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Info sull'Opera
Autore:
Emilio De Marchi
Tipo:
Racconto
 
Notizie Presenti:
 -

Demetrio Pianelli (II Parte,2,3 )

di Emilio De Marchi

II

Il giorno dopo, come se non fosse accaduto nulla di diverso, si alzò, si vestí e colla solita puntualità uscí per andare all'ufficio. La precisione e l'uguaglianza delle sue abitudini era tale, che il signor Pianelli serviva di orologio agli studenti e alle sartine, che affrettavano il passo quando l'incontravano al disotto del Cordusio. La sua strada era sempre la stessa tutti i giorni: piazza del Duomo, piazza dei Mercanti, Cordusio, Bocchetto: da una parte delle botteghe nell'andare, dall'altra nel tornare. Sotto i portici meridionali comprava un sigaro virginia (l'unico vizio), che era già preparato in un astuccio di carta e ch'egli metteva in tasca per fumarne mezzo a colazione, mezzo dopo pranzo.
Stretto nei soliti panni color cioccolata, sempre quelli ma puliti, col bastoncino infilato in una tasca del paltò, andava col suo passo pesante di contadino, urtando spesso il muro colla spalla come un carro che esca tratto tratto dalle sue rotaie.
Veniva dunque quel giorno, tutto raccolto nelle sue grinze, quando, arrivato davanti al mercante Simonetta, sentí qualche cosa di morbido sdrusciargli le gambe. Era ancora quella bestiaccia di Giovedí col pelo sporco e arruffato, cogli occhi malati, che gli teneva dietro da cinque minuti senza che egli se ne accorgesse.
«Marcia via!» disse, alzando un poco il piede per farlo scappare.
Il cane, tiratosi indietro un passo, si fermò col muso in alto a guardare l'uomo, con occhi pieni di malinconia, dimenando il suo soldo di coda lungo un dito.
Quando Demetrio si mosse per continuare la sua strada, la bestia seguitò a pedinargli dietro come se seguisse il suo padrone. Demetrio si fermò un'altra volta sull'angolo degli Speronari e il cane si fermò anche lui e tornò a dimenare il suo soldo di coda, guardando sempre con quegli occhi...
Allora Demetrio finse di entrare nella porta del fiorista, ma vide che il cane gli andava dietro. Pensò se c'era vicina una chiesa con doppio ingresso per fargli perdere la traccia, ma di chiese non ce ne sono in quel tratto... La bestia poteva anche essere arrabbiata: arrabbiata o no, non voleva avere a che fare con lei e con nessun altro di quella casa...
Guardò in su e in giú se vedeva una guardia, un sorvegliante, un'autorità per farlo menar via, ma non vide un cane, tranne il suo.
E questo, duro, ostinato, gli andava dietro colla costanza di una bestia che non mangia da due giorni.
Provò ad affrettare il passo, a correre: e il cane dietro a correre anche lui.
Lo zio si fermò la terza volta, trasse il suo lungo fazzoletto di cotone turchino, fece un grosso nodo a uno dei capi, lo alzò come un flagello; ma Giovedí, facendo arco della schiena e piagnucolando, venne ad accosciarsi ai suoi piedi.
Che doveva fare? ammazzarlo?
Giunto finalmente sotto il portone del Demanio, picchiò nei vetri del portinaio e avvertí il Ramella con dei segni. Il Ramella guardò attraverso i vetri dell'antiporto, capí di che si trattava e venne fuori. Quando il cane vide in aria l'asperges, fuggí come il diavolo.
Demetrio giunse in ufficio con qualche minuto di ritardo, un'ora prima del suo capo, il cavalier Balzalotti. Arrivato al suo posto, che era un tavolo accanto a una finestra, difeso contro i colpi d'aria da un vecchio e logoro paravento, tolse prima di tutto il sigaro di tasca, lo guardò alla luce se c'era tutto e lo collocò come una preziosa reliquia sopra lo sporto della finestra.
