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Opere pubblicate: 19994
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PARTE SECONDA
LE TRIBOLAZIONI DI UN POVER'UOMO I Beatrice rimase una settimana alle Cascine e tutto quel tempo non fece che piangere e disperarsi. Trovava crudele che non le avessero lasciato vedere almeno una volta il suo Cesarino, e ne incolpava la ruvida ostinazione di Demetrio. A poco a poco però le cure e le parole della buona gente che l'avevano ospitata, la vista della campagna, le ciarle spensierate dei bambini dissiparono il primo spavento, e richiamarono il suo cuore ad altri pensieri. Demetrio le scrisse una volta che aveva bisogno di parlarle e che l'aspettava a Milano. Quando si trovò di nuovo in casa sua e che girò gli occhi intorno, provò ancora la vertigine del sentirsi come isolata in cima a una pianta: non sapeva che cosa fare, che cosa dire, dove mettere le mani. Cesarino, nella sua adorazione, soleva risparmiarle fin la fatica di pensare. Previdente, preciso, minuzioso, e in molte cose fin troppo donnicciuola, oltre all'andamento della casa, si incaricava lui delle scarpette, dei vestitini dei ragazzi, della loro istruzione, e dava il suo parere sul taglio, sul colore dei vestiti della moglie. La sua morte improvvisa fu quindi per la povera donna come se le tagliassero via le due braccia. Non sapendo a che santo raccomandarsi, appena arrivata, mandò a chiamare il cognato. Demetrio dal canto suo si grattò in testa con tutte e due le mani, e si raccomandò al suo angelo custode. Sentiva bene di non essere troppo desiderato, per quanto mandassero a cercarlo. Cesarino, parlando di lui, ne aveva sempre fatta una pittura come di uomo avaro e bigotto, capace di mangiare le mila lire altrui sotto l'apparenza della religione: e sua moglie non pensava diversamente. In quanto ai ragazzi o non lo conoscevano, o non potevano volergli bene. E con questi bei precedenti egli doveva andar fin laggiú in Carrobio a predicare l'economia, l'ordine, a mettere forse la bambina a far la sarta, i bimbi a bottega... e tutto ciò con qualche migliaio di lire di debiti sacrosanti da pagare, e coll'obbligo di tenere nascosto a quei meschini i motivi che avevano spinto un padre di famiglia alla disperazione, e la morte rabbiosa che aveva fatto. Egli avrebbe potuto rispondere: "Non vi conosco..." Oppure: "Non ho tempo!" Ma bisognerebbe in certi casi avere un sasso al posto del cuore, o credere che al disopra delle tegole non ci sia che aria, fumo, e nient'altro. In questi pensieri fece tutta la strada, sforzandosi inutilmente di preparare un esordio alla sua predica. Stava per andar su, quando il Berretta, il portinaio: «Ehi! ehi!» lo chiamò indietro. Si voltò e vide in compagnia del sarto un uomo di mezz'età, scuro di pelle, torbido come il temporale, con due folti sopraccigli neri, che il Berretta presentò come el sor ragionatt. «L'è lui il fratello del defunto?» domandò la degna persona, aggrottando i sopraccigli di carbone, mentre colle mani dietro la schiena faceva girare una bella canna colla punta d'avorio. «Perché?» chiese Demetrio, con un piede su un gradino, l'altro su un altro. «Dimando se l'è lui...» tornò a dire con impazienza il signor Maccagni, con un viso d'uomo nauseato. «Sí, sono io....» «Me ne congratulo tanto» continuò l'altro dimenando il bastone come una coda. «Quel caro suo fratello non poteva farmi un servizio piú bello.» Qui prese la parola il Berretta che, piú scialbo del solito nel suo panciotto di fustagno pieno di filacce, colla suggezione naturale di chi parla alla presenza di un'autorità, spiegò come el sor ragionatt non fosse altro che il padrone di casa. «Proprio un bel servizio!» seguitò quella brava persona, che possedeva tre o quattro case in Milano, «proprio un bel servizio. Non bastava non pagare l'affitto e tirare in lungo con delle scuse: no: bisognava anche dare uno scandalo, fare parlare le gazzette e deprezzare lo stabile. Qualcuno me li deve pagare i danni, non c'è santi, e io guardo lui....» Demetrio mosse due volte il capo e guardò con un certo stupore el sor ragionatt come per dire: Che ci entro io?.. «L'è inutile che adesso mi faccia gli occhi... Io guardo lui. Sono tre semestri in arretrato che devono essere pagati subito, o metto il sequestro sulla mobilia, io. Roba