ha nulla da fare a questo mondo, se passa il tempo a inventare questi titoli! No, no, non voleva saperne egli di partita doppia... Grazie tante, sor Demetrio riverito, una bella figura!" E arrossiva ancora a pensarci. A casa sua egli aveva i suoi vasi, tre gabbie di canarini e faceva conto di adottare anche una tortorella. Le bestie almeno capiscono la ragione, e, fin che possono, ti si mostrano riconoscenti. Ma le donne..., queste donne... Alla larga! Non aveva tempo di giuocar alla bambola lui! Accese un fornellino a spirito, vi collocò un ramino con un'oncia di burro, levò da un armadietto un paio d'uova portate dalle Cascine, e quando furono spumanti le tolse, pose sul fornello il pentolino del latte. Invitò Amoretto, il piú giudizioso dei suoi canarini, a tenergli compagnia. Aprí lo sportello d'una gabbia, l'uccellino saltò sulla tavola e cominciò a beccare. Intanto, per non perdere tempo e per mandare innanzi un po' di bene per l'anima, aprí il suo vecchio Kempis e cominciò a scorrerlo cogli occhi al disopra del piattello. Era un volumetto molto sciupato e gonfio, tenuto insieme a stento da una vecchia rilegatura di pelle con qualche avanzo dei fregi d'oro che le mani di molti ladri del Paradiso avevano slavato o graffiato nei duecent'anni o quasi dalla stampa del vecchio libro. Demetrio l'aveva caro, perché era stato della sua mamma, che lo aveva ereditato dalla sua, e tutti vi avevano pescato, come in un gran mare, qualche consolazione. Nella sua vecchia stampa il libro, dove Demetrio lo aperse, diceva: Confesserò contro di me la mia injustitia: confesserò avanti a Te, o Signore, la mia debolezza. Giovann dell'Orghen cominciò a scampanare a Sant'Antonio colla pazza fiducia di un sordo. E il libro: Sovente è picciol cosa quella che mi abbatte et contrista. "Questo è vero," pensò Demetrio, "noi ci lasciamo spesso deviare ed affliggere da un'ala di mosca." I canarini, eccitati dalla musica delle campane, cinguettavano e gorgheggiavano per cinquanta. "Mi propongo di fortemente operare et invece basta una mediocre tentatione perché io pruovi massima angustia...." Demetrio credette di leggere un rimprovero nelle parole del vecchio libro, e socchiuse un poco gli occhi, come se volesse discendere collo sguardo fino in fondo alla coscienza. Quando li riaprí, ne vide innanzi due altri, che stavano osservandolo in un modo strano e indiscreto. «Chi ti ha insegnata la strada, brutta bestiaccia?» "Beb" rispose Giovedí, che credette di sentire nella voce dello zio un sentimento piú umano a suo riguardo. E indovinò giusto. Questo nuovo sentimento di maggior tolleranza verso la piú brutta bestia del mondo era nato nel cuore di Demetrio una mattina che, essendo egli andato a far mettere un piccolo segno sulla fossa del povero Cesarino, vi aveva trovato Giovedí, umido di guazza, colle zampe nel terriccio ed il muso sulle zampe, in atto di fare compagnia a qualcuno. Alzando il viso al disopra della tavola, Demetrio credette di vedere di nuovo le quattro zampe del cane brutte di terra. Non ebbe piú cuore di dir delle insolenze ad una bestia, che veniva ad implorare un boccone di pane. Giovedí non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed era da compatire se abbaiava per fame. Gli buttò dunque un boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal guardare, co' suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente, ora lo zio, ora l'uscio, col corpo in preda ad una viva inquietudine. Subito dopo Demetrio sentí un passetto sulla scala, quindi l'uscio si aprí e comparve Arabella. «Sei tu?» esclamò lo zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino. La povera tosetta, vestita d'un modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se volesse dire: "Sono io". Ma la voce non uscí. Essa tremava di vergogna e di soggezione. «Che cosa vuoi? chi ti ha accompagnata?» «Ferruccio.» «Siedi.» «Zio!» soggiunse la fanciulla, aprendo i suoi larghi occhi di velluto, «è proprio in collera con noi?» «Sono in collera con nessuno, ma sto a casa mia» si affrettò a dire lo zio senza tante cerimonie. «Non ci abbandoni per carità, zio, per carità!...» La voce di Arabella s'intenerí e rasentò il pianto, contro il quale ella faceva di tutto per resistere. Lo zio rispose con una ruvida alzata di spalle e brontolò: «Non sono....» «Se abbiamo sbagliato, zio,» continuò quella voce piena di lagrime «ci perdoni per questa volta. La mamma non fa che piangere.» «È lei che ti manda qui?» gridò lo zio con una esagerata ruvidezza. «No, non sa che sono venuta. Ho detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala. È venuto anche Giovedí.» "Beb!" soggiunse il cane a sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio. «Povera mamma, ha quasi la febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che le ha detto di far cosí, ma adesso si accorge anche lei che aveva ragione....» «Chi