Aprí il cassetto e controllò i due panini nel cartoccio. Fece una rapida ispezione al suo cappello rotondo, vi picchiò su con un buffetto per spazzare via un filo di polvere, lo tuffò delicatamente in una custodia di carta fatta apposta e lo collocò nella sua vestina sull'ometto. Poi aprí un altro cassetto e trasse fuori le due manichette di tela lucida ch'egli metteva per scrivere. Se le infilò: diede una nervosa e rapida fregatina alle mani, chiudendo gli occhi, accartocciando tutte le rughe della faccia. Poi cominciò la diligente pulizia degli occhiali.
L'egregio cavalier Balzalotti da qualche tempo, come forse s'è già detto, aveva fatto venire il Pianelli nel suo ufficio e se ne serviva come di copista per una lunga relazione intorno all'esazione sulla tassa di bollo e registro, che doveva essere presentata per Pasqua al Ministero delle Finanze.
Il tavolone del cavaliere, pieno pieno di carte e di allegati, era posto nel mezzo della parete, sotto un bel ritratto del re, tra due campanelli elettrici, poco lontano dalla bocca del calorifero.
Il Pianelli, uomo paziente, discreto, di poche parole, era come se non ci fosse. Copiava, ricopiava, scriveva sotto dettatura, con una calligrafia grossa e precisa, senza fare tante questioni di lingua e di grammatica, come pretendono certi chiacchierini saputelli, che, per essere stati bocciati alla quarta ginnasiale, credono di saperne di piú dei loro superiori.
Demetrio, non molto forte anche lui nelle questioni, dirò cosí, filologiche, copiava tutte le parole ciecamente, senza discuterle mai, senza mai cercare se avevano un senso o se dovevano averlo. Egli non si sarebbe mai permesso, per esempio, nemmeno una timida osservazione sui molti laonde, che il cavaliere seminava ne' suoi periodi e nelle sue relazioni al Ministero, e fingeva di non capire lo scherzo, quando qualche burlone degli altri uffici gli domandava notizie del cavalier Laonde.
Tutte queste buone qualità d'uomo discreto e modesto gli avevano guadagnato la stima e sarei per dire quasi l'affezione del suo capo, che una volta gli aveva ottenuta una piccola gratificazione e prometteva di fare qualche cosa di piú per l'avvenire.
Demetrio, dal canto suo, si era affezionato alla sua sedia di pelle sotto la finestra, che rappresentava dopo tante burrasche un porto sicuro e tranquillo, ove egli poteva riparare la vecchia carcassa della sua barca.
Sul cuoio lucido di quella sedia erano rimaste le infossature di due o tre generazioni di impiegati, che avevano tratto di là il pane dei loro figliuoli e le spese capricciose delle mogli; egli che non aveva né moglie, né figli, sperava di uscirne coi calzoni meno stracciati.
In Carrobio non si sarebbe lasciato piú vedere nemmeno se ve lo avessero tirato con le corde di Valenza.
Il Signore era testimonio ch'egli non si era rifiutato di versare una goccia d'olio sopra una piaga: ma non voleva essere né odiato, né maledetto. Stava cosí bene nel suo guscio...
Data un'altra fregatina alle mani, se le portò alla testa e carezzò due o tre volte coi palmi le due gote come se si asciugasse la faccia e presa la penna, dopo averla provata sull'unghia grossa del pollice, ricominciò a copiare al punto dov'era rimasto il giorno prima: avvegnaché non sembri a codesto Eccelso Ministero poco retribuito il reddito imponibile, nonché gli altri cespiti tassativamente indicati nella precitata Circolare del 10 ultimo scorso, N. di protoc. 54657, Posiz. 32, N. di partenza 307, e oltracciò avvegnaché non abbia a patire detrimento l'organica esazione come laonde....
«Signor Pianelli» disse il vecchio portiere Caramella, che sonnecchiava le dodici ore al giorno in anticamera «c'è un signore, un vecchio, che vuol parlarle.»
«Chi è?»
«È un vecchio, un uomo....»
«Gli avete detto che non ricevo in ufficio? sta per venire il cavaliere....»
«Dice che ha bisogno... Pare un mezzo matto....»
«Sarà uno dei soliti» soggiunse Demetrio, che da una settimana vedeva passare la processione dei creditori. "Questo lo mando a Melegnano dal sor Isidoro" pensò. «Non voglio impiccarmi per... Fatelo entrare un momento» soggiunse a voce alta.