da ridere! non posso farmi pagare dai morti, e guardo i vivi. Come se a Milano mancassero i fossi per annegarsi. Bisognava proprio impiccarsi in casa mia, far parlare la gente, deprezzare lo stabile. Sí, con quelle poche tasse...» «Ma capisce che io....» «È un pezzo che mi si mena per le belle sale, caro mio signor riverito!» tornò a replicare quel bravo signore, ingrossando la voce e gli occhi, «e io, se non pago le tasse, l'esattore non s'impicca, no, lui! Sono tre semestri che si tira avanti, ora con una scusa, ora con un'altra e titup e titep...» qui el sor ragionatt imitò benissimo la voce d'un bambino viziato. «Roba da ridere! Son cinquecento lire per semestre, e di parole ne ho piene le... i... Ci vuol altro che rompere la testa tutti i momenti colle riparazioni, e non essere mai contenti, e il suolo, e la tappezzeria, e la stufa, e il caminetto, e l'inglese e la francese. L'è finita adesso. Son mille e cinquecento lire che mi vengono e, se per Pasqua non vedo i rispettivi, metto il sequestro e chiamo lui responsabile.» Il Berretta, spaurito di questa grossa voce che minacciava il sequestro, che per un portinaio timido e bisognoso è come dire una baionetta nel ventre, alzò un poco le mani verso il signor Pianelli, come se volesse dire: "Paghi un po', fuori dei piedi...." «Anch'io devo vedere come stanno le cose...» osò dire Demetrio. «Le cose stanno come dico io. Pasqua è qui, corpo di un cane! e quando non si ha da fare il signore si lascia stare, si paga prima, e soprattutto non si deprezzano gli stabili... Uomo avvisato.» «Io vedrò.» «Uomo avvisato!» replicò il padrone, voltando le spalle. Fece quattro passi fino in fondo al portico, si voltò e gridò ancora a Demetrio: «Uomo avvisato!» Quando Demetrio non fu piú a tiro, la tempesta si scatenò sul Berretta, che non aveva chiuso coll'arpione l'uscio del solaio. «C'è la mamma?» chiese lo zio ad Arabella che venne ad aprire l'uscio. «È ancora a letto.» «Quando siete tornati?» «Ieri.» «Chi vi ha accompagnati?» «Il sor Paolino.» «Va a dire alla mamma che son qui.» «Resti servita in sala.» Arabella condusse lo zio in un gabinetto celeste pallido, e corse a svegliare la mamma, che, stanca del viaggio e dell'emozione, dormiva ancora. A Demetrio tremavano un poco le gambe. Tre semestri in arretrato, oltre il resto! «Mamma!» disse sottovoce la bambina, mettendo una manina leggiera sulla fronte di lei. «C'è qui lo zio Demetrio.» «È qui?» esclamò Beatrice, balzando via, come se le avesse detto: c'è una biscia nel letto. «È venuta la Cherubina?» «Non ancora.» «E i ragazzi? Sei buona di vestirli? E il lattivendolo è venuto?» «Nemmeno lui.» «Manda Ferruccio a chiamarlo e a prendere il pane.» «È già andato alla stamperia, questa mattina.» «Bene, vengo io.» Arabella entrò nello stanzino, dove Mario e Naldo cicalavano in letto sotto le coltri, facendo padiglione con le gambe. Non sapevano capire perché papà fosse morto e che roba fosse la morte. Per Naldo, il minore, la morte era qualche cosa di somigliante ad un cavastivali, che si vedeva dietro l'uscio, appoggiato al muro, terminato in due corna di legno. Demetrio ebbe ad aspettare un bel pezzo prima che sua cognata fosse visibile. Non perdette però il suo tempo. Era una settimana che andava raccogliendo conti e conterelli, senza quelli che gli portavano a casa spontaneamente i creditori nella speranza che egli potesse pagare. Oltre al grosso debito verso il Martini - che bisognava pagare per il primo, - oltre ad una nuvola di debitucci, venivano ad aggiungersi ora questi tre semestri della pigione. Un abisso, insomma! Guardandosi intorno, restò meravigliato del lusso del gabinetto. Tanto di tappeto in terra, candelabri di bronzo dorato sul camino, poltrone di velluto, specchiere, stipetti di vetro... Sopra un tavolino posto in mezzo alla sala erano schierati i ritratti di famiglia in piccole cornici di legno traforato. Cesarino era rappresentato in quattro o cinque guise: - in divisa militare, in borghese, colla barba, senza la barba, sempre elegante. Il piú grande di questi ritratti lo riproduceva in abito nero, col largo sparato bianco sul petto, con i piccoli favoriti alla lord, e la sigaretta nella punta delle dita. I ragazzi facevano diversi gruppetti - fra cui uno di Naldo che usciva da una cesta di vimini con su scritto: "Pacchi