aveva ragione?» chiese con un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti. «Lei, zio....» «Ah! lo so bene. Grazie tante.» «Non abbiamo piú nulla da mangiare. I bottegai non ci dànno piú nulla. Ieri e ieri l'altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio la medaglia de' miei esami, ma non si può andare avanti cosí, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione.» La voce di Arabella andò morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la forza di reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo di dire tutto quello che era venuta per dire. «Per amore del nostro povero papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza....» Il cane venne anche lui a posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio. Capiva anche lui che la fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della bimba faceva tremare la povera bestia. Demetrio si contrasse nella sua scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso guizzarono sotto la dura corteccia. Non era piú il credenzone, l'allocco d'una volta, e non per nulla il cavalier Balzalotti avevagli insegnata l'arte di stare al mondo. Le donne quali piú quali meno, sono tutte commedianti, specialmente certe donne... «Già, sono io che vi faccio patire la fame!» brontolò agitandosi sulla sedia. «Si dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno, e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse, si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi... Vieni avanti, mangia!» Demetrio aveva versato, colla mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino all'orlo del tavolo, mettendo vicino un pane. «E lei?» balbettò la fanciulla. «Mangia, non far smorfie. Già... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri. Ed io sono il ladro, il tradi...ditore... Mangia dunque, non farmi scappar la santa pazienza.» Arabella si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per obbedienza e per non irritare di piú lo zio. Ma alle prime cucchiaiate di latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella. Demetrio cercava di tirarsi in mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti di fame. Si è o non si è cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve lasciar morire su una strada tre poveri innocenti? Arabella lasciava cadere nella scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane. Demetrio, fatte due o tre giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a sé stesso: «Perché non dovrei aver volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro cane... L'ho provata anch'io la miseria e so che sapore ha: ma contro la miseria non c'è che un rimedio: volontà di lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai nominato tuo padre... Se sapeste tutto... Se fosse qui lui a vedere....» «Ah, zio, zio!..» proruppe la bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto fin qui. «Cosa?» «So tutto....» «Cosa sai?» «Mi dica che non è vero.» «Che cosa ti hanno detto?...» «Che il povero papà s'è ammazzato....» «Chi?» Demetrio strinse i due pugni in aria, con un rapido movimento d'ira, come se volesse scagliarsi contro l'assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder male, e il cuore... sentí che il cuore andava in pezzi sotto i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la povera tosetta. Colla gola stretta, strozzata da un'adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la posò dolcemente sulla testa di Arabella. Questa sentí tutto il significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare. Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento, tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con forza il grosso fazzoletto di cotone. Arabella, quando poté parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a prender acqua alla pompa, sentí sulla scala di sopra Ferruccio, che indicando l'uscione del solaio, raccontava a un altro ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassú. Aveva creduto di morir di spavento; ma capí subito che la mamma non ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la verità. Non era morta ancora, perché la Madonna Addolorata l'aiutava..., ma non ne poteva piú. «No, zio Demetrio, non ne posso piú» esclamò aggrappandosi colle braccia al collo dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella accigliata e ruvida dell'uomo. «Non ne posso piú... e il cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi dirà tutto, com'è stato... Ah Signore! il mio povero papà! mi dica che non è vero... Che cosa abbiamo fatto di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!» Arabella pronunciò il nome della Madonna con due gridi pieni di una disperata protesta, e subito dopo Demetrio se la sentí venir meno nelle sue braccia, come se morisse lí lí. «Arabella, povera figliuola mia» uscí a dire una voce, che Demetrio stentò a riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell'animo. E, come se veramente si snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l'appoggiò alla tavola, corse a un armadio a prendere dell'aceto, ne bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline d'amore sussurrate all'orecchio, volle infine che prendesse un granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue rifluiva alle guancie, corse di là, finí di vestirsi, prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e rincorata di nuovo la tosetta: «Andiamo,» disse «ne parleremo con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti... L'aria ti farà bene... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi.» E uscirono. Giovedí correva innanzi, ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e la nipote, e gridava: beb! Sulla porta trovarono Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e diede alcuni ordini per la spesa. Per strade secondarie si avviarono finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava sempre intorno con sospetto, per paura d'imbattersi per caso nel cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli. V La prima battaglia era vinta: ma il giorno stesso che Demetrio ripose il piede in casa di sua cognata volle assolutamente patti chiari, rimedi pronti, e cominciò a operare colla terribile inesorabilità del chirurgo che taglia fin che c'è male, senza badare agli strilli dell'ammalato. Beatrice dovette mordere il freno e rassegnarsi. A Demetrio importava poco di lei. Era venuto non per lei, ma per i figliuoli. I conti erano presto fatti. Cesarino non aveva lasciato dietro di sé che una piccola pensione militare, un'ottantina di lire all'anno. La dote di Beatrice era ancora in aria, mentre il buon babbo non aveva piú credito per un quattrino. Tra debiti grossi e minuti c'erano cinque mila lire da pagare al momento, oltre quello verso il Martini, e non c'erano tutti; poi bisognava vivere e vestirsi in cinque persone. A questi bisogni Demetrio non poteva far fronte che con qualche suo piccolo risparmio messo in disparte e col suo stipendio... Cominciò subito a vendere, a vendere, senza misericordia tutto ciò che non era strettamente necessario; placò l'ira del padrone di casa con una prima anticipazione, e rilasciò qualche cambialetta ai bottegai. Ma erano goccie nel mare. Per far fronte al grosso dei debiti e specialmente a quello segreto verso il signor Martini, scrisse a suo cugino delle Cascine Boazze, uomo di gran cuore e ben provveduto, che mise a disposizione del parente un libretto della Banca Popolare. Paolino, come s'è visto, amava Demetrio come un fratello e se ne serviva spesso negli affari suoi, specialmente per il buon collocamento dei capitali o per l'esazione delle cedole di rendita o per altre operazioni di questo genere, in cui Demetrio aveva una certa praticaccia. Nel mandargli il libretto della Banca, Paolino gli scrisse anche una lettera piena di maiuscole: "Caro cugino, L'opera che fai per i Figli di tuo fratello è santa e sarà Benedetta in cielo. Io ricordo sempre i benefici che ho ricevuti dalla Tua buona mamma, dunque metti che in questa circostanza i miei denari siano Tuoi e me li restituirai quando Potrai e non stare a Ringraziarmi. Salutami la signora tua cognata anche a nome di Carolina. Tuo aff.mo cugino BOTTA PAOLINO." La quale signora cognata, dopo il breve soggiorno dei Pianelli alle Cascine, era rimasta impressa nella mente del lungo Paolino, che da qualche tempo, oltre al mangiare di poca voglia, si sentiva addosso un certo lasciatemi stare, che la Carolina attribuiva ai soliti effetti della primavera. La buona sorella, un donnone tutta affezione e tenerezza, sempre malata di gambe, avrebbe voluto che il figliuolo pigliasse della magnesia; ma Paolino capiva che i suoi mali non si potevano guarire colle medicine. Con la testa piena di progetti e col cuore ancora pieno di speranze e di paure, colse al volo l'occasione di fare un po' di bene alla famiglia di quella donna, che, come si disse, gli era rimasta impressa negli occhi... Demetrio seguitò a vendere. Il pianoforte prese la via della scala e produsse un trecento lire, colle quali si poté ristabilire il credito del fornaio. La musica è una bella cosa, ma dopo pranzo. Altre cinquanta lire furono raccolte, vendendo ad un orefice la pendolina e qualche candelabro di bronzo. Un minutiere offrí venticinque lire di una gran pipa di schiuma di mare, nuova, con delle donne nude, che, oltre allo scandalo, non serviva a niente. Demetrio pigliava i denari con una mano e li spendeva coll'altra coll'idea di riempire dei buchi. Beatrice assisteva come una sonnambula a quel mercato che trasformava la sua casa in una bottega di rigattiere. Venivan su certi figuri, stavano a contrattare un poco, e poi quadri, tavolini, cornici, masserizie, pigliavano la strada della scala... Era un sogno