«Per questo son già bello ed entrato» esclamò il vecchio mezzo matto, venendo innanzi da sé come se fosse il padron di casa.
Era un uomo sui settant'anni, d'aspetto campagnuolo, tarchiato e vigoroso, vestito di un abito grigio sciupato, con due grandi occhialoni sopra un viso color del mattone e con un nodoso bastone in mano di un bel legno giallo, contorto come una radice.
Fece tre passi avanti, cadendo tre volte sulla gamba destra che aveva piú corta della sinistra e, senza levarsi il cappello di testa, fissando in faccia a Demetrio i grandi vetri dei suoi occhiali, disse con voce sguaiata:
«È lei quello che chiamano il Demetrio?»
«Sissignore» rispose Demetrio non senza un piccolo sorriso ironico.
«Allora mi siedo, perché sono stanco come un asino.»
«Si accomodi, ma faccia presto.»
«Son già seduto, grazie, obbligato. Non guardi se ci ho un vetro rotto nel mezzo. È una memoria che conservo, una grazia ricevuta dalla madonna. È stata una cavalla che aveva mangiata della cattiva stoppia, sprrang... mi regalò un calcio qui nell'occhio. Si è rotto il vetro, ma la testa, oh, sí!.. testa di bronzo, corpo del diavolo!»
«Ho l'onore? faccia presto....»
«Ecco, l'onore veramente è una parola troppo di lusso per un uomo che non ha avuto nemmeno il tempo stamattina di farsi lustrare gli stivali. Son venuto a piedi da San Donato a Milano, e c'era un fango alto cosí....»
«Senta, si sbrighi....»
«Stia comodo, caro il mio carissimo sor Demetrio, che in un pater, ave e gloria la minestra è cotta. So bene che i regi impiegati non hanno mai troppo tempo da perdere coi signori contribuenti. So da un pezzo quel che significhi un regio impiegato.»
Il vecchiotto color mattone accompagnò queste parole con un suo gesto favorito, che consisteva nel porre il dito indice alla coda dell'occhio, sporgendo un poco le labbra e aguzzando lo sguardo a una sopraffina espressione di mariuoleria.
«Non mi levo il cappello perché sono sudato e poi noi siamo americani. Sono stato a casa sua a cercarlo, e non ho trovato che un vecchio sordo come una campana. La portinaia mi ha detto: "È già andato all'ufficio." Allora io ho pensato: "Poiché siamo in piazza Fontana, approfittiamo della circostanza e facciamo colazione" e sono andato al Biscione, dove una volta ho mangiato una eccellente busecca alla milanese. Una volta c'era anche del vin buono - parlo di trent'anni fa, quando il Biscione non era diventato ancora un grand hôtel. Ci andavo tutte le settimane, fin da quando viveva mio padre, jesus per lui, anzi ho passato al Biscione la mia prima notte di matrimonio. C'è da farne un quadretto. La mia povera Marianna non era mai stata al Biscione... ah! ah! sicché, s'immagini che paura!.. Basti dire che è scappata su per la ringhiera in camicia....»
«Scusi» interruppe aspramente Demetrio, «chi è lei? che cosa vuole? non ho tempo di stare a sentire le sue fanfaluche.»
«Ecco un parlar chiaro, corpo del diavolo! Se si tratta dunque di farle quell'onore che dice, io sono il Chiesa di Melegnano.»
«Il sor Isidoro?» esclamò Demetrio un po' mortificato e confuso.
«Sí, Isidoro Chiesa, uomo libero per la grazia di Dio e che non mangia il pane di nessuno.»
«Se avessi saputo... non ci siamo mai incontrati.»
«Non abbiamo mai avuto quest'onore... Son venuto a Milano per discorrere di quella faccenda; anzi per far piú presto ho portato con me tutto l'incartamento talis et qualis come me l'ha consegnato ieri l'avvocato Ferriani... Conosce l'avvocato Ferriani? un bravo giovane, svelto come un uccellino, un poco storto di gambe, ma diritto di cervello. Questi nanis quanis alle volte hanno un talento! Anche la vite è storta, e fa buon vino. Transeat! Da questo incartamento ella potrà farsi un'idea precisa delle cose, come le ho raccontate al povero Cesarino. Io sono uno che ama le cose chiare, sebbene ne abbia ricevute di quelle che non le ha sofferte nostro Signore sulla croce. Ma un Chiesa non si umilia né per cento, né per duecento, né per mille marenghi. Un Chiesa non si vende.»