postali." Un pianoforte verticale era posto di sbieco nel cantuccio tra la finestra e il caminetto. - Arabella da un anno prendeva qualche lezione dal maestro Bonfanti, l'organista di San Sisto, e faceva già qualche progresso. Ma di tanto in tanto anche la mamma metteva le mani sul cembalo, per quanto intendesse la musica come una testuggine. Di contro alla specchiera, in una cornice d'oro ovale spiccava un grande ritratto ad olio di Beatrice, opera d'uno scolaro del Cremona, amico intimo di Cesarino. L'artista della scuola nuova s'era sbizzarrito nei gialli, e la bella lodigiana impettita, colle braccia nude, e con curve enfatiche, in mezzo a una nuvola cenerognola, guardava dall'alto con un'aria di regina che non era nell'indole dell'originale. Demetrio andava mentalmente facendo i conti di quel che si sarebbe potuto ricavare a vendere tutta quella roba a un onesto rigattiere, dato e concesso che fosse già pagata. Arabella venne a dirgli che la mamma stava vestendosi. Dietro di lei, coi piedi nudi, quasi nascosto tra le pieghe della gonnella, Naldo fissò gli occhi in faccia allo zio, con espressione di paura, mentre Mario spiava dallo spiraglio dell'uscio. Rimasto solo tornò a riflettere dolorosamente. Purtroppo aveva avuto ragione nel giudicare Cesarino una testa leggiera, troppa ragione; ah sí! ci sono dei torti che non si darebbero via per tutte le ragioni della giurisprudenza rilegata in oro e marocchino. Mentre egli stava seduto sullo scrimolo d'una sedia, come se temesse di schiacciare della roba non pagata, sentí un non so che di morbido che gli spazzolava le gambe. Era Giovedí, la brutta bestiaccia, che egli aveva già cacciata a colpi di piedi nella coda, il giorno che i Pianelli erano andati alle Cascine, e che, dopo una settimana di vita vagabonda, viste dalla strada le finestre aperte, veniva anche lui a cercare qualche cosa per far colazione. Questo intese dire la povera bestia col suo mugolío pietoso e col trepido dimenare del suo soldo di coda; ma lo zio gli disse chiaramente: «Puoi fare il tuo testamento, animale del presepio, se non hai altri santi. Non ne ho del pane per i tuoi denti.» Giovedí, interpretando secondo il proprio cuore le parole brontolate dallo zio, si pose ad abbaiare. Era l'unico mezzo datogli dalla natura per commuovere l'animo della gente. «Crepa!» disse Demetrio. "Beb!" abbaiò di nuovo il cagnetto, ponendo le zampe sporche sui pochi calzoni dello zio e mostrando in una doppia fila tutti i suoi denti bianchissimi. «Scoppia in mezzo, cane del diavolo!» brontolò di nuovo Demetrio, schiaffeggiandogli il muso col fazzoletto di cotone turchino, che adoperò per ripulirsi le ginocchia. In quel momento l'uscio si aprí e comparve madama, in una grande vestaglia bianca di flanella. Demetrio si agitò, si alzò un poco, tornò a sedere, chinò gli occhi sul tappeto e balbettò un "riverisco" quasi inintelligibile. Anche Beatrice si sentiva confusa e imbarazzata di trovarsi a tu per tu con quel famoso cognato, che Cesarino aveva sempre dipinto come un orsacchiotto, un intollerante bigotto, molto abile nel far scomparire le mila lire. Nei pochi giorni ch'era stata alle Cascine, aveva ricevuto una visita del papà, il sor Isidoro di Melegnano, che la mise in guardia e le comandò di non fidarsi troppo dei raggiri di suo cognato. Si può pensare se con questi precedenti ella potesse fargli una grande accoglienza. Demetrio, dal canto suo, persuaso per esperienza che la bellissima donna era una testa d'oca, che aveva aiutato a spingere Cesarino sull'orlo del precipizio, impacciato per indole e per abitudine a trattare colle donne, non sapendo da che parte cominciare, passò due o tre volte il fazzoletto sugli occhi e sotto il naso e finalmente domandò: «Come sta Paolino?» «Sta bene e mi ha detto di salutarvi.» «Sta bene anche la Carolina?» «Sí, sta bene anche lei.» «Mi avete fatto chiamare?» «Son tornata ieri e non ho nessuno a Milano, in questo momento. Non è nemmeno venuta la Cherubina, stamattina. Volevo far avvisare l'Elisa sarta che siamo tornate e ordinare i vestiti di lutto. Nella confusione non ho avuto tempo di pensare a nulla, e ho dovuto farmi prestare qualche fazzoletto nero dalla Carolina.» «I vestiti di lutto li avete già ordinati?» «Non ancora, sicuro. Non potrei mettere il piede fuori