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Opere pubblicate: 19994
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Info sull'Opera
IV
Demetrio Pianelli, la mattina della prima domenica di quaresima, verso le sette, andava a sentire la sua messa alla vicina chiesa di Sant'Antonio, quando, giunto all'angolo di San Clemente, si incontrò in Ferruccio, che correndo e ansando gli domandò con lo spavento negli occhi e nella voce: «È lei il fratello del sor Cesarino?» «Eh?» esclamò Demetrio, accartocciando la pelle della faccia, in una smorfia d'uomo che stenta a capire. «Venga, il sor Cesarino s'è ammazzato.» «Chi, chi? chi sei?» balbettò Demetrio agitando le mani. «Mi manda mio padre.» «Chi, chi? chi è tuo padre?» «Il portinaio del Carrobio, il Berretta. L'hanno trovato morto stamattina sul solaio.» Ferruccio tremava come una foglia nel dire queste parole. Demetrio vide dapprima innanzi a sé un gran buio, poi gli parve di perdere l'equilibrio. Al buio successe un bagliore fosforescente come quando uno ti lascia andare una terribile frustata attraverso la faccia. Poi si mosse per una forza istintiva e prese a galoppare dietro al ragazzo che, voltandosi di tempo in tempo, cercava di raccontare la storia. «Come ammazzato? da quando si è ammazzato? perché si è ammazzato? Chi? Cesarino? Oh, povero me..., o Signore, o Madonna Santissima.» E quanta fu lunga la strada da San Clemente al Carrobio, il povero Demetrio non seppe dir altro. La voce era corsa in Carrobio e già cominciava a radunarsi un po' di gente. «Che cosa c'è?» «Si è impiccato!» «Chi?» «El Poncin del Carrobi!» disse un parrucchiere a una bella sartina che andava a scuola. «Ehi reverissi!» La bella biondina cercò di farsi largo tra la gente raccolta davanti alla porta. Dalla bottega del fornaio vicino erano usciti i lavoranti. Uno, il piú magro, vestito soltanto di una camicia e di un paio di calzoni di tela, con le maniche rimboccate fino alle spalle (con quel freschino) cercò d'infarinare un poco la bella bionda. «Per te sí, mi truciderei, bellezza» disse il magruzzo in pianelle, a cui la brezza gonfiava la camicia sulla schiena. «S'è impiccato il padrone di casa, perché non sapeva dove mettere i denari.» Uno nominò lord Cosmetico e subito corse la voce che s'era ammazzato un inglese. «Dove?» «All'albergo della Gran Brettagna.» Dalle finestre molte donne in cuffia e in casacchino bianco domandavano, rispondevano, facevano esclamazioni: «Cara Madonna! Signor, che scènna! Ehi, sora Rachèlla!...» Arrivò Ferruccio, che precedeva Demetrio. Si fece largo nella folla e gridò: «È qui.» Intanto giungeva anche un delegato della polizia con alcune guardie. Svegliato al bisbiglio e al rumore dei passi su e giú per la scala, mi vestii in fretta e scesi anch'io in corte a vedere. Il Berretta, smorto come una rapa, mi raccontò il caso. Il guattero dell'osteria, salito tra le cinque e le sei a prendere un cesto di carbone, aveva dato del capo in due gambe. Corse giú senza anima, senza una goccia di sangue, contò la cosa al Berretta che mandò a chiamare le guardie. In silenzio andarono su, passando in punta di piedi davanti all'uscio dei Pianelli che dormivano ancora. Il macellaio, un giovinotto tarchiato e forte come un toro, prese in braccio Giovedí, che seguitava ad abbaiare contro l'uscio, con una mano gli strinse il muso per farlo tacere e se lo portò via. La povera bestia si dibatteva nelle strette come un'anguilla. Il Berretta stava facendomi vedere la mano con cui aveva aiutato a distaccare il morto, che teneva aperta in aria, lontana dal corpo, come se non fosse piú sua, quando sopraggiunse il signor Demetrio. Era la prima volta che vedevo questo bravo signore, che non somigliava per nulla a suo fratello, non tanto per esser egli piú vecchio, quanto per la espressione, per il colorito del viso e per il modo di vestire. Mentre Cesarino era ciò che dicesi a Milano una cartina, di pelle fina e bianca, sempre elegante, pulito e aristocratico, questo signor Demetrio aveva all'incontro l'aria di un vecchio fabbro vestito coi panni della festa. La pelle era cotta dal sole, rugosa: la fronte bassa coperta dai capelli, che uscivano quasi a foggia di un tettuccio, di un colore rossiccio e duri come lesine, com'erano i baffi duri e rasati, che coprivano un poco il labbro. Nelle orecchie arricciate come frasche di cavoli, qua e là rosicchiate dal gelo, portava anellini d'oro secondo il costume dei contadini della Bassa Lombardia, che