Il mezzo matto cominciava a gridare e ad agitare il suo bastone bistorto in aria.
«Io non so nulla...» disse Demetrio umile e paziente.
«Si tratta di un capitale di ottanta mila lire che l'Ospedale mi deve sacrosanto, come è vero che ho ricevuto il battesimo. Lei saprà benissimo la storia di quel capitaletto: c'è da farne una tragedia. Io sono salito sul fondo di Melegnano l'anno mille e ottocento cinquantasei, l'anno del colèra, ai tanti di novembre.»
«Senta....»
«L'avvocato Ferriani, che non è un'oca, dice e sostiene che ho tutte le ragioni. Negli articoli del capitolato c'era una clausola che contemplava appunto la restituzione di quel precario, per cui io ho diritto a un risarcimento, sí o no? Si tratta di ottanta mila lire, non un quattrino, e in queste c'è la dote di mia figlia, che vuol dire il pane de' suoi figli, sangue del mio sangue. Pazienza ancora se i denari andassero a sollievo dei poveri; ma lei sa meglio di me che in queste pie amministrazioni è un rubamento e un mangiamento generale. Mangia l'ingegnere, mangia il ragioniere, mangia l'economo, mangia l'avvocato che fa le cause, mangia il giudice che fa le sentenze, mangia la Corte d'Appello che le rivede e su su, ladro via ladro fa ladro, è tutta una consorteria birbona.»
«Scusi....»
«E io, bestia, mi son sempre fidato. Ma dice bene quel nanis quanis del mio avvocato: la pazienza dei popoli è la mangiatoia dei tiranni, e sento anch'io che un po' di catastrofe universale di tanto in tanto ci vuole....»
«Ma senta....»
Il vecchio infervorato non lasciava il tempo di aprire la bocca.
«Se io esagero,» continuò, inarcando le sopracciglia e movendo quei due grandi specchi ustori che aveva sugli occhi, «se io esagero, mi possa cadere un fulmine sul collo, e restar qui, in nomine patris, filii et spiritus. È tutta una lega di moderati birboni....»
Proprio in questo momento entrò il cavalier Balzalotti, che si fermò un istante a dare un'occhiata al predicatore.
«Tutta gente che vende la pancia al Governo. Rubano i ministri, rubano i segretari generali, rubano i capi divisione, e giú giú fino all'ultimo guattero del regno d'Italia, con Depretis alla testa, è una ladreria di mutuo soccorso....»
A queste parole pronunciate in presenza di un superiore, Demetrio scattò come un razzo e alzando la voce anche lui con una furia caina (perché ogni pazienza ha il suo limite) dimostrò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano che non è alle persone di buon senso che si fanno certi discorsi, e che un pubblico ufficio non è un'osteria. Il suo tempo era prezioso, e se non aveva nulla di piú bello di queste fanfaluche, andasse a contarle al suo avvocato. - Nell'eccitazione dell'ira il volto di Demetrio si fece rosso come la cresta del gallo, e i duri muscoli guizzarono sotto la pelle infiammata come un gruppo di biscie. Il cavalier Balzalotti, che finiva di dare l'ultima occhiata alla Perseveranza, gli fe' segno d'aver pazienza e di lasciarlo dire.
«Lei» soggiunse il Chiesa col suo bel risolino sardonico «lei parla cosí, perché anche lei mangia alla greppia. Ma lasciamola lí. Non sono venuto per cercare la carità a nessuno, ma soltanto per far valere dei diritti.»
«Che diritti?»
«Suo fratello prima di morire mi aveva promesso settecento lire per vedere di finire questa causa.»
«E cosí?»