dell'uscio.» «Scu... scusate» riprese con un tremito nervoso Demetrio, «e questi vestiti sono proprio ne...ne... nec...essari?» Beatrice lo guardò con aria stupefatta, come se avesse domandato se è proprio necessaria l'aria per vivere. «Dico questo perché è una spesa... e se si potesse risparmiare qualche spesa.» «Come, risparmiare? che cosa direbbe la gente?» «Certo fu una disgrazia, e voi avete il dovere di piangere quel povero uomo; ma di spese ce ne son già troppe....» «Prendete un caffè, Demetrio?» interruppe Beatrice. «Grazie, non ne piglio mai!» rispose bruscamente il cognato, che, continuando il discorso di prima, soggiunse: «Mi sono spaventato, cara voi.» «Di che cosa?» «Dello stato delle cose. Non c'è piú stipendio, non c'è diritto a pensione, e ci saranno a quest'ora quasi seimila lire di debiti.» «Non è possibile...» disse freddamente e con un leggiero sorriso ironico Beatrice, per fargli capire che non era disposta a lasciarsi abbindolare. Demetrio, a questa risposta cosí fredda e categorica, alzò gli occhi e li fissò un istante in viso alla sua cara cognata, contraendo le labbra a un tremito nervoso, che pareva un sorriso sardonico. «Non è possibile» tornò a dire Beatrice nella sua matronale tranquillità. «Voi non siete obbligata forse a sa... sapere e siete da compatire. Ma qui c'è un fascio di conti... Cesarino aveva le idee troppo grandi.» «Bel capitale! Bisognava vivere con decoro, si sa.» «Lasciamo il decoro, per carità!» «Si sa, un regio impiegato... Non tutti possono rassegnarsi a vivere di pane di segale o di polenta....» «No, no... che segale e che polenta! Adesso è morto e noi dobbiamo pregare per l'anima sua, ma vi confesso che sono spaventato. Ci sono tre semestri dell'affitto che bisogna pagare per la Pasqua, o il padrone mette il sequestro. C'è un vecchio conto dell'orefice Boffi, che mi ha portato lui stesso all'ufficio... Aspettate; perché non diciate che invento tutto per il gusto d'inventare, ho portato con me tutte le pezze giustificative. Quando hanno saputo che Cesarino era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende, i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con me, pretendono che io abbia a pagare... Io? con che cosa pagare? e che c'entro io?» Demetrio, tratto il suo fascio di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e cominciò a spiegarle sulle ginocchia. «Arabella!» chiamò la voce chiara e argentina di Beatrice. «Che cosa vuoi, mamma?» dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella. «Portami il caffè.» Demetrio frugò un pezzo nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli. Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca, come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una pagina: «Ecco, Angelo Boffi, orefice e bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150....» «È un braccialetto che Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato.» «Fu pagato?» «Io credo di sí.» «Il signor Boffi dice di no....» Beatrice cominciò a guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave tenerezza. Vedere il povero cane e sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo, stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si rannicchiò a piangere anche lui. «Dove sei stato fin adesso? o povero Jeudi, o Jeudi... dov'è il tuo padrone?» Giovedí rispondeva alla sua maniera, mugolando. Demetrio chinò il capo, lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la padrona e il cane finissero di piangere. Cogli occhi fissi nel vuoto, il pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste realtà, che la circondava da tutte le parti. «Non fu pagato questo, come non furono pagati gli altri» riprese a dire con un tono uguale e freddo, dopo un istante. «C'è qui un altro conto del signor Cena parrucchiere per... per... saponi e profumerie... lire 56... Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale.» Beatrice arrossí, si rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura. Demetrio, sempre a capo basso, col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti, seguitò: «C'è un conto anche dal pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non è polenta... Conto del calzolaio Bianchi in lire... cin... cin... quecento settantasei... Una bagattella!.. Conto non quietanzato De Paoli per tap... tappezzeria... dice tappezzerie? duecento quarantacinque e settantanove c...entesimi.» Man mano che leggeva, la fronte del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli. Arabella entrò col vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano. La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato. Dalla cucina veniva un gran chiasso di voci e un gran picchiamento. «Che fanno quei matti?» chiese Beatrice. «Dicono che hanno fame e picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è venuto, e nemmeno il fornaio.» «Hai mandato Ferruccio?» «Ma non c'è...» rispose Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito del pianto. «Bene; di' loro che stiano quieti che adesso vengo subito.» «Settimo: Conto non quietanzato del farmacista....» «Scusate, Demetrio,» interruppe questa volta con un atto d'impazienza Beatrice «io non so nulla di questi conti che dite voi....» «Non volete dire con ciò che me li invento io....» «Non sono in grado di dire se questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li farò vedere a mio padre....» «Non cerco di meglio... Ma non vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci, per carità. Tiriamo i remi in barca... Che cosa può fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?» «C'è ancora tutta la mia dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva.» «Può il signor Isidoro mantenere oggi le sue promesse?» «Adesso subito forse no, perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra un anno?» «Da quanti anni dura questa causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?» «Mio padre è un uomo di buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza.» «Lo so, non facciamoci illusioni....» «Che cosa volete dire? che debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?» Beatrice aveva letto un romanzo, Lo Sparviero e la Colomba, in cui una giovine bella e ricca ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna" pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai..." E si sforzava, nella sua semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito la conduceva al teatro Dal Verme. Demetrio sentí una gran tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là, picchiando nella cassa della legna... Pensò che il sor Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa d'oca. Per tutte queste ragioni, dopo aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi: «Se io volevo dare qualche consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non vi ho detto tutto... perché è inutile che sappiate tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli dalla miseria e dalla fame....» «Che cosa dite?» esclamò Beatrice irritata. «Lasciatemi finire e poi vi toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli.» Beatrice tornò a sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso. «Io ero venuto per dire che bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri, o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto.» «E che cosa bisognerebbe fare? sentiamo» provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida. E intanto si paragonava nella sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un brutto cagnaccio. «Punto primo, si cominci a vendere tutto quello che non è necessario.» «Vendere!» esclamò Beatrice, spalancando tanto d'occhi. «Sí, vendere, o restituire quello che non si può pagare....» «Ah sí?» disse con un sorrisetto ironico la povera donna. «Punto secondo, bisogna restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto della gente e rivoltare le maniche, come si dice...» «Ah sí?» tornò a dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra. «Non è il caso di mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via, qui c'è della roba, voi avete portato della roba....» «Ah chiedo scusa!» interruppe questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, «della roba mia la padrona sono io....» Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: «Scusate, questi debiti io non posso pagarli....» «Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti....» Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: «Ehi! ehi!» dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell'offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"
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