credono con ciò di evitare il mal d'occhi. Scarso di parole, dalle poche sillabe che ci scambiammo a' piedi della scala, mi accorsi che stentava a metter fuori certe consonanti. «Dov'è?» chiese con gli occhi gonfi, perduti nel vuoto. «Importa che in casa non sappiano nulla, se si può. Povera gente!» gli dissi. Facemmo i quattro passi che conducevano alla scuderia. Lungo il muro, tra le ruote di una carrozza c'era una stuoia stesa sul selciato, dalla quale uscivano due scarpette lucide da ballo. Non osammo varcare la soglia. Col capo basso e col cuore pieno dei mille pensieri, che ispira sempre la vista d'un cadavere, si stava lí come impauriti, quando un rumoroso battere di pantofolette chiamò la mia attenzione e mi fece guardare in su. Arabella, coi capelli sciolti, uscita sul terrazzino verso corte, batteva nell'aria le scarpette da ballo della mamma, canticchiando nella chiara allegria di una fresca mattina di marzo. E rientrò canticchiando. «Che cosa si può fare per ingannare la famiglia?» chiesi commosso al signor Demetrio. Egli guardò a destra, a sinistra, in terra, nei cantucci della corte, come se cercasse quel che si doveva fare. Siccome Cesarino aveva detto che non sarebbe tornato per tutto il giorno, cosí c'era tempo di preparare una pietosa bugia. Poi si sarebbe fatto credere a' suoi che un male improvviso, una congestione, un gran freddo, l'avevano portato via. Il signor Demetrio a questa mia idea disse di sí col capo. Di suo soggiunse: «Si potrebbero mandare alle Cascine.» Entrarono i portantini dell'Ospedale che i casigliani avevano fatto venire, posero il morto nella barella, calarono le tendine e, preceduti dalle guardie, con dietro una processione di gente, presero la via Torino verso l'Ospedale. Il giorno dopo, un'ora prima di sera, una carrozza funebre fatta come una scatola, tirata da un cavallo nero, usciva dalla porta dell'Ospedale Maggiore, quella che dà sul Naviglio, e, disceso il ponte, si avviava lentamente per la strada deserta di San Barnaba verso il bastione, e verso il vecchio cimitero di Porta Vittoria, detto il Foppone. Piovigginava. Dietro la carrozza, che lagrimava nero, coperto, quasi sepolto da un grande ombrello, cinque o sei passi lontano, come se avesse vergogna di farsi vedere, veniva Demetrio. Non un prete davanti; non un amico intorno. S'era fatto di tutto per portar via il suicida in segretezza, nell'ora che gli amici vanno a pranzo. I giornali, tranne uno, avevan taciuto la cosa e non era stato nemmeno impossibile di far credere a Beatrice e ad Arabella che la morte fosse conseguenza di una sincope, di una congestione. Cesarino andava soggetto a forti mali di capo: gli strapazzi del carnevale, il correre, l'affannarsi, l'agonia di un vecchio amico... Insomma un po' per uno, coll'eloquenza che in queste circostanze la carità spontaneamente suggerisce, si diede alla povera donna la tremenda notizia, vestita alla meglio di una santa bugia; e fatta venire una carrozza, Demetrio, colle belle e colle buone riuscí a condurre la vedova e i ragazzi, piú storditi che persuasi, alle Cascine Boazze, in casa di un parente. Egli tornò subito a Milano. Ora cogli occhi fissi al cerchio della ruota che girava innanzi a lui, dopo due giorni di corsa, di affanno, di stordimento, cominciava a riordinare un poco la matassa arruffata de' suoi pensieri. Era un sogno doloroso da cui non poteva svegliarsi. Colle tristezze nuove si mescolavano le reminiscenze vecchie della sua vita passata, i dissidî domestici, i lunghi guai che lo avevano diviso da suo fratello. Demetrio era nato dalla prima moglie di Vincenzo Pianelli, un buon affittaiuolo per il tempo suo, finché durò la fortuna, ma un uomo assolutamente incapace di resistere ai tempi difficili che vennero poi. Finché visse la mamma di Demetrio, tanto tanto il buon senso naturale di questa donna e il suo grande spirito di economia avevano aiutato a tenere insieme la barca; ma quando, morta lei, pà Vincenzo fece la sciocchezza di sposare un'altra donna, piú giovane di lui una ventina d'anni, addio buon senso, addio economia! La sposina, colla testa piena di farfalle, aveva sposato il vecchio Vincenzo colla speranza di fare un gran partito e portò in casa il lusso, la voglia di spendere, il gusto dei cappellini, dei vestiti di seta, mentre la prima moglie, povera donna, s'era sempre contentata di vestire di lana e di cotone e non aveva messe le scarpe di pezza che due o tre volte in tutta la sua vita. Vincenzo, che