«Ci ho qui ancora la lettera, nella quale Cesarino mi diceva di andare avanti, di fare i primi passi coll'avvocato, di battere il ferro mentr'era caldo; che in quanto ai denari li avrebbe trovati lui, anzi mandò lui stesso un acconto di duecento lire all'avvocato Ferriani. Io sono andato avanti, ho battuto il ferro, e per Dio, non si lascia neanche un malfattore impiccato a mezzo sulla forca. L'avvocato ha sulla garanzia di Cesarino e nell'interesse dei minorenni smosso della polvere, versato dell'inchiostro, ha unto le mani a qualche cancelliere per far correre la cosa, ha fatto spese in scritturazioni e carta bollata; ma se non ha le settecento lire promesse, è come aver messo le pezze e l'unguento su una gamba di legno.»
«E viene a contarle a me queste cose?» gridò Demetrio in preda a una convulsione nervosa, che non seppe piú dominare alla presenza del suo capo ufficio.
«Non è lei il fratello di suo fratello?»
«Io non ho promesso niente a nessuno.»
«Lei è il tutore dei minorenni.»
«Io sono il tutore di nessuno....»
«C'è un'obbligazione, corpo del diavolo! e a un Chiesa di Melegnano non si dànno ad intendere delle ciarle.»
Il vecchio strillava come un'oca: e a lui di ripicco l'altro:
«A un Chiesa di Melegnano io dico che non lo conosco.»
«Dunque il signor Demetrio non crede alle mie parole...» strillò di nuovo il vecchio, alzandosi e picchiando in terra il suo bastone bistorto.
«Io credo che lei è un gran buon uomo.»
Queste parole furono come un secchio d'acqua sopra un gran fuoco che divampa; che non lo smorza, ma lo umilia per un momento, facendolo stridere quasi irritato in mezzo a un nugolone di cenere.
Cambiando il tono chiassoso in un tono sibilante e canzonatorio, il Chiesa cominciò a dire con un sorrisetto di acerba ironia:
«Ah! io sono un gran buon uomo?!»
«Vada da mio fratello a farsele dare le sett...tecento lire. Io non vivo di grassazione per sua regola!» gridava l'uno: e l'altro sempre sorridente:
«Ah! io sono un gran buon uomo» e appoggiato al bastone diritto come le sue idee, cominciò a dondolare il capo a destra e a sinistra. «Ah! io sono....»
«E se l'avvocato ha speso duecento lire in bolli, si faccia bollare anche lui per quattrocento... e vada fuori dei piedi che ho già la testa come un cavagno.»
Lo zoppo, quasi sospinto dalle mani lunghe e ossute di quello che dicevano il Demetrio, stordito forse di quella accoglienza, cominciò a ritirarsi a poco a poco verso l'uscio, girando sopra sé stesso come una vite di torchio che infili il pavimento, mandando terribili lampi e fosforescenze dalle due grandi invetriate.
«Ah! io sono....»
Giunto sulla soglia si drizzò tutto, brandí il pomo del bastone colle due mani e picchiando forte in terra gridò compiendo la frase con un gesto di sfida:
«Ci rivedremo, Filippo!»

III

Demetrio, appena il vecchio matto se ne fu andato, si volse tutto mortificato verso il cavalier Balzalotti e, con voce tremante un po' per dispetto e un po' per soggezione, balbettò qualche scusa.
«È troppo buono, Pianelli, glielo dico sempre: e sa che cosa significa a Milano essere troppo buono?»
Cosí prese a dire il cavalier Balzalotti, che a quella scena s'era divertito mezzo mondo e che non era troppo in vena di lavorare quella mattina.
«È troppo ingenuo lei, troppo poco pratico del mondo. Non tocca a me dare dei pareri, perché il proverbio dice: metà pareri e metà denari; ma se mi avesse dimandato in principio, gli avrei detto: Se ne lavi le mani. Che diavolo! non conosceva anche prima come stavano le cose?»
«Sa, ci si trova implicati... Una povera famiglia....»
«Segno di buon cuore, ma il buon cuore in certi casi non basta. Ci vuole il bastone in certi casi. A me non me ne viene in tasca niente, figuriamoci, ma mi rincresce vedere un galantuomo nell'acqua fino alla gola. Lei si mangerà il fegato, butterà via quei pochi risparmi messi in disparte per la febbre e infine si farà odiare e maledire. È il solito, creda a me.»