per la misera donna, un sogno dal quale non riusciva mai a svegliarsi. Se faceva tanto di lamentarsi, di opporsi un poco, di difendere una cosetta sua, il cognato era lí, ostinato, duro, inesorabile come un aguzzino: «Ricordatevi che mi avete chiamato voi» diceva. «O comando io, o comandate voi. Se non vi piace, piglio il mio cappello e me ne vado....» E poiché non c'era da sperare salute in altri santi, bisognava mordere il freno, tacere, inghiottire e procurare di nascondere qualche cosa al furore morboso da cui pareva invasato quel terribile uomo. E cosí fece coll'aiuto della Pardi, alla quale scrisse una lettera pietosa, raccontandole tutte le sue miserie, e invocandone l'alleanza. A lei mandò di nascosto qualche gioiello, qualche preziosa memoria e si raccomandò come si prega la Madonna. La Pardina, che in fondo era una donna di cuore, sentí una gran compassione della poveretta. Forse parlava in lei anche un piccolo rimorso per il male che aveva fatto a Cesarino. Promise insomma di far tutto ciò che era nelle sue mani per aiutare la vedova disperata. Mandò subito qualche denaro di nascosto, perché la tribolata creatura potesse comperarsi almeno una spilla di lutto. Ma la piú gran scena scoppiò una mattina, un venti giorni dopo la morte di Cesarino, quando l'Elisa sarta portò a Beatrice e alla figliuola i vestiti di lutto. Per caso c'era anche Demetrio, che accolse la bella biondina con una faccia di spauracchio. «Che roba è? chi l'ha comandata?» dimandò bruscamente, mentre cercava di guardare nella scatola. L'Elisa, la bionda Elisa, a cui stava bene la lingua di porta Ticinese in bocca: «Cosa gh'è?» esclamò. «Semm al dazi?» «Son ciarle inutili» gridò subito Demetrio per farla finita. «Io non ho ordinato nulla: dunque porti indietro questa roba.» «Come porti indietro?» «Sí, indietro... Non ho comandato nulla....» «Ma io non so nemmeno chi sia lei.» «Se non lo sa, se lo faccia dire. Io non pago se non ciò che ordino.» Beatrice accorse al battibecco e cercò di dimostrare che si trattava di un modesto vestito di lutto, che aveva ordinato lei: ma Demetrio non volle sentire ragioni. «O pago io, o pagate voi: o comando io, o comandate voi. Questa roba io non la ricevo: la porti indietro e faccia presto.» Beatrice portò il fazzoletto agli occhi e scappò via, esclamando: «È troppo! non ne posso piú.» Il dialogo continuò sulla porta tra la bella biondina dagli occhi di falco e l'orso della Bassa. Quella cercava di farsi avanti: e questi faceva di tutto per chiuderle l'uscio sul naso. Dopo un mezzo minuto di ginnastica, l'Elisa, che aveva tutte le ragioni per perdere la pazienza e che dalle lagrime della sora Beatrice aveva capito all'ingrosso con chi aveva a che fare, aprí le valvole a una eloquenza che non ha niente a che fare con quella di Demostene, ma che macina piú di dieci molini a vapore. Demetrio, irritato, ostinato in quella grande impresa di riordinamento e di economia, non ripeteva che due frasi: «Non pago niente..., non ho ordinato niente...» Seguitava ad alzare la voce, cercando di aiutarsi sempre piú colle mani per cacciar via quella vespa, che, tolta la scatolona dalle mani della piccina, continuava invece a farsi avanti urtando Demetrio nella pancia. Seguí un duetto in due chiavi, che tirò l'attenzione di tutto il vicinato. Per un poco furono monosillabi: chi? io? lei? sí? via? (e intanto le finestre si popolavano di gente). E il dialogo durò cosí un pezzetto. Ma quando Demetrio uscí fuori col titolo di sora pettegola, addio, fu il diluvio universale! L'Elisa salí sugli acuti e cantò una litania in cui entravano tutte le bestie dell'arca di Noè, dallo scorpione ai pipistrelli. Il povero uomo fu paragonato a un moccolo, a un cero pasquale, a una cartapecora di messale stracciato, a un cavastivali, a una sedia sgangherata, a cento cose, l'una piú metaforica dell'altra, che nella fantasia della giovane e nella furia del momento servivano bene, come serve bene qualunque cosa venga alle mani in un momento di rivoluzione. Non era una donna, ma una trombetta. Demetrio perdette subito la voce sotto quel diluvio. Vedendo che le scale e i pianerottoli si riempivano di gente e dalle finestre del cortile uscivano teste e cuffie, non volendo prolungare lo scandalo, con uno spintone piú forte degli altri cacciò fuori la ragazza, chiuse l'uscio, girò la chiave, e, mentre l'Elisa faceva su per le scale la casa del diavolo, suscitando la curiosità e i commenti dei vicini egli tornò in cerca di Beatrice, e, agitando nell'aria le due dita del suo eterno dilemma, gridò ancora una volta con voce racusa e scassinata: «O comando io, o comandate voi: o pago io, o pagate voi: o mi volete, o non mi volete..., o resto, o vado via....» Beatrice, soffocata dalle lagrime e dalla passione corse a vestirsi e uscí di furia, sbattendo gli usci dietro di sé.
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