aveva allora in affitto un grosso fondo su quel di San Donato, si accorse subito che la barca cominciava a far acqua da tutte le parti; ma era tanto innamorato della sua Angiolina, che non sapeva dir di no, le andava dietro ogni passo, come un cagnolino, e si istupidiva a poco a poco in estasi a contemplarla, quasi che la vecchia Teresa, che ora dormiva in un cantuccio del camposanto e che aveva lavorato tanti anni per lui, non fosse mai esistita. Dopo nove mesi di quel nuovo matrimonio, nacque Cesarino, e il figlio della povera Teresa cadde, come si dice, dallo scanno. Cesarino divenne l'idolo di pà Vincenzo. Per lui ci volle una balia fatta venire apposta da Varallo Pombia, che son cosí belle e famose, e cosí furono risparmiate le fresche bellezze della mammina. Padrino al battesimo fu il cavaliere Menorini, ragioniere e amministratore dei Luoghi Pii, che aveva sempre mostrato per l'Angiolina una speciale tenerezza. Per Cesarino furono tutte le carezze, tutte le speranze. Demetrio, che aveva già dieci o dodici anni, abbandonato all'educazione dei bifolchi e dei famigli, crebbe come si può crescere tra le vacche e i cavalli. Fu un miracolo se imparò a leggere e a scrivere. Man mano che Cesarino diventava grande, crescevano ancora le differenze. A sentire il pà, egli solo aveva ereditato tutto il talento di casa Pianelli; egli doveva fare il dottore o l'avvocato. Appena ebbe raggiunta l'età, fu collocato a Milano, nel collegio Calchi-Taeggi; mentre Demetrio, dopo essere stato qualche anno a Lodi presso un ragioniere a imparare quattro conti, fu presto richiamato a casa a sopraintendere alla stalla delle vacche e alla "casera" del formaggio. Solamente nelle vacanze Cesarino passava qualche dí a casa. Tutto lindo e ripicchiato nella sua divisa di panno nero coi bottoni d'argento e coi ricami d'oro, coi ricciolini pettinati e scompartiti sulla fronte, s'imbatteva in Demetrio che usciva dallo stallone, colle gambe nude fino al ginocchio, i piedi in grossi zoccoli di legno, con in mano una forcona, col corpo sordido e pregno di quel grasso odore che stilla dai letti marci. Era un miracolo se questi due fratelli, incontrandosi, si dicevano un "ciao" a mezza bocca. Stavano a guardarsi un istante, sorpresi, quasi meravigliati l'uno dell'altro, e si voltavano le spalle. Per fortuna alla cascina Cesarino si fermava poco, perché il resto delle vacanze andava a passarlo colla mammina sul lago di Como. La bella Angiolina dopo otto anni di matrimonio, presa dalla malaria, curata male, morí in preda a una terribile febbre d'infezione. Pà Vincenzo rimase indietro piú stupido e piú rovinato di prima. Cominciarono i sequestri: l'Ospedale diede la disdetta d'affitto, e da padroni i Pianelli divennero servitori. Quando sarebbe toccato anche a Cesarino di dare una mano a salvare la casa che barcollava, sempre per consiglio del cavalier Menorini, fu collocato in un battaglione d'istruzione, da dove uscí col grado di caporale maggiore. Poi scoppiò la guerra del '66 e addio casa! Il peso dei debiti, dei protesti, dei sequestri, del padre vecchio, malato, rimbambito, cadde di nuovo sulle spalle del povero bifolco, che non per nulla era nato prima. Mentre la casa si sfasciava da tutte le parti, era bello (bello, per modo di dire) vedere il vecchio pà Vincenzo seduto fuori dell'uscio, al sole, colla bocca aperta, con una berretta di maglia a righe rosse in capo, col fiocchino ritto come si dipinge la fiamma dello spirito santo, le mani sulle ginocchia, gli occhi perduti nell'aria e nel verde pacifico dei prati, in mezzo a un milione di mosche che se lo mangiavano vivo. Demetrio vendette il canterano di maggiolino della sua mamma e coi quattro stracci si ridusse a Milano, dove un suo zio prete, don Giosuè Pianelli, canonico in Duomo, gli procurò un posto provvisorio di scrivano nella cancelleria della Curia arcivescovile. C'era appena di non morir di fame, anche dopo aver venduto tutto ciò che s'era potuto sottrarre alle mani del fisco. A Milano il vecchio Pianelli trovò, se non altro, meno mosche. Tirarono innanzi tre anni, campando colla misericordia di Dio, su qualche ultimo boccone della dote di mamma Teresa, finché non piacque al Dio delle misericordie di chiamare pà Vincenzo in paradiso a trovare la sua bella Angiolina. Quando si trattò di farlo portar via, Demetrio, non sapendo a che santo ricorrere, andò a trovare lo zio prete, un brontolone sempre in collera, che gli prestò cinquantasette