«Comincio bene ad accorgermi» mormorò Demetrio.
«Altro che! La gente riceve piú volentieri una bastonata che un beneficio, e poi che gente! È un pezzo che conosco i coniugi Pianelli e saprei dire cento storie di lord Cosmetico e della bella pigotta.»
«Di, di?»
«Come? non sa che mezza Milano li chiama cosí? bisogna proprio cader da un abbaino, caro Pianelli, per pigliare a occhi chiusi certe matasse da dipanare. Non dico che suo fratello non fosse un giovinotto allegro e simpatico: tutt'altro. Non per nulla uno si fa chiamare lord Cosmetico. Non dico nemmeno che sua cognata non sia una bella donna; posso anche giurare che poche contesse hanno due spalle e due braccia piú ben fatte. Suo fratello, da buon farfallone, si abbruciò le ali a questa candela. Lei lo sa meglio di me. Il lusso non era mai abbastanza: casa Litta addirittura. E quando un impiegato non ha che il suo magro ventisette del mese, creda a me, cioè, lo sa benissimo che è, dirò cosí, come la botte delle Danaidi. Feste, teatri, scampagnate, perle, vestito di raso, diamanti. Ohè! Ci si rovinano i principi, specialmente quando si vuole star sull'orgoglio e non far parlare la gente. Con tutto ciò la gente non ci crede lo stesso, e quando non trova la somma in una maniera, rifà i conti in un'altra, in partita doppia d'entrata ed uscita....»
Il cavaliere, che durante questa predichetta aveva continuato a spazzolare colla manica la sua bella calotta di velluto, giunto al malizioso epilogo, socchiuse gli occhi piccini e mise in vista i magnifici avorî della sua dentiera Winderling.
Demetrio, che udiva per la prima volta e da una persona cotanto autorevole, amica del suo bene, ciò che formava probabilmente da cinque o sei anni la cronaca del Carrobio, rimase incantato, a bocca aperta, come il villano innanzi a quei quadri detti dissolventi, che sfumano l'uno nell'altro.
«Il buon cuore è una bella cosa, ma alle volte il cuore è buono per i merli. È una settimana che io vedo venire innanzi e indietro gente d'ogni colore e d'ogni faccia. Che cosa ha speso a quest'ora? e quanto gli resta ancora da pagare? e quando avrà pagato tutti i debiti vecchi, chi pagherà i nuovi? perché, non si lusinghi che sua cognata possa rassegnarsi a una vita di sacrifizio e di lavoro. Non so nemmeno se sappia cucire insieme un paio di calze... Dietro di lei c'è questo vecchio gufo, come credo aver capito, che è capace di minacciare un processo, lo spoglieranno della camicia, diranno che ha tradita la vedova e gli orfani derelitti e in fine si farà canzonare dalla gente.»
Demetrio, come imparasse per la prima volta i principî d'una scienza nuova e meravigliosa, stava a sentire, con tanto d'occhi aperti, come impiombato coi piedi sul pavimento.
«Canzonare è una parola, per non dir peggio. Perché,» qui il cavaliere abbassò un tantino la voce e fece un passetto verso il subalterno «perché, se non si offende, mi capisce, la gente è cattiva, si sa, e potrebbe supporre che lei pensa alle spese chi sa con quali intenzioni, o che - che so io? - che lei ci abbia quasi il suo interesse....»
Le orecchie di Demetrio, a queste parole, diventarono rosse come il fuoco; e la fiamma, che scese tra pelle e pelle fin sulle guance giallognole, andò a spegnersi sulla linea del naso. Un piccolo tremito invase tutta la persona, e le mani si apersero nell'aria quasi automaticamente, senza che il povero ignorante sapesse lí per lí rispondere una parola, nemmeno un grazie, per degli avvertimenti che lo arrestavano sull'orlo di un abisso.
Tutto aveva pensato, tranne a questo caso, che la gente potesse supporre quello che forse supponeva già e che era nei suoi diritti di supporre.
Sicuro che era cosí! il lusso, la tranquillità, l'ironia con cui l'aveva accolto sua cognata dovevano avergli aperto gli occhi, se egli non fosse stato una vecchia talpa cieca, ignorante di tutte le cabale del mondo, un bestione, sciocco e paziente come un cammello, e come un cammello sempre rassegnato di portare la casa degli altri sulla gobba.
Tanto per giustificarsi un poco davanti al suo superiore e benefattore, dopo aver masticato un pezzo le parole, provò a dire:
«E quei poveri figliuoli?»
«Ecco,» soggiunse il morbido consigliere «ai figliuoli forse è il caso di pensarci un poco; ma è inutile ingannare con false carità dei poveretti, a cui non si ha da poter lasciare che gli occhi per piangere. I figliuoletti vorrei metterli in qualche orfanotrofio, in qualche istituto di beneficenza. Non è questo che manca a Milano, e io stesso per quanto posso esser utile, se crede... conosco il presidente degli orfanotrofi e luoghi pii annessi.»
«Lei, lei è troppo...» balbettò Demetrio, agitando la mano stesa nell'aria.
«In quanto poi alla bella vedovina - scusi, Pianelli, se mi permetto di parlarle col cuore in mano, da padre - in quanto a lei, vorrei lavarmene a tempo le mani, in due acque, se non basta una, e lasciarla, dirò cosí, al suo angelo custode..., le parlo da amico, da padre, e, se crede, anche da suo superiore....»
Gli occhi di Demetrio si trovarono pieni di lagrime prima ancora ch'egli sapesse perché piangesse. La voce paterna del suo capo, la ragionevolezza de' suoi consigli, lo stato d'irritazione in cui l'aveva lasciato quell'altro vecchio pazzo e, in mezzo a tutto ciò, piú forte di tutto ciò, un improvviso sentimento della sua materiale e rustica ignoranza, finirono coll'avvilirlo.
In che modo aveva sempre vissuto fino adesso, per non accorgersi di ciò che era scritto sulle cantonate di Milano?
Un sentimento di pietosa confidenza lo condusse a fare innanzi al cavaliere tutta la confessione de' suoi imbarazzi. Tenne gelosamente nascosto il motivo che aveva spinto Cesarino a finirla colla vita; ma fece capire ch'egli non poteva rifiutarsi di pagare qualche grosso debito d'onore, per salvare, se non altro, il nome di quei poveri figliuoli, che infine si chiamavano Pianelli... Avrebbe fatto tesoro dei preziosi consigli: e, se gli permetteva di approfittare qualche volta della generosa protezione, sarebbe venuto forse ad importunarlo...
«Ma venga quando vuole: se posso levare una spina da un piede, non sto a farmi pregare... per bacco!»

Beatrice, costretta di nuovo a provvedere a tante incombenze, alle quali prima soleva pensare suo marito o la Cherubina, si sentiva imbarazzata nella sua incapacità e nella sua gran vestaglia a nastri azzurri. Non sapeva dove mettere le mani, né come muoverle, e, dato fondo alle ultime venti lire rimaste, per disordine, in un cassettino dei pettini, si trovò improvvisamente senza un soldo.
Il sor Isidoro, passando da Milano, andò a trovarla; consumò i resti del pranzo del giorno prima, vuotò l'ultima bottiglia di barolo rimasta in dispensa, e se ne andò dopo aver fatto giurare a sua figlia che non avrebbe piú ricevuto in casa quel mascalzone che rispondeva al nome di Demetrio, un asino calzato e ritto in piedi, che aveva osato dire che un Isidoro Chiesa era un gran buon uomo.
Demetrio non c'era bisogno di cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino per lasciarsi tirare ancora in Carrobio.
Dopo tre o quattro giorni i ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità, cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere.
Arabella, smorta come un lino, taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare un'occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo che somigliasse un poco allo zio Demetrio.
Beatrice fece chiamare Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il tipografo nella stamperia dell'Osservatore Cattolico. Arabella gli aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale.
Ma dal momento che non c'erano piú quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il pizzicagnolo non davano piú nulla ai signori Pianelli.
Demetrio aveva dato delle belle parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano piú di belle parole. Ferruccio tornò con la cesta vuota.