lire dietro regolare ricevuta. Demetrio non aveva voluto ascoltare il consiglio di don Giosuè e mandare il vecchio all'Ospedale: cosí gli toccarono in corpo anche le spese del funerale. Eran cose passate da un pezzo: ma queste memorie ripassavano ora davanti agli occhi di Demetrio, come se la ruota della carrozza, girando, ne svolgesse il filo. Né i guai finiron lí. Cesarino, che si trovava in quel tempo a Palermo, scrisse subito a Demetrio per chiedergli i conti ed i residui della sua parte patrimoniale. E a lui di rimando il fratello rispose che il padre era stato sepolto con le cinquantasette lire prestate dallo zio prete; che di roba non c'era piú l'ombra; che le spese di malattia le aveva pagate lui; che era ridicolo parlar di conti e di residui. Cesarino tornò a scrivere che sua madre Angiolina aveva portato cinquemila lire di dote e che, se egli era stato tanto buono e rassegnato finora a non domandare i conti, ora, sul punto di lasciare il servizio militare per farsi una carriera, non poteva piú trascurare i suoi diritti. Demetrio tornò a rispondere al signor sergente-furiere ch'egli non sapeva nulla di dote; che se anche c'erano state le cinquemila lire, il fallimento se l'era mangiate. Venisse e vedesse che cosa era rimasto di casa Pianelli. Il contrasto si fece ancora piú vivo, allorché Cesarino, lasciato il servizio, venne a Milano in cerca d'un impiego. La sua grande aria di superiorità, resa ancor piú altera e imponente da un certo piglio soldatesco, cominciò ad irritare fin dal principio il fratello bifolco, che aveva sul libro vecchio della memoria tutti gli arretrati delle passate mortificazioni. Poiché non c'era piú né babbo né mamma, disse al sor sergente piú d'una verità che gli stava da un pezzo in gola, senza troppo condirla. Cesarino, già fin d'allora molto lord Cosmetico rispose con un risolino ironico di schifo e con un proverbio del paese, che tradotto in lingua povera veniva quasi a dire: da una zucca non può nascere che una zucca. A questa ingiuria, che andava a colpire la santa memoria di sua madre, Demetrio chiuse l'uscio sul muso all'ex-sergente, e da quel dí - cioè da dieci o dodici anni in qua - non si eran parlati, non si eran guardati piú in viso. Demetrio sollevò un momento gli occhi alla cassa e si sforzò di perdonare sinceramente a quel poverino. La morte paga tutti i debiti: cioè non tutti... pur troppo... Pur troppo eran passati gli anni, durante i quali Demetrio, lasciato l'impiego provvisorio della Curia, era entrato col grado di terzo bollatore all'ufficio del Bollo straordinario, collo stipendio di mille e trecento lire: poi, per speciale protezione del cavalier Balzalotti, era stato assunto al grado di commesso gerente in uno dei tanti uffici del registro con cento lire di aumento. Cesarino, sempre coll'aiuto e colle raccomandazioni del vecchio cavalier Menorini, col suo bel congedo in regola e colle sue medaglie commemorative, non stentò a trovare un impiego. Entrò dapprima nel personale viaggiante delle Poste sui battelli a vapore del lago di Como; poi ottenne un posto di ufficiale a Melegnano, dove fece conoscenza coi Chiesa, e dopo qualche anno venne traslocato a una Sezione dei vaglia a Milano, con lo stipendio di duemilacinquecento lire. Cosí egli dimostrò a suo fratello bifolco che un uomo di spirito non ha bisogno della carità di nessuno. Con duemilacinquecento lire, un bell'uomo, di talento, elegante, un regio impiegato, educato in un collegio, poteva aspirare a un bel matrimonio... Non passò molto che una bella domenica Milano poté contemplare sul Corso lord Cosmetico che dava il braccio alla sposa vestita in gran lusso d'un abito di seta color tortorella e in testa un cappellino bianco a piume che si poteva vedere da Monza. Beatrice Chiesa doveva portare nel grembiale quarantamila lire di dote, oltre alle prerogative di una solida salute e di una bellezza senza risparmio. Ma al momento di sborsare i soldi il sor Isidoro non mise fuori che tre o quattromila lire, riservandosi con un'obbligazione di pagare gl'interessi sul resto. Di queste tre o quattromila lire la maggior parte era in corredo di biancheria, il vecchio fondo delle guardarobe di casa Chiesa, cioè piú distintamente ottantaquattro camicie da donna di tela nostrale fabbricata in casa fin dai tempi dei bisnonni (roba che adesso non si fabbrica piú cosí buona); centoventi paia di calze di filo, tutta roba anche questa nata e preparata in casa; venticinque tovaglie