Beatrice si fece restituire da Arabella un piccolo cinque franchi d'oro, che il babbo le aveva regalato per il suo compleanno: e, bene o male, si tirò innanzi un altro paio di giorni. Ma la povera donna si sentí abbandonata, e le venne da piangere.
Uscí, vestita come poté, con l'idea di andare a parlare al Direttore delle Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi.
Il commendatore era andato a Roma. Sulla scala s'incontrò col signor Martini, che finse di non conoscerla.
Timida ed imbarazzata, non osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava l'Elisa sarta, e salí fino al terzo piano per ordinarle i vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerí di andare in cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di lire; ma l'Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche di Cernobbio c'era oggi dell'aria cattiva.
Passò il giovedí e tutto il venerdí senza che venisse anima viva.
Pioveva. L'aria e le case avevano di lassú un aspetto grigio e triste sotto l'acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri, impregnando il cielo di vapori stagnanti.
Arabella contava le ore sui battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare dal balcone nella strada.
Passavano carri, tram, carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una città che vive bene, mangia bene, digerisce bene.
Passò un fiume di gente, uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi: passò un funerale colla musica in testa..., passò un carro pieno di masserizie... Un cavallo spinto a corsa scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu tirato in piedi, partí zoppicando, la gente si diradò, la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio non si lasciava vedere.
Una volta sola il cuore della bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere Giovann dell'Orghen, un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse ancora da parte sua: ma Giovann dell'Orghen voltò e scomparve dietro San Giorgio.
Si ritrasse dal balcone tutta fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio, quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un grido di speranza e di gioia nei poveri bambini, che stavano per addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e senza minestra.
Era il maestro di pianoforte.
Il Bonfanti dalla strada aveva veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe ripigliate le lezioni. Egli era in credito d'una ventina di biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto.
Le altre volte il povero Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva d'avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche questa un'occasione di mettere le mani sul piano, perché, dal giorno che il povero maestro era andato all'ospedale col vaiuolo, aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il pover'uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l'organo di San Sisto era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle Benedizioni di San Lorenzo.
«Se la signorina non si sente di prender lezione, vado io di là, se permettono....»
E colla confidenza del vecchio amico di casa, il maestro passò nel salottino e cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire l'ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava, coll'ingenuità dell'artista, che la signora Beatrice avrebbe continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai stati pagati. Solo che, nelle battute d'aspetto e nei brevi intervalli tra un arpeggio e l'altro, gli pareva d'intendere un gran silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre volte c'era quel dolce tintinnío di posate.
Non sapendo come spiegare questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla sua voce stanca di vecchio baritono, l'a-solo del re Filippo.

Dormirò sol nel manto mio regal...

«Scusi, maestro, c'è la mamma che si sente male...» venne a dire Arabella.
«Oh, se avessi saputo... Che cosa ha?»
«Un po' d'emicrania.»
«È il tempo. Allora ci rivediamo martedí?»
«Glielo saprò dire, non so...» balbettò Arabella arrossendo.
«Ad ogni modo, non esca per ora dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giú bene i polpastrelli.»
Arabella cogli occhi gonfi di pianto disse di sí col capo.
«Me la saluti, la signora mammina.»

Il Bonfanti, discepolo della classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che sanno distinguere l'arte dalla ginnastica e dall'acrobatismo, e rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra d'un bravo pianista.
«Che mi fa la forza e la precisione?» diceva. «Anche una locomotiva ha della forza e della precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande pianista.»
L'interpretare una pagina di musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l'arte è nei polpastrelli! In virtú di questo metodo, teneva i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il Thalberg (il celebre Thalberg ch'egli aveva conosciuto a Monza nella villa del viceré Raineri) aveva definito discorrendo con lui le senk vertú teolegal de la musik.
Dopo le cinque note bisognava aver pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri, per secondare l'ambizione delle scolare e delle mammine, fanno suonare il pezzo concertato quando l'allievo non sa ancora mettere giú i polpastrelli.
In questa maniera egli procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio lo lasciavano morire di fame.
Discese le scale, si fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e mormorò:
«Potevo almeno farmi dare un ombrello.»
E andò a fare quattro passi.
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