grandi, quasi nuove, per trenta persone, che avevano servito qualche volta ai grandi pranzi di casa Chiesa, e piú di duecento tovagliolini di tela eguale, ben grandi da imbacuccare un uomo; quattro dozzine di lenzuola di tela nostrale del 1840 e una grande quantità di foderette e di asciugamani. I coniugi Pianelli menarono subito una vita in grande. Non si nasce lord Cosmetico senza avere il gusto delle belle cose e non si sposa una bella donna senza il desiderio di comparire e di farla comparire. Già il primo anno si cominciò a spendere senza giudizio, dando fondo a quel migliaio di lire che il babbo aveva anticipato sulla dote. In casa Pianelli non si conoscevano le famose grettezze di mamma Teresa, che metteva in disparte i gusci e i mezzi solfanelli! A desinare erano sempre due piatti con frutta e dolci: a colazione si beveva fior di vin di Marsala: la sera si passava al Caffè Biffi, in Galleria, o ai giardini pubblici, o a teatro. D'autunno o era un viaggio sui laghi o un mese di campagna a Erba o a Besana Brianza... E per questa strada il povero Cesarino aveva finito coll'andare in carrozza. «Eccola qui la carrozza!» mormorò Demetrio, alzando di nuovo gli occhi sul carro funebre, che, passata la chiesetta di San Barnaba, infilava l'altra via quasi deserta della Pace. Ma di tutto questo che colpa avevano quei poveri figliuoli? È vero ch'egli avrebbe potuto stringersi nelle spalle, lavarsene le mani e fingere di non conoscere nessuno; ma son cose che si dicono. C'era di mezzo il nome della famiglia, c'erano di mezzo gli innocenti e non è religione solamente il sentire la messa la festa e il confessarsi a Pasqua. E, come se questi pensieri gli cadessero addosso insieme all'acqua che veniva dal cielo, Demetrio andava rannicchiandosi sotto l'ombrello, mentre la carrozza, passata la Rotonda dei Cronici, entrava nel terreno molle e fangoso del bastione. Sí, una grande responsabilità gli cadeva sul capo! Era proprio necessario ch'egli accettasse questa dolorosa eredità senza qualche beneficio d'inventario? Come poteva colle sue millequattrocento lire all'anno pensare alla vedova e a tre figliuoli? La lettera di Cesarino, che egli andava rotolando in fondo alla tasca del suo paltò, parlava di un grosso debito di mille lire verso il signor Martini... Grazie! Eppure se c'era un debito sacro era questo, nel quale era compromesso l'onore di tutta la famiglia e la memoria di un povero padre. Nella sua lettera arida, scritta sul tamburo della disperazione, Cesarino parlava di diritti a pensione, e della dote di sua moglie; ma alla Posta non riconoscevano questi diritti, e in quanto alla dote di Beatrice, chi conosceva il signor Isidoro Chiesa, sapeva che il buon uomo non aveva di grande che la blatera e la presunzione... Ecco come uno va fuori dei fastidi e vi lascia dentro chi resta. Come se di impicci e di strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita! Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le tegole, lontano dagli uomini e dalle donne. La carrozza funebre svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano, dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da Calvairate. Il luogo non è mai bello per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio, che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di carità e di compassione. Povero figliuolo, povero martire..., cosí giovane..., andava ripetendo una voce in fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di chiodi pungenti. Due lagrime dure spuntarono nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la testa di vapori. I becchini, toltasi la bianca cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca, sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un sospiro: Amen. Ritornò in città ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette, piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto. Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta, sentí una voce che lo chiamava per nome. «Che cosa c'è ancora?» esclamò con un fare di uomo seccato. «Sono dell'Ospedale. Ho portato i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la sua buona grazia...» Demetrio masticò tre o quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al lume del lampione a gas, guardò nel borsellino. «L'hoo propi miss in la cassa come on bombon» continuò la voce dell'uomo che parlava nel buio. Bisognò dare una lira anche a costui.
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